Ero nel mio nuovo “ufficio”, come mi piaceva chiamarlo, distesa con le gambe nude sulla chaise-longue a fumare una sigaretta in santa pace durante il cambio del turno. Con la mano libera accarezzavo le trecce scure che mi scendevano sulle spalle, un gesto che aiutava a rilassarmi.
Il fuoco rosseggiava nella caldaia in ghisa che occupava metà della stanza: il nuovo modello Flamboyant-2000, che consumava legna e carbone fino all’ultima briciola grazie alla doppia camera di combustione.
Il corvo di sicurezza gracchiava stonato nella gabbia di ottone appesa al soffitto e, se non fosse servito a rivelare la presenza di gas tossici, l’avrei volentieri infilato ad arrostire.
In quel momento fischiò l’interfono e non c’era ancora nessun fante marocchino che potesse sollevarmi dall’incombenza di rispondere. Mi alzai sbuffando.
«Sala caldaia prima.»
«Mammalucco, mandami la sergente!»
«Sono io!» Avrei aggiunto volentieri “imbecille”.
«Michela? Ma che voce ci hai, ti sei mangiata un contrabbasso? Dai, sali.»
«Non posso, sto da sola.»
Puntuale come una figuraccia, entrò il capoturno. «As-salaamu ʿalaykum!»
Francesco nell’interfono si mise a ridere.
Biascicai. «Arrivo.»
Indossai il coprispalla mimetico sul corpetto verde, come prevedeva la divisa di sala. «Ayoub, mi assento un attimo; ti lascio il comando.»
«Signorsì!»
Sgomitai per farmi strada tra gli operai di truppa che stavano entrando. Lasciai la mezza cicca a Karima, la più anziana in servizio, che mi ringraziò con un sorriso.
Entrai nell’ufficio di Francesco. Soffi di vapore dal pavimento attraversavano dei narghilè in cristallo e rilasciavano profumi esotici nella stanza. Lui era seduto dietro la scrivania spoglia. Mi guardò inclinando la sua grande testa pelata, che spuntava dalla sahariana verde con i gradi di capitano cuciti sulle spalline.
Ricambiai l’occhiata. «Che c’è?»
«Sei… svestita.» Come se non mi avesse mai vista in déshabillé.
«Quindi? Sono fatti tuoi?»
«No, certo. Senti, c’è bisogno di un uomo in cucina…»
Sbuffai. «E allora chiama un uomo.»
«Dai, capiscimi!»
«Ho capito. No.»
«Solo per oggi a pranzo. Stamattina non mi hanno riconsegnato lo steambot risottiere e mi serve qualcuno che lo sappia fare a mano.»
Incrociai le braccia e tamburellai con il piede per terra.
«Ti regalo la divisa da cuciniera.»
«Che me ne faccio?»
«No? È un bellissimo corsetto bianco!»
Schioccai la lingua. «Non si abbina con niente.»
Sollevò le spalle. «Ti tiro fuori dalla zona caldaie.»
«Ho chiesto io di andarci.»
«Non era una domanda. Ti ci tiro fuori.»
Strinsi i pugni. Mi trattenni dal digrignare i denti. Sapevo che avrebbe potuto farlo.
«Allora?»
«Senti, non è perché son capace di fare un risotto per due con le padelle di casa, ma cucinare per decine di persone è un’altra cosa.»
«Te la caverai, ne sono sicuro.»
Puntai il dito a terra. «Voglio il doppio del salario.»
«Affare fatto.»
«E un giorno di licenza straordinaria!»
Ridacchiò. «Nient’altro?»
Sottovoce aggiunsi: «Essere lasciata in pace.»
