Non so da quanto tempo sono qui in questa soffitta. C’è solo quella finestrella che mi fa capire quando sia giorno e quando sia notte. A volte non ci faccio nemmeno caso. Se non fosse per quelle interruzioni che mi svegliano, io dormirei per tutte le ore del giorno e della notte.
Ci sono dei ragazzi che entrano senza nemmeno chiedere il permesso e mi obbligano ad alzarmi. Mi spingono come se fossi un fagotto su di una carrozzina e da lì mi portano al fondo della soffitta dove c’è una piccolo bagno con un water e una doccia. Odio quando mi forzano sul water senza bisogno o quando mi fanno sedere su di uno sgabellino di fredda plastica per farmi la doccia. Mi parlano a voce alta come se non li sentissi ma il mio udito è sempre stato ottimo. Gli rispondo per le rime ma fanno finta di non capire quello che gli dico: troppo fredda, troppo calda, smettila di strofinarmi il culo o non toccarmi i coglioni.
Niente fanno quello che vogliono.
Anche il phon, col quale asciugano i miei ancora copiosi capelli argentati, è troppo caldo e mi brucia ma loro non ascoltano le mie grida.
Sì proprio così! Grido. Sono loro che son sordi! Mica io! Oppure se ne strafregano. Sì deve essere proprio così. Lo fanno anche quando mi portano il cibo.
Delle minestrine senza sapore e dei formaggini che mi ricordano quello triangolare dei miei tempi. Come si chiamava? Ma certo! “Mio”. Era anche buono! Non come questi che sono di plastica. Ma quando glielo dico a quelli lì, mi guardano e fanno battute che non c’entrano nulla con quello che gli ho appena detto. Son veramente dei deficienti senza alcun rispetto per un vecchio. Mi chiamano nonno ma non è con affetto. Sembra quasi disprezzo. Forse perchè si debbono prendere cura di me.
Ma che cura! Se fosse vero non sarei rinchiuso in questa soffitta col solo conforto di un televisore sempre acceso sullo stesso canale. Il 35. Me lo accendono quando arrivano con un caffelatte tiepido, dei biscotti e una dozzina di pillole di tutti i colori e varietà. Me lo spengono quando hanno deciso che dopo quella cosa che loro chiamano cena e un’altra dozzina di pillole come le prime io debba dormire. Così a comando!
Interessante come canale ma a lungo andare stanca vedere solo documentari di tutti i tipi anche se a volte qualche reportage di viaggi riesce a mantenermi sveglio, riportandomi a quel mondo esterno nel quale ho avuto la fortuna di viaggiare per moltissimi anni della mia vita attiva.
In effetti avevo molto tempo libero.
Chissà se lo sanno che ero un cattedratico di filosofia all’Università La Sapienza di Roma?
Ero anche molto stimato e benvoluto dai miei studenti. Forse perché le mie lezioni non erano mai tediose. Cercavo di convincerli che lo studio della filosofia non era una materia inutile e ostica da comprendere. Tutt’altro! In effetti era una scuola di vita con la quale si arrivava a saper dialogare su qualsiasi fatto appoggiandosi ad argomentazioni plausibili in sostegno della propria opinione. Era inoltre avere uno sguardo critico su di una questione discernendone il vero dal falso. Era quindi anche comunicazione e come tale era spesso abbinata proprio a un corso di quel nome considerato erroneamente più moderno. Davo perciò ai miei allievi un’arma ben potente da utilizzare nella loro vita e, per chi lo capiva, il trampolino di lancio era posto ai livelli più alti.
Ma non voglio star qui a guardare le crepe nel soffitto e rimuginare sul passato. Mi è venuta voglia di scrivere. Non quei quasi obbligatori saggi di filosofia come nel passato ma, prendendo spunto da quello che vedo in Tv, dei racconti di viaggio.
Ho trovato nel cassetto del comodino qui accanto al mio letto, un blocco notes e un paio di penne Bic. Scriverò quindi anch’io un documentario da lasciare in pasto a quei tipi che credono d’avere tra le mani un burattino privo di cervello, da trattare come un povero derelitto incapace d’intendere e di volere.
