Samuel Bainard non era certo quello che si sarebbe potuto definire un amante della poesia. Sapeva a malapena leggere e scrivere e non aveva mai aperto un libro in vita sua. D’altra parte, come soldato dell’esercito britannico, l’unica cosa che doveva fare era uccidere il maggior numero possibile di nemici. Il portare a casa la pelle al termine di ogni scontro era un qualcosa di più, che riguardava lui soltanto. Samuel aveva cercato di non disattendere mai quel precetto personale e c’era sempre riuscito, spesso per sue abilità e talvolta solo per fortuna.
Anche a Waterloo, nell’ultima battaglia a cui aveva preso parte, era riuscito nell’impresa di non smettere di respirare. Il fatto che nell’occasione il suo braccio sinistro fosse rimasto sul campo era un dettaglio di scarsa importanza.
E così, con un braccio di meno, aveva errato ramingo per l’Inghilterra fin quando, nell’ottobre del 1815 aveva incontrato il signor Mcmillan e il suo circo.
Alistair Mcmillan l’aveva accolto nella sua stramba famiglia itinerante e, come se già quello non fosse sufficiente a garantire allo scozzese la sua gratitudine eterna, gli aveva fatto dono di un arto nuovo di zecca.
Non un braccio in carne e ossa, bensì un aggeggio meccanico costruito su misura per lui, un accrocchio di rotelle, ingranaggi, molle, ganci, spirali e carrucole a cui erano fissati un moschetto a quattro canne e una balestra.
Due armi letali, unite fra loro eppure indipendenti, due sentenze che Samuel utilizzava nel suo straordinario numero di precisione. Da quando era stato arruolato nel circo di Mcmillan non aveva mai fallito un solo bersaglio. Tutti centri.
Sparare. Quella era tutta la sua vita.
Poi, nell'aprile del 1816, George Gordon Noel Byron incrociò la sua strada e bastarono solo due giorni perché la poesia gli esplodesse come una pallottola nella testa e nel cuore.
Il circo si era fermato in un'ampia radura erbosa alla periferia nord di Londra. Dopo le esibizioni in Scozia e nelle cittadine dell'Inghilterra settentrionale era il debutto nella grande città.
Mentre Alistair Mcmillan era andato in centro per pubblicizzare la sua favolosa creatura, gli artisti occupavano il tempo nei modi più svariati: alcuni a fumare oppio, altri a provare i numeri per lo spettacolo e i più agitati a sistemare il tendone e le panche per il pubblico.
Allegria, orgoglio e tensione inondavano di energia la piccola comunità.
«Anurag, fai attenzione con quella roba o ti verrà il mal di pancia» disse Samuel sorridendo.
Il fachiro indiano non perse la concentrazione e mandò giù un'altra manciata di chiodi e vetro. Poi, dopo aver bloccato la respirazione, prese un chiodo e lo piantò nel palmo della mano. Neppure una goccia di sangue fuoriuscì dalla carne. Samuel sapeva che Anurag riusciva a controllare il sanguinamento semplicemente fermando la respirazione, ma la cosa lo sconcertava ogni volta. L'indiano poteva restare in apnea per oltre sei minuti, tutta la durata del suo numero. Poi, una volta abbandonata la scena, avrebbe ripreso a respirare. E allora il sangue avrebbe cominciato a sgorgare dalla ferita.
Samuel raggiunse lo spiazzo che aveva scelto per l'allenamento, posizionò il pannello di legno a cui aveva fissato con dei laccetti di cuoio il fantoccio e le bottiglie vuote, quindi si voltò e contò dodici passi. Afferrò la polvere da sparo e ne mise un po' alla base del moschetto che aveva per braccio, poi inserì le cartucce con le pallottole all'interno delle quattro canne e, in ultimo, pressò il tutto con la lunga asta di ferro che portava sempre con sé e utilizzava a mo’ di bastone da passeggio. Aveva sempre dimostrato una certa abilità nello sparare, ma l’aggeggio che gli aveva attaccato Mcmillan al posto dell’arto sinistro era semplicemente infallibile.
Alzò l’arma in direzione dei bersagli, prese la mira e sparò.
Le quattro bottiglie alla sinistra del fantoccio esplosero in piccoli pezzi.
Caricò l’arma ancora una volta, come aveva fatto in precedenza, sparò altri quattro colpi e toccò alle bottiglie di destra frantumarsi al suolo.
Scrollò il braccio, facendo ruotare la balestra al posto del moschetto.