Non avevo mai fatto un soffritto così grande. Un misto di cipolle e scalogni, tritati fini con una lama così affilata che l’avrei perfino rubata per usarla a casa. Una padella enorme in cui buttai mezzo litro d’olio per coprirla tutta. Ma soprattutto per la prima volta stavo cucinando su un fornello a conduzione, che sfruttava il calore convogliato dalle caldaie dei piani bassi senza usare fuoco diretto: dicevano che non cambiasse nulla dal punto di vista della cottura, ma cambiava molto dal punto di vista del clima dato che gambe e braccia non mi si stavano arrossando per il caldo.
Le uniche fiamme libere erano quelle degli steambot, ammassati nell’angolo più disagiato e umido. Li curava un cuciniere con la divisa grigia, la cui consegna principale era rifornire di legna e acqua i serbatoi di quelle scatole multiformi. Ogni tanto sollevava le cupole di ghisa per controllare che la preparazione procedesse regolare, mentre stantuffi e ingranaggi guidavano lame e spirali all’interno delle vasche di miscelazione. Brevi tubi decorati in ottone scaricavano fumo e vapore, perciò anche in cucina c’era il corvo di sicurezza. Svolazzava pigro nella sua gabbia, gracchiando poco e senza convinzione; soprattutto aveva l’aria di essere nutrito oltre le sue reali necessità, come un animale all’ingrasso.
Procedevo concentrata, ma anche divertita, quando entrò lo chef; l’avevo già visto girare in caserma: un uomo obeso con le guance cadenti, gli occhi porcini e ciuffi di capelli neri che uscivano dalla toque blanche; sulle spalline della sahariana bianca erano cuciti i gradi di maresciallo capo. Mi unii al coro di saluto senza distogliere gli occhi dalla mia padella.
«Chi abbiamo, qui: una nuova marocchina?»
Una mano fin troppo viva strizzò la mia chiappa sinistra.
Mi partì una gomitata allo sterno. Non so che effetto gli fece, ma tutti tacquero. Non avevo mollato il manico, così continuai a spadellare facendo finta di niente per qualche istante. «Scusate, chef!»
«Come ti chiami?»
«Sergente Michela Venditti.»
«Ah, non sei una mammalucca!»
«Signornò.»
«Tra poco lo scalogno vira; tosta il riso e poi sfuma con il vino bianco.» Terminò di indicare la padella e se ne andò in giro tra i fornelli a dispensare altri consigli inutili e pacche moleste alle cuciniere. Nel frattempo, mentre dosavo il brodo per la cottura, mi era rimasta la strana sensazione di aver letto “Maiale” sulla fascetta portanome.
Trascorsi la giornata di licenza straordinaria tra parrucchiera ed estetista. Avevo anche mandato un messaggio di posta pneumatica alla mia ex compagna di appartamento, ma mi rispose che era indisposta; così nel pomeriggio lessi un libro sulla terrazza della biblioteca di quartiere, approfittando di uno dei primi giorni sereni e appena ventilati di quella fine di primavera.
Il giorno dopo dovetti rientrare in caserma dalla rosseggiante caldaia a cui mi ero affezionata. Il mio momento preferito fu come sempre il cambio del turno, quando gli operai di truppa a fine servizio avevano caricato al limite i serbatoi di legna e carbone e mi avevano lasciata sola a godermi la chaise-longue e la sigaretta; come sempre, mentre accarezzavo i capelli, mi immaginavo qualche operazione definitiva e dolorosa per il corvo di sicurezza che insisteva a gracchiare in modo sguaiato.
Poi però si ripeté la scena dell’interfono e mi venne il sospetto che Francesco lo facesse apposta a scegliere il momento. Indossai il coprispalla senza abbottonarlo e la cicca da finire toccò anche quella volta alla riconoscente Karima.
L’unica cosa che invidiavo dell’ufficio spoglio di Francesco erano i diffusori dei profumi d’oriente, che oltre a essere piacevoli avevano anche l’effetto di tenere sotto controllo la temperatura. Ma il cambio di clima ebbe sui miei capezzoli un riflesso involontario, che non passò inosservato.
