Una pioggia sottile fa rilucere come uno specchio la strada su cui si affacciano i grandi palazzi fiorentini. La cappa plumbea colora di grigio le pareti e i volti dei passanti che camminano spediti rasentando i muri. I rintocchi delle campane richiamano i fedeli alla Messa della domenica.
Una folata di vento improvvisa costringe un anziano a soffermarsi: solleva il bavero del cappotto, infila una mano nella tasca per assicurarsi che il contenuto sia ben protetto dall’umidità, quindi prosegue incurante delle gocce che grondano dalla tesa del suo cappello. Procede a capo chino, con un’andatura strana, come se camminasse senza piegare le ginocchia, eppure si muove agile senza l’ausilio di un bastone.
Alza lo sguardo solo quando raggiunge palazzo Ginori. Al centro della facciata, lo scudo con l’arme della famiglia appare di un azzurro sbiadito.
Il vecchio afferra il picchiotto bussando con vigore; poco dopo una domestica apre la porta: indossa un abito color carta da zucchero e un ampio grembiule immacolato; ha i capelli raccolti e lo sguardo severo. Appena lo vede resta impalata sulla soglia fissandolo senza dire una parola.
Lo sconosciuto si toglie il cappello mostrando una folta chioma canuta e resta a sua volta in attesa. Il fermo immagine dura qualche istante, ma il tempo sembra dilatarsi all’infinito.
«Desiderate?» La donna è la prima a riscuotersi.
Per tutta risposta, il vecchio inizia a gesticolare indicando la propria bocca da cui non esce che un suono gutturale simile al raglio di un asino.
La domestica sta per richiudere la porta quando lui tira fuori dalla tasca una copia delle “Avventure di Pinocchio - storia di un burattino”, apre la copertina e le mostra la pagina bianca mimando il gesto di firmare.
La donna lo squadra da capo a piedi e gli fa cenno di attenderla lì fuori.
L’uomo rimette il libro in tasca e aspetta con la fermezza di una guardia reale, indifferente alle occhiate curiose delle poche persone che gli passano accanto.
Dopo un’attesa di almeno un quarto d’ora, è il padrone di casa che esce ad accoglierlo.
«Entrate, vi prego, non vorrei che vi buscaste una polmonite con questo tempaccio!» Vedendolo titubare, gli offre una calorosa stretta di mano: «Piacere, sono Paolo Lorenzini, il fratello di “Collodi”.»
L’uomo si apre in un sorriso ricambiando la stretta. Sul dorso della sua mano destra spicca una profonda cicatrice.
All’ingresso, deposto il cappotto fradicio, cammina in punta dei piedi per evitare di bagnare il pavimento lustrato a specchio dimostrando di possedere l’elasticità di un giovane.
Salgono al piano superiore e si accomodano sul divanetto in salotto accolti dal tepore benefico di una stufa a carbone.
«Immagino che non lo sappiate… Mio fratello, purtroppo, è venuto a mancare all’improvviso un mese fa.»
Un raglio addolorato fende il silenzio della stanza, lo sconosciuto non riesce a trattenere le lacrime.
Lorenzini lo abbraccia forte sotto lo sguardo attonito della domestica.
«Voi siete Donkey, vero?»
L’anziano resta a bocca aperta.
«Non ve ne abbiate a male, vi conosco dai racconti di mio fratello. So che eravate buoni conoscenti. Vi chiamano così, ma non ho mai saputo il vostro vero nome.»
Augusto Fitzgerald, marinaio dal volto solcato dalle lunghe esposizioni al sole, dalla salsedine e dall’età, annuisce. Mima il gesto di scrivere.
«Ma certo! Che sprovveduto sono… Vi procuro subito carta, penna e calamaio. Intanto, gradite una tazza di tè? Non ne assaggerete uno migliore a meno che non vi rechiate direttamente a Ceylon.»
Un cenno di assenso è sufficiente: la governante si avvia in cucina con sollecitudine.
«Ah, dimenticavo. Adele, serviteci anche un po’ dei vostri dolcetti.»
L’ospite congiunge le mani in segno di ringraziamento.
Una volta rimasti soli, il padrone di casa si schermisce: «È una brava donna, molto protettiva. Vi prego di scusarla se vi è sembrata un po’ brusca.»
La domestica entra poco dopo nella stanza sorreggendo un vassoio con un bricco fumante. Le tazzine di porcellana sono finemente decorate con motivi floreali e recano impresso un cartiglio con le cifre “P” e “L” in oro zecchino: le iniziali di Paolo Lorenzini, direttore della famosa fabbrica di ceramiche Ginori di Sesto Fiorentino. Dei biscottini di fragrante pasta frolla con granella di frutta secca e canditi completano il piccolo rinfresco.
Lorenzini legge a voce alta il nome dell’ospite. Il tratto impresso sulla carta è stentato e pesante, il foglio in alcuni punti sembra essersi bucato, l’inchiostro fiorisce in macchie che si espandono con rapidità.