Caricò una freccia e la scoccò verso il fantoccio. Poi una seconda, una terza e tantissime altre. I dardi andarono a conficcarsi attorno al pupazzo riempito di paglia, vicinissimo alle membra inanimate, ma senza scalfirle.
«I miei complimenti, signore. Sono stupefatto, non ha sbagliato un colpo.»
Samuel si girò verso la voce: apparteneva a un curioso damerino, agghindato con una redingote dal colore violaceo e degli stivali bianchi che gli arrivavano al ginocchio.
«Grazie, Sir» rispose Samuel. «Con chi ho l’onore di parlare?»
«Il mio nome è George Gordon Noel Byron, barone di Byron, rappresentante della Camera dei Lord e soprattutto poeta.»
«Ah, un nobile. E un poeta.»
Il fante pronunciò l’ultima parola con una nota d’ilarità.»
«Devo dedurre dal vostro sarcasmo che non amate molto la poesia, signor…»
«Bainard. Samuel Bainard. E in verità non la amo affatto. Che c’è di poetico nel mondo? Ve lo dico io. Nulla.»
«Ma la poesia è dappertutto, basta saper guardare col cuore.»
Samuel scosse la testa e sputò per terra.
Il poeta da par suo iniziò a declinare alcuni dei suoi versi.
«Vi è un piacere nei boschi inesplorati e un’estasi nelle spiagge deserte, vi è una compagnia che nessuno può turbare presso il mare profondo, e una musica nel suo ruggito; non amo meno l’uomo ma di più la natura dopo questi colloqui dove fuggo da quel che sono o prima sono stato per confondermi con l’universo e lì sentire ciò che mai posso esprimere né del tutto celare.»
Samuel provò a ridere in segno di scherno, ma non vi riuscì. La sua intenzione mal si accoppiava con ciò che provava. Al centro del petto una sconosciuta onda di calore stava cercando di sciogliere le sue certezze.
Alistair Mcmillan tornò all’accampamento che mezzogiorno era già scoccato da tempo; tra le braccia teneva bottigliette, ampolle e scatolette di latta, frutto degli acquisti fatti nella zona del porto.
Il suo volto era raggiante.
«Allegri, ragazzi. Se l’istinto non m’inganna penso che ci fermeremo qui diverse settimane. Ho avuto la sensazione che tutta Londra frema dalla voglia di assistere al nostro spettacolo.»
Il suo sguardo si soffermò con curiosità sul visitatore tutto agghindato che parlottava con Samuel.
«Bentornato signor Mcmillan» lo salutò Samuel. «Lui è George Byron, un poeta. Vorrebbe assistere allo spettacolo.»
«George Byron» bofonchiò l’impresario, sorridendo.
«Devo dedurre che voi conosciate me e le mie opere, signore?» domandò il poeta.
«In tutta onestà no davvero, ma un grande artista da noi è sempre il benvenuto.»
«Grande artista!» esclamò Byron. «Ma se avete appena affermato di non conoscermi.»
«È vero, ma il vostro modo di abbigliarvi denota quantomeno una grande personalità. Vi fermate a pranzo da noi, signor Byron?»
Il poeta parve rimuginare oltremodo su quella proposta, poi acconsentì.
«Bene. Seguitemi in cucina allora, che facciamo due chiacchiere.
La cucina era un grosso carrozzone in legno situato al centro dell’accampamento. All’interno l’ambiente risultava diviso in due parti ben distinte. In quella anteriore, in prossimità dell’entrata, c’erano la grande stufa di ghisa col tubo che scompariva oltre il tetto della carrozza, i mobiletti per le provviste e le spezie, la credenza con pentole, vasellame e stoviglie. Quella posteriore invece era occupata da una grossa vasca in rame e da tutta una serie di strambe attrezzature: alambicchi, distillatori, imbuti, bilance, recipienti di forma cilindrica, cannule, crogioli, beute, capsule, mortai, tubi, tubicini e altre diavolerie varie.
Sopra il ripiano della stufa a legna gorgogliava un pentolone nero consunto dall’uso.
«Spero proprio che vi piaccia lo stufato. Anzi, fatemi la cortesia, aggiungete un po' di spezie» disse Mcmillan, indicando il mobiletto situato proprio di fronte a Lord Byron. «La numero quindici.»
Il poeta rovistò nel mobile finché non trovo un vasetto contrassegnato con quel numero.
«Perfetto, è quello. Si tratta di un miscuglio di origano, pepe e aglio tritato. Conferisce alla carne un sapore deciso. Buttate giù una bella manciata, per favore.»
Byron fece come gli era stato detto e gettò la polverina sullo stufato.
«E ora una bella mescolata.»
