Astrid Roth fissava il vuoto con occhi vitrei, seduta a terra nella penombra della dispensa.
Sensazione di freddo. Freddo ovunque, diffuso, alle braccia, le gambe, oltre la camicetta, persino oltre le mutande e i calzettoni che erano tutto il suo abbigliamento.
Respirava a fondo per compensare il bavaglio e placare quei brividi che la percorrevano con insistenza. Polsi e caviglie, legati, avevano iniziato a dolere.
La poca luce da sotto la porta disegnava le sagome dei salumi e degli affumicati che pendevano intorno, appesi, oscillando al ritmo del moto dell’aeromobile.
Astrid Roth, prima donna a entrare nella Fanteria dell’Aria.
Sua madre l’avrebbe voluta cuoca nella locanda di famiglia.
Prima donna in armi sul Rammstein, il dirigibile più grande in dotazione alla Luftmarine.
Primo giorno.
Un vero soldato tedesco: impettita nella sua uniforme nuova, di quel fantastico color hellblau che le ricordava il cielo primaverile, lo Stahlhelm in testa, la carabina in spalla. Un sorriso di purissimo entusiasmo stampato in faccia.
Ora, svestita e segregata nelle cucine di bordo.
Fissava il vuoto, le trecce bionde bavaresi abbandonate sulle spalle.
A tenerla sveglia, oltre al freddo e l’odore del sangue che filtrava da sotto la porta, il tramestio dei pensieri, il tumulto delle immagini.
La conferenza delle nazioni per evitare la guerra, sul Rammstein perché la diplomazia s’incontrasse in un luogo neutrale: le nuvole.
Era salita a bordo, quella mattina, sapendo di star facendo qualcosa d’importante per la Germania, per il mondo, per sé.
E poi un incarico di grande responsabilità, assegnato dal capitano Falken in persona: sorvegliare le cucine.
Le cucine.
Ricordava la cattiveria dei commilitoni alla scuola d’addestramento FdA: una ragazza in Fanteria dell’Aria, prima volta da quando il Kaiser aveva aperto le forze armate alle donne.
Torna in cucina, Roth!
Fammi un sandwich, Roth!
Chi ha fatto uscire Roth dalle cucine?!
Sempre la cucina, in ogni battuta, ogni maledetta presa in giro.
Anche l’incarico, sorvegliare le cucine: un modo per non averla tra i piedi al cospetto dei diplomatici più importanti del mondo.
Sempre la dannata cucina.
Espirò, mosse le mani indolenzite.
Le aveva sorvegliate, le cucine, tutta la mattina, impettita nella sua uniforme hellblau, trattenendo una lacrima a ogni sghignazzare dei commilitoni di passaggio.
Finalmente al tuo posto, Roth!
Nadir, il capocuoco, era stato gentile.
Non era tedesco, Nadir, veniva da un qualche posto in Oriente; sempre gioviale, con la risata facile, i baffoni neri, la pelle olivastra.
Nel mio Paese, aveva detto, le donne ci passano la vita in cucina: tu sei fortunata.
A bordo del Rammstein, in uniforme FdA, fiera e impettita come un vero soldato tedesco.
Fortunata.
Gli insaccati oscillavano, come lei, all’impercettibile moto del dirigibile.
Svestita, legata, imbavagliata, rinchiusa.
Non sapeva più nulla. Non c’erano suoni, in cucina, già da molto. Solo l’odore del sangue che filtrava dalla soglia, quel poco di luce, il suo respiro.
Erano usciti dalla torta.
Una torta enorme, chiusa dentro una cassa 3x4 metri: arriva dai Balcani, aveva detto Nadir, l’ha fatta fare l’Arciduca d’Austria.
Erano usciti da lì.
A lei il dubbio era venuto: c’erano strani rumori dentro l’abnorme cassa, messa in un angolo e ignorata da tutti. Strani rumori, come di sbuffi.
Chi mai aveva pensato di controllare la torta dell’Arciduca?
Così aveva chiamato il sergente Fuchs.
Forse dentro la torta c’è il corpo di ballo di Vienna.
Ancora un falso allarme, Roth, e dalla torta ci uscirai TU al dessert.
E le risa, le solite.
Le aveva ancora in testa, le risa, confuse col mischione dei pensieri. Con le urla, quando, proprio su quelle risa, la cassa si era aperta. Aperta da sola, con un botto.