Ecco il primo titolo: “Ricordi di un viaggio sotterraneo e altro”
“Agli inizi di luglio del ‘84, il mio amico Giorgio, ricercatore biologo presso la mia stessa Università, m’aveva proposto di partire per un nuovo viaggio. Avremmo così festeggiato l’assegnazione del ventunesimo scudetto alla Juve di cui eravamo tifosi sfegatati e, avendo in comune la stessa passione per le immersioni subacquee, mi propose d’andare a trascorrere un paio di settimane all’isola di Palawan nelle Filippine.
Palawan, con i suoi quasi milleduecento chilometri di costa disseminata da baie e insenature, si affaccia a est sul Mar di Sulu e possiede quasi dodicimila chilometri quadrati di reef, segnalati come uno dei più bei panorami sottomarini del mondo e culla di miriadi di coloratissimi pesci.
Con la meteo a nostro favore, affittammo un piccolo catamarano a vela che ci portò a Tubbataha reef, l’unico ancoraggio abbastanza riparato dai capricci del mare. Si tratta di una microscopica isola, forse meglio definirla scoglio, nel bel mezzo del mar di Sulu, abitata da soli sei ranger, che hanno il compito di tutelare le acque che la circondano, definite parco marino protetto. Per quasi una settimana ammirammo e filmammo i grandi predatori mentre si nutrivano indisturbati della enorme quantità di pesci messa a loro disposizione da madre natura.
Registrammo bellissime immagini di grandi squali grigi in branchi compatti, aquile di mare che, mantenendo la loro linea di volo, ci sorvolavano in fila indiana, enormi cernie maculate che, nelle profonde tane dei fondali rocciosi, ci scrutavano coi loro immensi occhi curiose e senza paura, pesci pagliaccio che giocavano a nascondino nelle simbiotiche anemoni e grandi murene che aprivano le spaventose bocche mostrando i loro denti ricurvi con fare minaccioso, ma solo in apparenza, essendo questo il loro movimento naturale per respirare.
Dopo una mezza giornata di navigazione, da Tubbataha reef raggiungemmo Puerto Princesa.
La notte la passammo in un Hotel di cui non ricordo il nome.
Il mattino seguente noleggiammo un piccolo autobus da sei persone, ma con solo noi due come passeggeri e come incredibile accompagnamento musicale, una cassetta inserita nell’autoradio con la canzone che aveva vinto il Festival di Sanremo, di Romina e Al Bano “Ci sarà” ripetuta in continuazione. Uno stucchevole omaggio alla nostra italianità da parte dell’autista filippino. Meglio però del sempiterno “Volare” o ancor peggio di quel “O sole mio che di solito ci venivano proposte dai quei suonatori che allietavano le cene nei ristornati locali.
Ma noi non eravamo lì per ascoltare musica. Il nostro obiettivo era percorrere il famoso fiume sotterraneo chiamato St. Peter River.
Non c’erano strade asfaltate e il viaggio verso l’ovest fu abbastanza avventuroso.
Il nostro driver, trovandosi di fronte a un improvvisato torrente, lo volle attraversare a tutti i costi e il pulmino si bloccò a metà del guado. Eravamo nel bel mezzo di una giungla e io, a torto, pensai che la nostra escursione terminasse lì. Addio St. Peter River. Ma non fu così. Da chissà dove sbucarono una dozzina di indigeni che, con molta buona volontà e bagnandosi fino alle spalle, riuscirono a trarre d’impaccio il nostro mezzo. Noi due assistemmo al salvataggio dopo essere scesi in acqua e attraversato la forte corrente con l’acqua quasi alla cintola e con molta difficoltà.
Giorgio che possedeva un inglese molto basico, mi chiese di trasmettere i suoi insulti al nostro autista che aveva messo in pericolo la nostra vita (sic) ma soprattutto il suo prezioso equipaggiamento video.
Dissi che il driver parlava solo tagallo (una delle lingue delle Filippine) e che quella parlata era una delle poco non appartenenti al mio scibile.
Probabilmente pensò che lo prendessi per i fondelli.
Era proprio così!
Il pulmino, dopo ancora un paio d’ore di faticoso viaggio, ci depositò su di una spiaggia dove salimmo su di una piroga con un rematore al posto del motore che ci trasportò fino a un’altra località situata all’ingresso di quella caverna, lunga oltre una dozzina di chilometri, i soli fino ad allora esplorati, chiamata St. Peter River.