Mcmillan tirò una corda e un bizzarro meccanismo si mise in moto sotto il soffitto. Si trattava di un complicato groviglio d’ingranaggi terminante con due cucchiaioni di legno, tarati per affondare dentro il pentolone e girare in tondo per almeno un minuto.
«Il segreto per ogni stufato degno di questo nome è una bella rimestata vigorosa.»
Il proprietario del circo si lasciò scappare una risata e armeggiò col materiale che aveva reperito al porto di Londra.
«Questo invece è il segreto per uno spettacolo perfetto. Conoscete le proprietà delle foglie di coca?»
Byron lo guardò assorto, facendo cenno di no con la testa.
«Ho viaggiato tanto, amico mio, e in ogni posto in cui sono stato ho trovato qualcosa di eccezionale. Queste per esempio le ho scovate nelle Americhe del Sud» continuò Mcmillan, tirando fuori le foglie. «Sono capaci di rinvigorire il corpo e lo spirito.»
«Parlate sul serio?»
«Certo. Possono raddoppiare la forza fisica in un uomo, aumentano la concentrazione e l’attenzione e non fanno sentire la fatica. In pratica regalano un benessere intenso e totale per qualche ora. È anche grazie a questo portento se i miei artisti sono infallibili.»
Il volto di Lord Byron si illuminò.
«Credete che il mio estro, la mia immaginazione possa trovare giovamento?»
Il proprietario del circo si limitò a sorridere.
«E come si assumono queste foglie?»
«Si possono anche masticare, come fanno le popolazioni andine, ma l’effetto benefico svanisce quasi subito. Io ho affinato un procedimento, anche se è un po' lungo. Guardate. Fate come me.»
Alistair Mcmillan prese del salgemma e iniziò a romperlo in piccoli pezzetti, imitato da Byron.
«Ora prendiamo i cristalli di salgemma e li gettiamo nella vasca di rame.»
Fu poi la volta delle foglie verdi a essere fatte a pezzetti.
«Adesso riempiamo la vasca con cinque secchi d’acqua per preparare la salamoia e in ultimo aggiungiamo le foglie.»
«E ora?» domandò Byron con una strana eccitazione nella voce.
«Adesso è necessario aspettare qualche giorno perché le foglie macerino ben bene.»
L’uomo fece una pausa, quindi indicò gli altri acquisti di quella mattina.
«Dopodiché si aggiunge all’acqua olio di balena e successivamente i reagenti, come la polvere di gesso e i grani di magnesio.»
«Qualche giorno? Ma io non ho il tempo di aspettare. Domani lascerò l’Inghilterra. Per sempre.»
«Mi dispiace, amico mio. La chimica ha regole e tempi tutti suoi, così come la poesia.»
Mcmillan frugò nella tasca del pastrano ed estrasse una tabacchiera in argento dalla forma ovale. Sul coperchio erano incise le sue iniziali.
«Tuttavia non dovete preoccuparvi; non vi farò lasciare il paese senza prima farvela assaggiare. Parteciperete con noi al rituale collettivo che precede lo spettacolo.»
L’uomo fece un cenno a Samuel Bainard, che fino a quel momento li aveva spiati dalla finestra del carrozzone.
Il fante entrò in cucina e, seguendo le disposizioni del padrone, andò a chiamare gli altri.
Mcmillan intanto prese dalla tabacchiera una polverina biancastra e la inserì nel fornelletto di una grossa pipa assieme a del tabacco.
Quando finalmente tutti gli artisti furono al suo cospetto, sfregò un fiammifero e accese la pipa.
«Ora fumeremo tutti, due belle boccate ciascuno. Il rito collettivo della pipa garantirà che lo spettacolo si svolga in maniera esemplare.»
Lo spettacolo si svolse in modo esemplare anche quel pomeriggio.
Come ogni volta.
Samuel Bainard sparò e scoccò frecce contro il bersaglio umano costituito dallo stesso Alistair Mcmillan senza scalfire la sua figura, abbattendo solo bottiglie e barattoli. Anurag si trafisse le carni senza farle sanguinare. I giocolieri eseguirono i loro numeri di abilità alla perfezione. L’uomo più forte del mondo spaccò tronchi, lastre di pietra e blocchi di marmo con la sola forza delle mani. I freak incantarono e inorridirono il pubblico con movimenti ipnotici e disturbanti. La vampira Clarinda uscì dalla cassa da morto in cui era stata rinchiusa in meno di tre minuti, migliorandosi di molto. Gli acrobati effettuarono salti ed esercizi pericolosi ad altezze impossibili. L’uomo torcia si diede fuoco in mezzo alla pista, la percorse per tutto il diametro, poi s’immerse in un barile colmo d’acqua uscendone fresco come una rosa.