«Augusto... che nome importante avete! Sentite, ecco, non so come dirvelo, ma io penso che sia stato proprio mio fratello dal cielo a guidare i vostri passi fino a qui. Era mia intenzione venirvi a cercare per una certa faccenda che vi dirò, ma non sapevo proprio come potervi rintracciare.»
Il vecchio marinaio, all’improvviso, sembra una statua di sale.
«Non capite, vero? E come potreste? Su, seguitemi. Dovete assolutamente vedere una cosa.»
Salgono due rampe di scale prima di giungere in un corridoio che conduce a una porticina.
Sembra di essere in un’altra abitazione: lasciate alle spalle le volte affrescate e le porte di legno intarsiato, questa parte della casa ha un non so che di monastico.
Il padrone di casa estrae una piccola chiave dalla tasca. Aperta la porta, i due entrano curvando leggermente le spalle.
La luce naturale che filtra dall’abbaino, complice la giornata grigia, non è sufficiente a illuminare il locale. Lorenzini accende la lampada a petrolio che si trova a portata di mano su di una mensola in prossimità dell’ingresso. Uno spesso strato di polvere riveste la gran parte degli oggetti depositati: vecchi bauli, cianfrusaglie, perfino la custodia di un violoncello e un cavalletto da pittore… ma, dietro uno scaffale stracolmo di libri e riviste, ci sono uno scrittoio e una sedia: un angolo nascosto e silenzioso.
«Vedete, è qui che Carlo ha scritto il suo Pinocchio. Ma… non vi ho condotto quassù per questo.»
Il fratello di Collodi apre un cassetto dello scrittoio, tira fuori una cartella che contiene una serie di disegni e la porge ad Augusto.
Al vecchio lupo di mare tremano le mani mentre gira in modo febbrile ogni foglio. Tira su col naso, si pulisce con la manica della giacca e, senza curarsi della polvere, si siede sul pavimento sconvolto dai singhiozzi.
«Credetemi, comprendo la vostra emozione.»
Una pagina dopo l’altra, l’uomo non riesce a smettere di tremare.
«Vi racconto una storia. Una sera, rincasando a tarda ora, mi parve di sentire un insolito trambusto. Salii le scale di corsa e mi avvidi che una luce filtrava dalla camera di mio fratello. Bussai ma egli non mi rispose. Allora, temendo che si sentisse male, mi decisi ad aprire. La stanza era sottosopra. Lui si affannava a frugare in ogni angolo, camminava a gattoni come un infante, infilava la testa sotto al letto e buttava all’aria tutto quello che trovava. Pensai che fosse impazzito.»
Il marinaio si tappa le orecchie e fa un cenno di diniego.
«Gli chiesi cosa stesse cercando con tanta foga. Rispose in malo modo che la cosa non mi riguardava. Non era da lui comportarsi così, non con me che lo avevo accolto in casa mia e lo sostenevo in ogni sua necessità.»
L’anziano mima il gesto di riempire un bicchiere e bere.
«No, no, non era ubriaco e neppure pazzo. Solo che non trovava più una cartella che conteneva certi disegni. Disse che era sicuro di averla lasciata in bella vista sul comodino e che senza quella non poteva scrivere una storia che aveva in mente. Passammo la notte a cercarla finché anche Adele si svegliò per la confusione. Aveva rimesso in ordine la camera e riposto i disegni in soffitta.»
L’anziano mima il gesto di asciugarsi il sudore dalla fronte.
«Già, quella sera, per fortuna, tutto finì bene. Carlo, una volta calmatosi, mi raccontò di avervi conosciuto al Caffè Michelangelo. Mi disse che eravate circondato da un gruppo di artisti che osservavano le vostre movenze simili a quelle di una marionetta. Vi avevano messo al centro e facevano degli schizzi sui loro blocchi ridendo in modo sguaiato delle vostre gesta. Voi non sembravate turbato da tanto interesse. Vi ripagavano a suon di punch ed eravate poco sobrio. Il fatto di vedervi schernire in tale modo, lo disturbò e volle invitarvi al suo tavolo per togliervi da quell’impiccio poco dignitoso. Dovete sapere che Carlo, da giovane, aveva intrapreso gli studi per diventare sacerdote. L’attitudine del buon samaritano ce l’aveva nel sangue… Quegli ubriaconi non la presero bene e scoppiò una rissa. Voi proteggeste mio fratello col vostro corpo e foste colpito in vece sua col vetro di un bicchiere rotto. Ma questa parte della storia non serve che ve la racconti, ne portate ancora il segno.»
“Gli diedi appuntamento per la sera successiva. Quell’uomo aveva rischiato di perdere la mano per causa mia e non mi davo pace. Non spiccicava una parola e quando tentava di farlo emetteva un suono così ridicolo… sembrava il raglio di un ciuco. Per questo gli avevano affibbiato il nomignolo di “Donkey”. Venni a sapere che non era nato muto, lo era diventato a causa di un episodio sconcertante che poi lui stesso ebbe modo di rivelarmi.”