Erano usciti da lì, dalla torta.
Le urla, di Fuchs e la sua unità. A lui era stata vaporizzata la testa con un colpo di blastatore a pressione; un altro era stato stritolato dalla chela meccanica.
Astrid aveva già visto un esoscheletro Koloss solamente nei disegni sul manuale d’addestramento. Due metri e mezzo di corazza a piastre rivettata, due armi da fuoco primarie sul braccio destro, una chela da sfondamento sul sinistro. Servo-motore modello Kazan, imbullonato a caldo, con più cavalli-vapore di qualsiasi sua controparte tedesca.
Un incubo meccanico.
Sulla paratia pettorale ci avevano spennellato il nomignolo Gav.
Gli altri due FdA avevano puntato le carabine e sparato a raffica: come fargli le carezze.
Quello li aveva schiantati entrambi con un manrovescio.
Astrid sospirò. Odore di sangue da sotto la porta.
Svestita, legata, imbavagliata.
Il freddo e i residui d’adrenalina.
Anche lei, nonostante il terrore, aveva sollevato l’arma.
C’era una seconda persona, dentro la torta, una donna dai tratti balcanici, forti, naso a punta e capelli rossi acconciati a treccine. Astrid s’era trovata di colpo il mirino luminoso della sua pistola telemetrica Sfondakorazze puntato sul naso.
Primo giorno in servizio.
S’era arresa e lasciata disarmare. Con orrore suo e di Nadir, a quel punto diversi dei cucinieri avevano svestito i grembiuloni, tirato fuori armi dai cesti d’insalata e sparato in testa ai cuochi veri rimasti, tranne Nadir.
Era un attacco, un attentato.
Alla conferenza di pace.
E il nemico non era arrivato dal cielo, ma dalla cucina. La dannata cucina.
L’uomo alla guida del Koloss, di cui si vedeva solo la faccia, incastonata sotto il cupolino protettivo, era un ragazzo giovane, baffetti sottili e occhi folli. S’era infuriato, protestava ch’eran stati scoperti prima che la torta fosse portata in sala, dove potevano saltar fuori e vaporizzare l’Arciduca d’Austria, e ora arrivarci senza far fuggire tutti era impossibile; ma lei, la donna con le treccine, aveva sorriso diabolica.
Aveva un piano B, ideato al momento. S’era voltata a guardare Astrid con occhi di ghiaccio.
La prima donna FdA, e dove t’hanno messa, cara? In cucina.
La dannata cucina.
Ma ti riabilitiamo noi, bella: tu ucciderai l’Arciduca e lo farai per il nostro Paese.
Parlava un tedesco fluente ma accentato. Così Nadir s’era trovato la dannata pistola alla tempia e lei, in fretta e furia perché il cuoco singhiozzava che aveva famiglia, s’era dovuta svestire di tutto.
Legata, imbavagliata, rinchiusa.
Se non le avevano sparato era perché la sua uniforme serviva intonsa e perché avrebbe fatto, lei, da capro espiatorio.
Astrid sospirò, nel buio, dietro il bavaglio.
Ora c’era una terrorista straniera con indosso la sua amata uniforme hellblau e l’elmetto, che era andata ad assassinare l’Arciduca per far fallire la conferenza e far cadere la colpa sulla Germania e su di lei. Avevano pure gli stessi occhi azzurri.
Astrid Roth, prima donna FdA.
Voglia di piangere, anche se un FdA non piange mai.
Di colpo sentì un tonfo, fuori.
“Fraulein Roth?”
Si rianimò.
Sentì maneggiare la serratura, poi aprire la porta: un taglio di luce bagnò la stanza, lei si mosse, mugolò dietro il bavaglio. Tra i salumi appesi comparve il volto tondo di Nadir.
“Fate silenzio, per l’amor d’Allah, quei cani terroristi sono ovunque.”
Con un paio di forbici da pollo le slacciò i piedi e le mani; lei si alzò, si levò il bavaglio.
“Come sei riuscito a…?”
“Mi hanno lasciato in vita perché continuassi ad amministrare il pranzo.”
“L’Arciduca,” mormorò lei, “forse siamo in tempo!”
“Lasciate stare, Fraulein, dobbiamo andare alle capsule di salvataggio! La colpa dell’assassinio finirà su di noi, capite?!”