Ci imbarcammo su di un’altra piroga, stavolta con motore elettrico e, mentre Giorgio avrebbe manovrato la sua videocamera, io mi sarei occupato delle luci. Con una potente torcia, collegata a una batteria d’auto e offertami dal pilota dell’imbarcazione, avrei diretto il fascio luminoso su quelle configurazioni rocciose degne d’interesse che mi sarebbero state indicate dal pilota stesso.
La luce giocava con le lunghe stalattiti e stalagmiti del tunnel, disegnando figure immaginarie: la cattedrale, la Madonna, l’aquila e altre ancora. In certi tratti del percorso si penetrava in enormi caverne dove migliaia di pipistrelli attendevano il calar del sole per uscire per la loro consueta caccia notturna.
Giorgio non aveva pensato di portare con sé i potenti fari normalmente collegati alla sua videocamera ed era insofferente di non poter realizzare un bel filmato di quel così straordinario panorama.
La luce del mio faro, secondo lui, non era sufficiente.
Al ritorno verso il nostro pulmino, mi fece partecipe del suo scontento, che io non presi nemmeno in considerazione.
La durata dell’escursione fu di quasi un’ora e alla fine, eravamo di già sull’aereo di ritorno in patria, anche Giorgio dovette convenire che quell’esperienza era stata molto avvincente.
Qualche tempo dopo il nostro ritorno in Università mi mostrò il video sapientemente editato e, come al solito, ritenni mio dovere congratularmi con lui.
Come per tutte le altre registrazioni dei nostri viaggi insieme, me ne regalò una copia che dovrei avere ancora da qualche parte qui in casa.
Proverò a chiedere ai miei custodi, la prossima volta che vengono qui in soffitta da me. Forse è proprio qui ma io non riesco ad alzarmi da solo e purtroppo dipendo da loro.
Son sicuro che ho anche quello di Halong Bay e pure delle Komodo come del resto di tutti i viaggi fatti con Giorgio. E son tanti.
Chissà dov’è Giorgio adesso? Chissà se è ancora vivo? Aveva solo quattro anni meno di me e io ne ho ottantasei. O forse ottantasette. Ma chi se ne frega. Sono ancora qui e posso pure raccontarvela. La prossima volta vi narrerò del Brasile, delle sue carioca e magari anche d’Iguazù.”
«Signora Luisa, guardi cosa ho trovato in camera di suo padre.»
Gino, l’infermiere che accudiva il signor Giacomo invalido al cento per cento a causa dell’Alzheimer e che ormai da quasi un anno era allettato, in camera sua, trasformata in stanza ospedaliera da quell’orribile letto ortopedico e dalla carrozzina a ruote, le stava porgendo un grande blocco notes.
Luisa sfogliò una mezza dozzina di pagine scritte a biro poi alzò lo sguardo attonito verso l’uomo chiedendogli: «Secondo lei questo cosa vuol dire?»
«Veramente signora non ci ho capito nulla nemmeno io. Sembra una scrittura ma… non ha nessun significato. Si direbbe un corsivo però le parole sono illeggibili. Non so cosa abbia voluto scrivere il signor Giacomo. Pensavo magari fosse una qualche lingua straniera ma non sembra nemmeno questo. Veramente non capisco. E lei?»
«Non capisco nemmeno io. Credo che lui pensi di aver scritto qualcosa ma dal momento che non riesce nemmeno a parlare… lo sente anche lei, quei mugugni che sembrano parole prive di alcun senso, forse è così anche per la scrittura. Lui crede di scrivere ma la sua penna non segue la sua volontà. Pover’uomo era un così grande comunicatore.»
«Che faccio signora? Gli rimetto a posto il blocco notes? O…»
«No! No! Gino, rimettiamolo dov’era. Non fa danno a nessuno e magari così è più contento. Anche se… chissà cosa gli passa per la testa poveretto? Era così brillante. Un grande filosofo ma anche un bel giramondo. Pensi che in quello che era il suo studio, ora di mio marito, abbiamo una vetrinetta con almeno una cinquantina di videocassette, di tutti i suoi viaggi intorno al mondo. Forse sarebbe meglio trasformarle in qualche supporto più moderno…»
Luisa sembrò meditare permettendo così all’infermiere d’intervenire.
«Va bene signora. Allora se me lo dà lo rimetto nel cassetto.»
«No. Ci penso io. Grazie Gino.»