«C’è stato un’attentato alla stazione radio tedesca di Gleiwitz. Sembra che ci siano parecchi morti, dicono che siano stati i polacchi, papà. Hitler si prenderà anche la Polonia.»
Io li conosco bene i tedeschi e non mi fido di loro. Si può imparare molto di un uomo dalle sue scarpe.
Avevo solo otto anni quando misi la prima semenza su una suola. Mio padre mi fece lavorare alle sue calzature per insegnarmi il mestiere. Zoppicò per una settimana, ma non mi punì. Da allora ho fatto le scarpe a così tanta gente che ho perso la vista a furia di stare col capo chino a bucare il cuoio.
Ormai sono anziano, ma le mie mani sanno lavorare bene anche al buio, lo diceva sempre la mia povera Hana.
Sedevo davanti alla porta di casa e stavo riparando le scarpe della piccola Adéla quando avvertii il ritmico tambureggiare sul selciato di un soldato che si avvicinava. C’era una nota stonata nel suo procedere: sembrava che l’uomo provasse dolore a ogni passo.
“Pavel Toman?”
Marinka si precipitò fuori, al mio fianco.
“Sì, è mio padre.”
“È lui il calzolaio?”
Qualcuno doveva avergli parlato di me, non eravamo in molti a conoscere il mestiere da queste parti.
“Mio padre è cieco.”
L’uomo mi strappò di mano la scarpina di Adéla: “E questa?”
Sentii il tremito nella voce di Marinka: “Cosa vuole da lui?”
Deve averle mostrato la suola bucata degli stivali.
La voce della mia abilità si diffuse e da allora i miei clienti sono i militari delle SS.
Finché li avessi serviti “si sarebbero dimenticati della mia famiglia” mi dissero.
La mia casa è piccola, oltre a alla cucina c’è soltanto la camera da letto di mia figlia. Le due stanze sono separate da un corridoio stretto e senza finestre dove ho allestito il mio piccolo laboratorio. È qui che dormo e lavoro. Conosco ogni centimetro di queste mura e riesco a muovermi con agilità nonostante la mia menomazione.
“Nonno, vieni a maggiare!”
La mia Adéla era un fiore. La sua voce buffa mi risuona ancora nella testa… si tappava il naso quando mi veniva a chiamare per la cena. Aveva ragione, nel corridoio c’è sempre un gran fetore. Tiro su col naso. Ho esaurito le lacrime.
Accendere la stufa non è così difficile, Marinka è sempre stata molto ordinata e tutto si trova al proprio posto facilitandomi il compito. In breve l’odore della bramboračka satura la stanza. I ricordi, a volte, sono compagni scomodi.
Dov’è Adéla?
L’hanno presa… mi hanno tappato la bocca e puntato un coltello alla gola. Marinka tremava tutta quando mi porse la piccola scarpa della mia nipotina.
Non l’abbiamo più vista da allora. Io non mi ero accorto di niente. Tutta colpa delle esalazioni di quella maledetta colla. Per le riparazioni, il capitano Müller mi rifornisce di un potente adesivo in lattice di gomma di caucciù, un prodotto speciale per le calzature dei militari, una porcheria che mi manda fuori di testa ogni volta che la uso.
Un bussare insistente mi distoglie dai pensieri.
Raggiungo a tentoni la porta. Li riconosco dalla puzza, i maiali della Waffen SS: sanno di acqua di colonia, un profumo che mi dà la nausea, lo stesso odore che era nell’aria quella maledetta mattina.
«Heil Hitler!»
Il soldato entra da padrone. Non è il solito scricchiolio della pelle delle calzature che si contorce sotto il peso di un corpo robusto, è più simile a un piccolo schiocco, una battuta di mani. Non devo impegnarmi troppo per riconoscere il tipico ciabattare di una suola che si sta staccando dalla tomaia.
Non posso vedergli i piedi, ma sono sicuro che siano sporchi come la sua anima.
Gli faccio segno di seguirmi.
Il corridoio è illuminato da una lampadina fioca che accendo solo quando ricevo i clienti; il nazi impreca inciampando sullo sgabello. Deve essere finito col culo per terra. Se dessi retta al mio istinto gli darei una martellata in testa, oppure gli ficcherei subito un chiodo in mezzo alla fronte, ma non è il momento.
L’uomo inizia a tossire. Non è per gli stomaci deboli la puzza che impregna l’aria qui dentro.
«Non ci sono finestre» dico.
Apro il barattolo dell’adesivo speciale.
«Annusi questo… me lo fornisce Hauptsturmführer Müller di persona. Gli odori cattivi svaniscono subito.»
Gli porgo il vasetto. Ha le mani morbide come un neonato, le dita affusolate. Sono certo che abbia le unghie pulite e limate come una signora dell’alta società.
Dopo aver sniffato la colla, il militare si toglie gli stivali, allunga le gambe sullo sgabello, si libera di una scorreggia pestilenziale e mi strilla: «Schnell!» con la voce già impastata.
Per certe cose non ci vuole fretta.
Semenze, forbici, spazzole, lesine, trincetto... tasto dappertutto ma non riesco a trovare il punteruolo. Mi chino e ispeziono palmo a palmo il pavimento. Sospiro di sollievo quando mi pungo le dita. Ecco dove ti eri nascosto…
«Ho finito, mein Herr. Sono tornati come nuovi.»