“No! Un FdA non fugge mai!”
Astrid uscì dalla dispensa: la cucina era un mattatoio, coi corpi riversi dei cuochi e dei suoi commilitoni; c’era anche uno dei banditi, cui Nadir aveva spaccato la testa con un mattarello modulare.
Camminò a passetti, badando a non bagnare le calze nelle pozze di sangue, non c’erano armi da raccogliere.
“Fuggiamo finché possiamo, Fraulein, io ho famiglia...”
“Vai tu, Nadir, io devo fermare questa feccia.”
Il cuoco sospirò, scosse il testone, “Eh no, non vi faccio andare sola. Mi ricordate mia figlia, solo che lei non ha le trecce bionde.” Astrid sorrise e lo guardò armarsi con un affetta-tutto a catena per il taglio dei quarti di bue.
Uscirono nel corridoio, cauti, avanzarono radente la parete fino al grande disimpegno con le scale e i montacarichi: dovettero acquattarsi, c’era il grosso dei falsi cucinieri che mandava le pietanze di sopra. Nessuna traccia del Koloss ma comunque troppi per sopraffarli.
“Ho un’idea,” mormorò lei, “portami da loro.”
I cospiratori stranirono al veder comparire dal corridoio la ragazza tedesca in camicetta col cuoco ottomano, agitatissimo e armato, che la spingeva avanti.
“Dovete ascoltarla!” farfugliava paonazzo. “L’Arciduca ha la gemma!”
Uno dei bruti la afferrò per il viso chiedendo lumi in un tedesco terribile.
“La gemma,” biascicò lei, “quella che l’Arciduca ha sempre indosso, non avete mai visto un suo quadro? È un deflettore, contiene un campo di forza che devierà i proiettili; se spaccherete le vetrate o i condotti del gas succederà un disastro!”
“E allora?!”
“Il Rammstein esploderà, moriremo tutti e nessuno saprà che cosa è successo, penseranno a un incidente!”
“Il Rammstein esploderà, moriremo tutti e nessuno saprà che cosa è successo, penseranno a un incidente!”
Silenzio grave.
“Per disattivare la gemma dovete usare uno schnucki-schnuckiputzi!”
Altro silenzio attonito.
“Un cosa?” Occhiate al cuoco che fece segno di non conoscere quella parola.
“Che significa shuki… shnu…”
Astrid mimò gesti a caso delle mani, “Schnucki-schnuckiputzi, accidenti, non puoi non sapere cos’è!”
Sguardi ebeti dei terroristi; lei agitò le mani in un gesto isterico.
“Portiamola da Leona, per il Profeta!” Nadir la prese per un braccio e la buttò dentro uno dei montacarichi, “Lei saprà cosa è questo dannato shun… shunk…!”
L’uomo entrò con loro imprecando, pigiò il barocco bottone del piano superiore e l’ascensore si mosse con uno scossone.
Astrid non attese d’arrivare: andò di ginocchio all’inguine del sicario, poi a due mani sulla nuca schiantandolo a terra. La struttura oscillò.
“Chi sono questa gente?!” Lei perquisì il corpo, s’impadronì d’una pistola.
“Non lo so, Fraulein.”
“Non diamo l’allarme. Se quella Leona capisce che è scoperta inizierà a sparare.”
“Ma se l’Arciduca ha la gemma a proteggerlo…”
“Ma se l’Arciduca ha la gemma a proteggerlo…”
“Ho inventato tutto, Nadir, non ci avrai creduto!”
Le porte del montacarichi si aprirono, lui nascose l’affetta-tutto nel tascone del grembiule; uno stuolo di camerieri e personale di bordo nel viavai del grande atrio si voltò a guardarli.
“Il signore qui,” Nadir diede un calcetto al terrorista riverso, “ha cercato di far del male alla miss. No, non aiutatelo. Sì, mi occupo io della signorina. Circolate, non c’è nulla da vedere!”
Prese a sospingere Astrid, che era diventata color ciliegia e si era stretta nella camicetta, verso il corridoio. “La mia uniforme,” pigolava, “rivoglio la mia unif…”
Il ponte panoramico del Rammstein, prima del grande salone da pranzo, era ingombro di FdA.