«Che c’è?» Mi indicai gli occhi con indice e medio.
Francesco sollevò lo sguardo. «Niente, ti vedo in forma.»
«Sono uguale all’altro giorno.» Tanto ero sicura che non avrebbe notato i capelli sciolti e accorciati.
«Chef Madale mi ha parlato bene di te.» Ecco cosa c’era scritto davvero sulla fascetta del maresciallo.
«La mia risposta è no.»
«Ma se ancora non ti ho detto niente.»
«Allora dimmi.»
«C’è bisogno di un uomo in cucina.»
Sbuffai. «Chiama un uomo.»
«Capiscimi. Ho dovuto mandare un altro steambot in manutenzione.»
«No.»
«Lo chef vuole te.»
«Io non voglio.»
Francesco sorrise. «Secondo me gli piaci. Potresti approfittarne.»
Incrociai le braccia. «Non ci penso nemmeno!»
«È un tuo superiore.»
«E tu sei l’ufficiale. Gli dici che non vado e non devi nemmeno giustificare la tua decisione.»
Sollevò le braccia. «Sono anche il tuo ufficiale. E ti assegno alla cucina.»
Strinsi i pugni e iniziai a tamburellare con il piede per terra.
«Anzi, ti ho già assegnata.»
«Ehi, oggi non c’è risotto.»
«Non sono tenuto a motivare il mio ordine.»
Digrignai i denti. «Chiedo rapporto!»
«Ok, ci vediamo domani mattina dopo l’alzabandiera. Adesso preparati e va’ in cucina.»
Salutai, battendo con violenza l’anfibio sul pavimento e facendo un dietrofront formale.
Arrivai mentre una cuciniera marocchina metteva degli scarti nella gabbia del corvo di sicurezza, che agitò un paio di volte le ali e poi si avvicinò a controllare. L’angolo degli steambot iniziava a riempirsi di fumo e vapore.
Non sapendo ancora quale fosse la mia consegna, mi offrii di aiutare un commilitone: aveva i capelli neri, ricci molto fitti, e la carnagione chiara; sulla fascetta portanome della sahariana bianca c’era scritto “Er Rachdi” e sulle spalline aveva cuciti i gradi di caporale.
Stava pulendo i totani. Mi affascinò la manualità necessaria: la delicatezza nell’incidere la pelle e poi l’apparente facilità con cui questa veniva via dal corpo; il modo in cui si separava la testa facendo attenzione alle cartilagini, infine il trucco di rivoltare il mantello per pulirlo dalle interiora. La parte che mi riuscì meglio fu quella di preparare gli anelli, ovvio; ma il graduato marocchino fu molto gentile e bravo a insegnarmi, e anche se procedetti più lenta di lui non ne sbagliai a pulire nemmeno uno e ne fui molto soddisfatta.
Chef “Maiale” arrivò e mi diede la consegna di preparare la ratatouille. Io, ingenua, dissi di non conoscere quel piatto, così mi trovai costretta a lavorare sotto la sua stretta supervisione. Questo significò sopportare mani che mi cingevano i fianchi e poi scivolavano sulle chiappe, altre che mi accarezzavano le braccia o me le afferravano per rimestare nella padella. Il tutto per preparare una banale peperonata, cosa che avrei saputo fare anche da sola. Quante volte avrei voluto girarmi di scatto, puntargli la cucchiaia sotto il doppio mento e dirgliene quattro! Invece trattenni tutto per l’indomani mattina, quando l’avrei vomitato in faccia a Francesco.
Alla fine mi venne concessa mezza giornata di permesso straordinario. Non avevo alcuna voglia di mettere l’uniforme da libera uscita, perciò dopo una doccia veloce indossai qualcosa che tenevo di scorta in caserma: una camicetta giallo ocra con le maniche a sbuffo e la minigonna abbinata, un corsetto blu elettrico per coprire il busto. Mi resi conto di non avere stivali né pochette adatte, per cui scelsi un nero jolly per gli accessori e gli anfibi.