Allo spettacolo prese parte anche Byron, declamando versi e dando un saggio della sua abilità pugilistica a un bifolco che aveva denigrato le sue poesie.
«Roba per donnette e invertiti» aveva gridato un omone del pubblico, invitando il poeta a dimostrargli di essere un uomo.
George Byron non si fece pregare e lo stese lì davanti a tutti.
E poi ci fu il gran finale. La luce del pomeriggio era già stata assorbita dalle ombre della sera e le fiaccole accese per illuminare a giorno la tenda del circo, quando un mormorio di stupore si diffuse tra il pubblico.
Un uccello meccanico, elegante, dal corpo snello e affusolato prese a camminare nell’arena. Le lunghe zampe avanzarono sulla superficie in terra battuta sino a raggiungere il centro, poi si fermarono. L’uccello meccanico allargò le ali e si mise in equilibrio su una zampa. Poteva assomigliare a un’aquila, a un fagiano, magari a un pavone. O forse era la summa di tutti gli uccelli del creato.
Il piumaggio, simulato con della carta colorata, era incredibilmente variopinto e realistico. Le ali e il corpo erano un tripudio di giallo, ocra, rosso e arancio, mentre la coda e i ciuffi della testa risplendevano di pigmenti verdi, celesti e violetti. I colori scintillavano nella luce delle torce incandescenti. Quando l’uccello provò a sbattere le ali come a voler prendere il volo, Mcmillan entrò in scena. Nella mano destra reggeva una fiaccola accesa. Appena l’avvicinò a un’ala del volatile artificiale la carta s’incendiò all’istante. Un odore come d’incenso si sparse subito nell’aria; l’aroma, all’inizio dolce, virò verso un sentore più acre, a causa del trattamento fatto alla carta con fibre di canapa.
«Signori e signore» esordì l’impresario, «la fenice ardente qui al mio fianco sta a indicare che lo spettacolo volge al termine. Tra pochi istanti rimarrà solo uno scheletro ferroso ricoperto d’ingranaggi e un mucchietto di cenere. Ma ricordate, la cenere non sempre è un simbolo di distruzione, talvolta, come per la fenice, può rappresentare una rinascita. Spero che lo spettacolo vi sia piaciuto. Domani ci sarà una nuova esibizione alla medesima ora. Grazie per avere onorato il circo Mcmillan con la vostra presenza.»
L’impresario gettò una coperta sulla creatura scheletrica, come volesse celare agli occhi degli spettatori la vista di un cadavere. Si trattava di un colpo di teatro, perché il meccanismo non aveva subito alcun danno.
Non poteva rovinarsi, il ferro e gli ingranaggi erano stati cosparsi con una soluzione protettiva di sua invenzione.
Fece un inchino e uscì tra gli applausi di tutti gli astanti.
«Perché non rimani con noi? Alistair potrebbe pensare a un numero anche per te. È un genio.»
Byron accarezzò i capelli di Samuel e scosse la testa. Poi lo baciò.
«Meglio di no. Ho una nave che mi aspetta.»
Il sole mattutino filtrava dalla finestrella del carrozzone, illuminando i volti dei due uomini.
«Allora hai deciso? Non posso fare nulla per convincerti?»
«Credo di no.»
Samuel ripensò alle poesie che Byron aveva declamato per lui quella notte e s’incupì.
«Almeno promettimi che scriverai un poema per me.»
«Magari lo farò. Prenderò spunto dal signor Mcmillan. È un uomo davvero fuori dal comune.»
«E io?»
«Anche tu. Non ho mai conosciuto nessuno con un moschetto al posto del braccio.»
«Un moschetto a quattro canne e una balestra» rimarcò Samuel.
I due si misero a ridere, poi si abbracciarono.
«Quando pensi di metterti in viaggio?»
«Nel pomeriggio, prima del vostro spettacolo. Magari dopo aver partecipato al rituale della pipa.»
«Dove andrai?» chiese Samuel, dopo alcuni minuti di silenzio.
«Non lo so, di sicuro via dall’Inghilterra.» Byron fece scorrere la mano lungo l’arto metallico del suo amante. «Non mi hai ancora detto dove hai perso il braccio.»
«Ha importanza?»
«Sono curioso. È la mia natura.»
«L’ho perso in battaglia a Waterloo, in Vallonia.»
Byron parve perdersi nei suoi pensieri, poi annuì.
«Bene, allora il mio viaggio mi condurrà lì. A Waterloo.»