“HALT!” Un sergente col monocolo meccanico sbarrò loro il passo, squadrandola come una prostituta. “Chi è questa?”
“Sono Astrid Roth!” scandì frenetica, “La prima donna FdA! Ho preso servizio stamani!”
“Impossibile. Fraulein Roth è in sala, col comandante Falken.”
“Lo ha preso in ostaggio, lei non è me! È una terrorista con la mia unif…!”
Non poté finire il concetto: il secondo montacarichi si aprì in lontananza e, tra sbuffi di fumo e un clangore bestiale, il Koloss irruppe sul ponte.
“DOBAR DAN, BASTARDI!”
Fu il panico.
Gli inservienti si diedero alla fuga mentre gli FdA, attoniti, scattavano sulla difensiva. “Feuer frei!”
Una gragnuola di colpi leggeri prese a investire lo scafo corazzato della bestia meccanica, rimbalzando e miagolando.
Sbuffo di vapore, pistoni a piena forza: il Koloss si lanciò alla carica pestando duro sul pavimento, facendo tremare il corridoio, l’urlo di battaglia del suo pilota amplificato dalla griglia vocale. Impattò sui Fanti dell’Aria come un rinoceronte, mulinando la chela e scagliandoli intorno come bambole di pezza.
“Andiamo!” Astrid afferrò il cuoco per una manica, si lanciò alle porte della sala da pranzo senza che nessuno più si curasse di loro.
Irruppe dentro di peso, mentre già tutti i diplomatici, spaventati dal caos, avevano smesso di mangiare e fissavano attoniti.
Astrid scrutò febbrile, nel tumulto dei sensi; individuò l’Arciduca d’Austria in alta uniforme bianca, poi Leona un attimo dopo, lì, a pochi passi.
I loro occhi azzurri s’incrociarono all’istante, lividi.
Leona, rapida, letale, gettò a terra il comandante Falken, alzò la pistola dritta su Franz Ferdinand. Astrid sollevò la sua, fu più veloce ancora: quattro colpi secchi attraverso lo sterno, quattro fori rossi sulla sua amata divisa hellblau.
Leona irrigidì, sgranò gli occhi.
Crollò a terra riversa e lo Stahlhelm le rotolò via dal capo, spargendo le sue treccine rosse sul pavimento.
Non ci fu tempo per esultare: le doppie porte della sala si sfondarono con un fracasso infernale e un fischio di pistoni.
“DOV’È?!”
Le urla d’orrore dei diplomatici furono il preludio al tramestio di sedie e tavoli rovesciati, alla fuga disordinata verso le uscite.
Gav, il Koloss, puntò subito la figura in bianco dell’Arciduca d’Austria: Franz Ferdinand era rimasto lì, eretto, gli occhi chiari dilatati per lo sgomento. La gemma blu degli Asburgo in bella vista sul petto.
“Defletti questo,” tuonò Gav, “oppressore di popoli!”
Il braccio destro del costrutto si allineò con uno sferragliare d’acciaio, il blastatore caricato alla massima pressione con un fischio da fornace.
Astrid Roth era tutto ciò che stava tra la bestia e l’Arciduca. C’era un solo modo per fermare quel cannone e occorreva un tiro semplicemente perfetto, un singolo punto, attraverso il connettore d’energia dell’arma e la piastra; impossibile con una pistola ordinaria.
Fece quello che un FdA deve fare: osare.
Si lanciò sull’arma caduta di Leona, la afferrò, si voltò con un guizzo e le trecce bavaresi al vento.
Una Sfondakorazze con mirino luminoso.
“Schnucki-schnuckiputzi, bastardo.”
Fece fuoco.
Il cavo del connettore si strappò dal braccio corazzato del Koloss, l’energia accumulata detonò in una fumata nera spaventosa e una cascata di scintille.
“NO!” Gav barcollò malamente mentre l’intero sistema del suo esoscheletro collassava, perse il controllo sui servomeccanismi delle gambe e il suo costrutto iniziò a muoversi a caso in una drammatica polka.
Spedì un paio di maledizioni amplificate dalla griglia vocale prima di crollare di schiena e lì rimanere, agitando gli arti come un insetto rovesciato.
Astrid Roth tornò eretta. Aveva un sorriso incredulo, le trecce in disordine e il cuore a mille. “Ce l’abbiamo fatta, Nadir!”