Fuori mi accolse l’aria caliginosa color fumo di Roma. Gli occhi iniziarono subito a lacrimare; mi istillai due gocce di collirio e indossai gli occhiali da viaggio, anche se la montatura era di ottone e non ci azzeccava nulla con il resto.
Alle mie spalle sentii chiudersi il cancello della caserma e una voce conosciuta. «Sergente Venditti, buon pomeriggio.»
Mi girai verso il caporale, che aveva l’uniforme da libera uscita perfettamente stirata. «Er Rachdi, buon pomeriggio a te.»
Salutò toccandosi la bombetta e raddrizzando la schiena. «Posso accompagnarvi? Ho una motocarrozzetta.»
Quei veicoli strani con il motore scoppiettante mi incuriosivano, ma non avevo ancora avuto l’occasione di viaggiarci. «Volentieri; ma, uhm… la Cristoforo Colombo è fuori strada?»
Spalancò gli occhi. «Eh, un po’. Ma conosco un locale sul tragitto dove servono degli ottimi aperitivi.»
Osservai il viso sbarbato: aveva forse diciannove anni, venti al massimo. Restai un attimo a bocca aperta. «È un invito?»
«Signorsì.» Appoggiò a terra la punta del bastone da passeggio e mi offrì il braccio.
Avevo altri programmi per il pomeriggio, ma sorrisi e accettai.
Il giro non mi deluse. Raggiungemmo il primo tram in pochi minuti. «Forza, tagliamo in due queste nuvole di vapore!»
Salutò toccandosi il casco di cuoio, che aveva sostituito la bombetta. «Agli ordini, signora!»
Girò una manopola di legno e la motocarrozzetta accelerò, alzando nello stesso tempo il volume del rombo del motore. Attraversammo gli sbuffi bianchi scaricati dal tram; quando gli passammo di fianco alzai le braccia e mi misi a ridere. Attirai così l’attenzione dei pochi passeggeri, che mi guardavano seri.
Mi venne spontaneo gridare: «Ciao!»
Una bambina agitò la mano, subito bloccata dalla madre.
Diedi un’occhiata al caporale: anche se concentrato alla guida, vedevo che sorrideva. Così mi lasciai andare all’allegria anche con il secondo tram; il suo sorriso non cambiò.
Nessuno ci superava; eravamo il veicolo più veloce in città, mi sentivo invincibile.
Arrivati a destinazione mi tolsi il foulard e mi acconciai i capelli al meglio, specchiandomi in una vetrina. «Come sto?»
Lui indossò la bombetta e vi sistemò sopra gli occhiali da viaggio. «State molto bene con i capelli corti, signora.»
Sorrisi. Quindi mi aveva già notato quando avevo le trecce? O forse mi stavo solo illudendo che non fosse un invito estemporaneo. Ma cosa ci trovava un bel giovanotto come lui in me, che ero più vecchia?
«Grazie. Però adesso fammi un favore: dammi del tu e chiamami solo Michela. Almeno finché sono in borghese.» Arricciai il naso.
«Ai vostri ordini… scusate… scusa!» Ridemmo. «Va bene; allora io sono Youssef.»
Il locale si chiamava “Isola dei Pirati” e all’interno si sentiva suonare musica dal vivo. «Sei gentilissimo a portarmi qui; ma costerà mezza paga.»
Mi fece l’occhiolino. «Sono un graduato di truppa: ho il cinquanta per cento di sconto; e le signore accompagnate hanno la prima consumazione gratuita. Vieni.» Mi offrì il braccio.
Appoggiai la mano. «Beh, allora come non detto. Andiamo pure ad abbuffarci. Giovanotto? Come prima consumazione prendo tutto quello che c’è sul menu!»
