Cosa sono i sogni se non dei viaggi notturni?
Un meccanismo misterioso ci fa visitare posti stranissimi, vivere avventure che non faranno mai parte della nostra quotidianità, eppure tutto è costruito con minuziosità; a volte somigliano a trame di romanzi o di film che viviamo da protagonisti e al contempo da spettatori.
Capitano sogni talmente intensi nelle emozioni e nelle sensazioni, quali che esse siano, che rimane qualcosa nell’aria per ore dopo il risveglio: a volte se ne ha nostalgia, ci si vorrebbe riaddormentare per riprenderne il filo; altre volte si spera non si ripetano né si avverino.
Tempo fa, ormai mesi fa, feci un sogno la cui intensità mi rimase addosso non solo quel giorno, con ricordi molto vividi che arrivavano all’improvviso, ma anche nei giorni successivi, quando rivedevo le sequenze come in un replay.
Non mi era mai capitato, neanche con sogni molto belli e appaganti, o con quelli terrificanti, quando mi svegliavo di soprassalto con l’angoscia che potessero realizzarsi.
Dopo qualche giorno, forse per liberarmene, ho provato ad annotarlo, quasi si trattasse della lettera in cui racconto un breve viaggio a un’amica, o di un tema messo in bella copia. Alla fine, è ancora lì, non si lascia dimenticare: è solo un po’ sbiadito.
***
Sto viaggiando in auto con un paio di amici: non ho la percezione dei loro visi, né della loro voce, visto che non parlano, quindi non so se li conosco veramente o se siano perfetti sconosciuti di cui poter aver timore.
Siamo diretti a un lago di cui non conosciamo il nome né l’ubicazione esatta.
Semplicemente andiamo là, percorrendo quella che è l’unica strada lì attorno.
Di fronte a noi un paesaggio dolce, con basse colline e campagna dai colori morbidi, quasi autunnali.
Nell’aria pare esserci una polverina dorata che ammorbidisce il verde di boschetti ancora rigogliosi e quelli che paiono ordinati frutteti.
A un certo punto la strada scollina, si fa stretta, ma non possiamo proseguire perché nell’altro senso sta arrivando un bue molto grande, con due lunghe corna che ci impediscono il passaggio. Non riesco a vedere se traina un carro o se ci sia qualcuno accanto che lo guida: dobbiamo fermarci e parcheggiamo quindi l’auto in uno slargo erboso.
Con gli amici, di cui continuo a non vedere i volti, mi incammino per una strada che prima non avevo notato: da un lato è costeggiata da piccoli e curati giardini di case che si intravedono appena dietro grandi cespugli; dall’altro da un muro di cinta, di mattoni rossi, da cui sporgono i rami, nodosi e carichi di foglie, di alcuni grandi alberi. Da uno di questi rami cade un serpentello, che si acciambella e non si muove. Io, che ho paura dei serpenti, mi sposto semplicemente di un paio di passi e proseguo per la strada, per niente preoccupata e lanciando solo uno sguardo veloce all’animale.
La percezione dei compagni di viaggio, sempre silenziosi, si affievolisce, quasi che siano fantasmi. Ci sono, non ci sono, non parliamo tra di noi, eppure sembra che si goda della reciproca compagnia, con chiacchiere silenziose.
Arriviamo in un cortile che assomiglia molto al chiostro di un convento: c’è però solo un primo piano, con i classici porticati delimitati da un basso muretto, interrotto da colonne sottili.
Sui muri predomina un colore azzurro verdastro, antipatico e triste: ricorda una vernice che mio padre dava al vecchio cancello di casa, per evitare che arrugginisse.
Nel cortile niente aiuole bordate di fiori o cespugli rigogliosi che delimitino i piccoli sentieri ghiaiosi che formano strani disegni; niente glicini dal profumo inebriante e viaggiatore lento su mura antiche.
Scendo una scaletta che ricorda l’entrata dei sottopassaggi delle stazioni e mi trovo in una stanza che potrebbe essere la cassa di un museo, ma anche una cantina. È spoglia, con pochi e vecchi mobili polverosi: niente manifesti o pile di dépliant colorati, solo uno sportello dai vetri sporchi. Una signora mi chiede, tra il sorpreso e il seccato, cosa desidero e quando le dico che vorrei arrivare al lago, mi risponde che non è semplice, ci vuole una cartina vecchia perché il lago a volte c’è, a volte non si lascia trovare.