Soffiò il fumo dalla canna come aveva visto fare in uno di quei nuovissimi film bianchi e neri.
“Nadir?”
Ronzio orribile.
Astrid irrigidì di colpo e dilatò gli occhi: mezzo metro di affetta-tutto per quarti di bue le era appena emerso, ruggente, da in mezzo ai seni.
Desiderò gridare ma gorgogliò solo un grosso fiotto di sangue.
“Mi dispiace, Fraulein,” la voce di Nadir, dietro il suo orecchio, suonò mesta. “Hanno la mia famiglia.”
Astrid crollò sulle ginocchia, poi a terra, la camicetta inondata di rosso, le iridi sgranate.
Il capocuoco estrasse la lama con la manualità del suo mestiere, si voltò verso l’Arciduca. “Senza rancore, Altezza.”
Si gettò su di lui, l’affetta-tutto brandito alto.
Franz Ferdinand si protesse d’istinto con un braccio, ma non servì.
Ci fu uno sfrigolio.
La lama rotante si era fermata, arenata, mordeva e ringhiava a vuoto senza raggiungere l’erede al trono d’Austria. Fermata contro qualcosa d’invisibile.
Una barriera azzurra, finissima, che baluginò solo per un attimo nel riflesso delle luci.
Nadir guardò con orrore la gemma degli Asburgo brillare come un minuscolo sole.
Per quanto si sforzasse di pressare, non era in grado di superare la barriera del deflettore.
Era perduto.
I rinforzi della FdA irruppero in sala in quel momento, lo freddarono con un paio di colpi alla schiena.
Astrid Roth era riuscita a voltarsi a faccia in su; se ne stava riversa, abbandonata, con la camicetta mezza aperta, le trecce bavaresi sfatte.
Respirava sangue, scossa da conati sempre più deboli.
Primo giorno di servizio, e anche l’ultimo.
“Ma chi erano questi terroristi?” Le voci confuse che sentiva intorno.
“Irredentisti serbi, altezza. Il pilota nel Koloss lo abbiamo arrestato, risponde al nome di Gavrilo Princip.”
L’uomo che le si inginocchiò accanto aveva grandi baffi e occhi chiari, lo sguardo attonito. La gemma non brillava più.
“Aiutatela, per Dio, mi ha salvato la vita!”
Il capitano Falken le si chinò accanto a sua volta mentre un FdA coi gradi medici le tamponava la ferita, ma scosse il capo.
“La mia…” Astrid tossì, sbrodolò ancora dalle labbra, il fastidio di morire mezza nuda, “la mia unif…”
Falken si levò di dosso la propria giacca hellblau, gliela stese sopra per coprirla. “Questa è la tua uniforme, ora, capitano Roth.”
Astrid chinò appena il mento, a guardare incantata le mostrine luccicanti come i suoi occhi. Gli FdA, intorno, scattarono sull’attenti. Sorrise incredula, il sangue tra i denti.
Primo giorno: promossa capitano.
La vista iniziò a offuscarsi.
“Ma non si può fare proprio nulla?” L’Arciduca aveva lo sguardo amaro, addolorato.
“Temo di no, altezza, ha i polmoni perforati. Possiamo telegrafare a Berlino per un trapianto di polmoni a pistoni, ma il messaggio non arriverebbe mai in tempo.”
Schiarire di voce, uno dei diplomatici apparve dietro di loro. “Forse c’è un modo.”
Aveva l’uniforme della Regia Marina italiana e un viso curato.
“Sto sperimentando un nuovo sistema di comunicazioni istantanee: con questo,” prese dal taschino un apparecchio barocco, in legno di radica e circuiti, lo aprì in due come una cozza, “posso chiamare Roma e far arrivare quassù un paio di polmoni artificiali e un chirurgo in massimo un’ora.”
Sorrise alla volta della ragazza in sangue.
“Resistete per me un’ora, signorina?”
Astrid non stava nella pelle, il giorno migliore della sua vita.
“Sì, Herr,” dovette sforzare gli occhi per leggere la patch sul suo petto, “Marconi.”
Sua madre l’avrebbe voluta cuoca nella locanda di famiglia.
Sorrise e chiuse gli occhi sognando la vita che aveva sempre desiderato.
La Fanteria dell’Aria.
La sua nuova uniforme.