“E come fece se non poteva parlare?”
“A gesti: era bravissimo a mimare. In seguito, grazie a questi disegni, tutto mi fu chiaro.”
“C'è una grande nave… era un marinaio?”
“Sì, un baleniere. La nave su cui era imbarcato si era spinta fino ai mari sud orientali dell’Asia. Navigavano da molti giorni senza successo, erano tanto scoraggiati da esser sul punto di abbandonare l'impresa quando avvistarono lo sbuffo di un grande esemplare. Il capitano ordinò di seguirlo sfidando la sorte. Li spronava promettendo loro molti zecchini d’oro dicendosi certo che la cattura di quella balena avrebbe fruttato a tutti una fortuna.
“La presero?”
“No. Donkey mi fece capire che la caccia durò molti giorni. Finirono fuori rotta. Le riserve d’acqua e di cibo stavano per esaurirsi mentre il rum era finito da tempo… Così, appena fu possibile, attraccarono nei pressi di una baia di una piccola isola. Non era segnata nelle carte, ma la spiaggia era di rara bellezza e tutti sembrarono felici della loro buona sorte.”
“Oh, mio Dio, e questo cos’è? Non ho mai visto un animale simile!”
“Caro fratello, questa bestia fu la rovina della spedizione. Era una lucertola così grande da sembrare un drago delle fiabe. Il capitano, quando la vide, si mise in testa di catturarne un esemplare dicendo a tutti che quel rettile valeva molto più di una balena, che un animale così non si era mai visto… Sotto la verga e le minacce, i marinai iniziarono la caccia, ma una volta lanciati gli arpioni, la bestia si difese e li attaccò strappando loro le carni a morsi. Molti finirono così, altri, raggiunti dalla sua lunga lingua velenosa, morirono con grandi patimenti nei mesi successivi. Donkey riuscì a salvarsi gettandosi in acqua, ma per lo spavento e l'orrore perse la capacità di parlare”.
“Come fece a tornare a casa?”
“Alcuni, compreso il capitano, riuscirono a raggiungere la nave e salpare. Al rientro da quella tremenda avventura il mio strano amico decise di abbandonare per sempre le vie del mare. Per sopravvivere iniziò a girovagare per le piazze dei paesi vivendo di elemosine come artista di strada. La gente si radunava per vederlo gesticolare, rideva delle sue disavventure. I bambini adoravano vederlo mimare le movenze del drago, soprattutto quando apriva la bocca a dismisura fingendo di mangiarli.”
“Sembra una storia così assurda…”
“Ti confido di aver sospettato che fosse un gran bugiardo, ma, frequentandolo sera dopo sera, mi convinsi che non mentiva e mi misi in testa di aiutarlo. Pensavo che se lo avesse visitato un bravo dottore forse poteva ricominciare a parlare. Avrei pagato io l'onorario, ma un giorno non lo trovai più. Tornai al caffè Michelangelo, chiesi di lui, ma nessuno seppe dirmi dove fosse andato.”
“E questi disegni? Come li hai avuti?”
“Li ho acquistati dagli artisti che li avevano fatti e posso dire di non aver mai speso meglio i miei denari”.
Augusto si alza, scuote i pantaloni dalla polvere e dà una lieve pacca sulle spalle al padrone di casa del tutto assorto nei ricordi.
«Perdonatemi, ero soprappensiero. Forse non ci crederete, mio fratello voleva aiutare voi, ma, in realtà, voi avete aiutato lui.»
L'anziano marinaio fa cenno di non capire.
«Pinocchio… l'avete ispirato voi. Siete voi stesso. Le vostre movenze, il fatto di non riuscire a parlare, l'asino, la balena, la promessa degli zecchini… Mangiafuoco è il capitano avido che trattava il suo equipaggio come burattini. La vostra conoscenza e questi disegni che raccontano la vostra vita gli hanno dato l'ispirazione per scrivere la storia che tanta fortuna sta riscuotendo. Prendeteli, sono vostri. C’è anche un legato a vostro favore nel testamento di mio fratello. Per questo avevo intenzione di cercarvi.»
Un accenno di sorriso illumina il volto incartapecorito del vecchio.
«Adele mi ha riferito che vi siete presentato qui perché Carlo firmasse la vostra copia di “Pinocchio”.»
Donkey, con gli occhi lucidi, emette un raglio di assenso.
«Donatelo a me quel libro. Ecco… io vi chiedo la gentilezza di metterci la vostra firma. Ne sarei onorato.» Lorenzini gli porge una penna ben inchiostrata.
Il vecchio marinaio sgrana gli occhi, apre la copertina e, con gesto da scrittore consumato, scrive il proprio nome in stampatello.
I due uomini si abbracciano prima di salutarsi.
Paolo Lorenzini giura di aver sentito Donkey sussurrare: «Grazie.»