Dipende.
«Da cosa?» le chiedo.
«Dipende. Da un sacco di cose che non le devono interessare.»
Lei di questa mappa ne ha una sola, non la può vendere: posso consultarla e imparare a memoria il tragitto.
Mi lascia dare solo un’occhiata veloce, poi si riprende la cartina e se ne va, brontolando qualcosa su gente sprovveduta, che non sa mettere un piede davanti all’altro senza inciampare.
Esco dalla stanza da un’altra scala e mi trovo in un piccolo giardino, un terrazzo su una valle: da un lato intravedo una piccola villotta, ottocentesca, dietro cui c’è un fitto boschetto.
Nel giardino ci sono fiori di ogni tipo, che delimitano uno stradello che porta alla villa. Entro e nell’atrio, piccolo e accogliente, su un divanetto c’è una persona: mi pare di riconoscere Enzo, che era stato mio collega per molti anni. Lo saluto, sorpresa e contenta di vederlo dopo tanto tempo, ma mi accorgo che è solo una persona somigliante e mi scuso.
Lui mi risponde, tra il sarcastico e l’infastidito:
«Eh, già, lei confonde le persone, le illude che siano qualcun altro, qualcuno importante, e poi niente, si è sbagliata e si scusa, semplicemente!» o qualcosa di simile.
E, sdraiandosi scompostamente sul divanetto, si mette a ridere, una risata falsa e stridula.
Sorpresa e un po’ avvilita per la figuraccia, non replico e torno in giardino: mi avvicino alla balaustra, invitando i miei amici a visitare la villa, dove troveranno installazioni artistiche molto particolari, tipo le pile di valigie colorate che avevo visto ai giardini di Merano.
Non mi sorprende di saperlo, è come se in quel posto ci fossi già stata e mi annoiasse tornarci.
«Andate, andate, vi aspetto là in fondo, sotto al gazebo. Fate con comodo.»
Strano anche che sappia esserci un gazebo, di cui non si vede traccia.
Dal giardino si può ammirare una vallata molto ampia, ariosa e silenziosa: in fondo si stagliano basse montagne, dallo strano color ardesia che si stempera man mano che scendono verso la pianura.
Il cielo è diventato, nel frattempo o forse all’improvviso, di un intenso e compatto color carta da zucchero, come quando in estate si prepara un temporale; in alto ci sono nuvole scure, che si gonfiano e sgonfiano come cumuli di soffice cotone o panna montata, agitate da correnti d’aria disordinate.
Improvvisamente le nuvole cominciano a sciogliersi in una sostanza oleosa, densa, nera che scivola sul cielo come su un vetro. È un’immagine che incute terrore, ma me ne resto lì, immobile.
Ho paura, ma non riesco a scappare.
Non voglio andarmene.
Quando questa sostanza arriva a toccare le montagne, si trasforma in lava, dai colori splendidi: bianca che diventa gialla, arancione e poi di nuovo bianca… un gioco ipnotico da cui non riesco a distogliere lo sguardo.
I fiumi di lava ben presto si diramano in tanti rivoli, con eleganti striature e volute perfette: sono le strade e i sentieri che percorrono la vallata. Al passaggio della lava ho l’impressione netta dei cespugli che si incendiano, ne sento il crepitio quasi disperato.
Sono strade lontane eppure paiono vicinissime.
Quando la lava si avvicina al punto in cui inizia l’altura su cui mi trovo, mi ero svegliata, frastornata.
Da dove arrivavano le immagini di quei posti, che non avevo mai visto? Forse qualche documentario o il ricordo di una lettura particolarmente intrigante ma lontana nel tempo?
Quale messaggio voglio far arrivare a me stessa? Quante cose sono nascoste lì dentro, che solo io posso scoprire o decifrare?
Forse i sogni sono viaggi dentro noi stessi: luoghi che costruiamo giorno dopo giorno e che prima o poi dovremo visitare.
Viaggi per cui c’è solo il biglietto di andata.