Ci sedemmo su degli sgabelli alti a un tavolino defilato, in modo che la musica facesse solo da sottofondo. Ordinammo il “Corsaro dei Cinque Continenti”, un tagliere misto di sapori che provenivano da ogni angolo della Terra.
Le macchine per scaldare cibi e bevande sbuffavano a pochi metri da noi, avvolgendo il locale in una atmosfera ovattata. Sembrava che solo io e lui fossimo reali e che tutto il resto fosse quasi un sogno.
Il nostro antipasto era accompagnato a un cocktail che coniugava gli spiriti freddi dell’est europeo con i succhi calorosi della limetta caribica.
«Com’è che si chiama?» Indicai il bicchiere, mentre stavo letteralmente divorando le fettine di banana fritte.
«Caipiroska.»
«Ne prendiamo un’altra?» Youssef spalancò gli occhi, per cui aggiunsi: «La offro io.»
Scosse la testa. «Guarda che è roba forte.»
Sbuffai. «Questa? No! Quando stavo male, da bambina, mia nonna mi curava con latte e acquavite; quella era roba forte. Questa è acquetta.»
Come contorno ai due cocktail ci portarono altre piccole bruschette, una diversa dall’altra. Ci guardammo divertiti. Lui ne prese una e me ne fece mordere metà; poi mise in bocca il mezzo boccone rimasto e, con le mani, fece un gesto come per dire “uhm, che buona”.
Mi misi a ridere. La scena si ripeté con le altre bruschettine, tranne l’ultima in cui scherzai: la morsi quasi tutta e lasciai a Youssef solo un pezzo di crosta. Fece un’espressione che sarebbe stata da disegnare, se ne fossi stata capace, per quanto era divertente. Certo, per poco il boccone e le risate non mi fecero soffocare, però ne valse la pena.
Quando mi accompagnò sotto casa lo invitai a prendere un caffè. Potrebbe essere stata l’abbondanza di caipiroska ma penso di no: sta di fatto che, dopo il caffè, ci concedemmo anche l’intimità. Era davvero giovane e un po’ inesperto ma si lasciò guidare senza resistenze a scoprire i miei punti più sensibili. Non dico che mi rivoltò come un totano, però fu una conclusione abbastanza soddisfacente del nostro appuntamento improvvisato.
Lasciai che si rivestisse, mentre io rimasi in vestaglia. Poi, prima che se ne andasse, lo abbracciai. «Youssef, ti chiedo solo un favore.»
«Dimmi.»
Mi misi a gesticolare senza senso. «Adesso non è che torni in caserma e poi vai a dire in giro che ti sei portato a letto la sergente. Sai, sono già abbastanza chiacchierata per il fatto di esserci stata con il capitano, non vorrei che si aggiungessero altre voci…»
«State tranquilla. Muto come un pesce, signora.»
Scossi la testa. «Non è l’ordine di un superiore; te lo chiedo come Michela.»
Mi strinse le mani. «Sta’ tranquilla. Te lo dice Youssef.»
Mi abbracciò e prima di uscire mi baciò delicatamente sulle labbra. Chiusi la porta e mi misi a saltellare per la stanza canticchiando una canzoncina allegra, improvvisando le parole perché non le conoscevo.
All’indomani mattina partecipai all’alzabandiera con la mimetica di ordinanza. Poi tallonai Francesco fino al suo ufficio, cercando di essere il più invadente possibile. Mentre si accomodava, sbattei l’anfibio sul pavimento e gridai sull’attenti. «Sergente Michela Venditti a rapporto.»
Incrociai le braccia e iniziai a tamburellare con il piede, così sulla fiducia.
Francesco mi guardò dagli anfibi fino al basco; sembrava deluso, forse perché stavolta non avevo quasi nulla di scoperto.
«Ti hanno vista in giro con un mammalucco, ieri pomeriggio.»
«Quindi? Sono fatti tuoi?»
«No, certo…»