Si alza e lo sento barcollare. Sbatte da una parte all’altra della parete come fosse ubriaco. È potente la colla del capitano Müller.
A tastoni cerco l’interruttore con un rituale collaudato. Spengo la luce.
«Tutto bene, mein Herr?»
Il maiale grugnisce, inciampa sul tavolino e inizia a ridere come una gallina strozzata. Mi afferra una caviglia e gli rovino addosso. Ride ancora ancora quando lo sorprendo conficcandogli il punteruolo nella gola. Più e più volte. Lascio scorrere il fiotto caldo del suo sangue fino all’ultimo zampillo, fino all’ultimo sussulto. Mi pulisco le mani sul tessuto ruvido della sua divisa e mi lascio sopraffare dai ricordi:
“Ancora cavolo e patate, chissà quando potremo aggiungerci un po’ di carne…”
Per me la zuppa era saporita anche così, a me la carne non mancava affatto, ma alla piccola Adéla avrebbe fatto bene mangiarne ogni tanto, aveva ragione Marinka.
Sospiro.
Cerco le fobici sul tavolino, mi chino di nuovo sul cadavere e lo ispeziono dappertutto fino a quando non sento la consistenza molliccia del suo sesso. Il porco deve essersi pisciato addosso, lo fanno sempre. Sbottono i pantaloni quel tanto che serve per estrarre il membro. È così flaccido che si taglia come il burro.
Una volta asportato, lo ficco nel taschino della camicia.
Gli sfilo gli stivali e li indosso. Mi vanno un po’ grandi, ma sono così robusti che posso prendere a calci quel corpo fino e farlo rotolare fino in fondo al corridoio senza troppa fatica. Una volta fatto il servizio, li butto in un angolo insieme agli altri da riparare.
Tiro via la coperta dalla branda, gliela getto addosso.
Cerco lo sgabello, ci salgo sopra e tasto la parete fino a incontrare il bulbo pendente della lampadina. Non ci vuole molto a svitarla. Meglio essere prudenti, qualcuno potrebbe venire a cercare quel porco.
Sento bussare. Il rumore è così forte che sembra che usino il calcio di un fucile.
«Aprite la porta, schnell!»
«Einen moment, bitte.»
Prendo solo il tempo di aggiungere un ingrediente alla zuppa.
Hauptsturmführer Müller entra come una furia e mi strattona:
«Dov’è?»
«Chi? Io stavo per mettermi a tavola… Vuole assaggiare della bramboračka?»
«Alter Dummkopf…» sibila tra i denti. Il capitano molla la presa e si dirige verso il corridoio.
«Non c’è luce!»
Allargo le braccia: «A me non serve. Deve essersi bruciata la lampadina, mi dispiace mein Herr.»
«Ho mandato qui uno dei miei, stamani. Non è ancora tornato.»
«Non è venuto nessuno oggi, mein Herr.»
Müller resta in silenzio, sembra quasi convinto, quando all’improvviso si avventa su di me stringendomi il collo fino a togliermi il respiro. Poi mi lascia a boccheggiare come un pesce appeso all’amo e mi mette in mano qualcosa di rigido: è la tesa di un cappello della Waffen SS. Il soldato deve averlo appoggiato sul tavolo di cucina. Non potevo saperlo.
«Dov’è il mio uomo?»
Sento gli spilli salire dallo stomaco fino al cervello. «Ecco, mein Herr, - ehm - il suo soldato si è trattenuto un po’ con mia figlia Marinka, ma è andato via ore fa. Forse lo ha dimenticato qui per la fretta.»
«Unsinn!»
«Davvero non vuole assaggiare un po’ di zuppa?» dico la frase a voce alta.
Marinka mi capisce al volo, sento il suo passo levitare in cucina. Profuma di cipria: deve essersi truccata. Ha imparato bene la propria parte.
«La prego, mein Herr, si sieda con noi» la sua voce è un invito al piacere. Quando era piccola aveva i capelli d’oro, lo sguardo profondo e vivo. Posso immaginare che, nonostante le prove della vita, mia figlia sia una donna ancora molto attraente.
«Digli al vecchio di togliersi dai piedi» lo sento biascicare lascivo.
«La posso bendare, mein Herr? A occhi chiusi si esaltano meglio tutti i sapori…»
Il porco abbocca, posso sentirlo ansimare.
«Shhh! Lasci fare a me, mein Herr…»
Sento le guance prendermi fuoco. Quello di Marinka è un gioco pericoloso.
Quanto pagherei per vedere la piccola salsiccia galleggiare nel piatto del nostro ospite.
Dai mugolii sembra che il capitano apprezzi molto il cibo. Sta ruttando di piacere quando qualcuno bussa di nuovo alla nostra porta.
«Heil Hitler!» Il militare batte i tacchi. «È qui Hauptsturmführer Müller?»
«Scheiße!» Lo sento uscire imprecando per il gioco interrotto.
Forse non tornerà più a cercare cercare il suo soldato disperso.
Mi alzo e vado a chiudere a chiave la porta.
In fondo al corridoio c’è un cadavere che sta marcendo, Marinka lo vestirà con degli abiti che appartenevano al suo povero Milan. Chi può distinguere un morto tedesco da uno ceco? È soltanto un’altra vittima della guerra e io non sono che un vecchio, innocuo, calzolaio non vedente.