Stamattina ho preso il treno delle sette e ventisei perché mi sono data appuntamento con Sara a Padova davanti al Liviano. Ho messo le prime cose che ho trovato in camera: camicetta con le spalline e jeans a sigaretta, poi ho indossato le mie mitiche Timberland.
Mi aspetta seduta su uno dei paracarri davanti all’ingresso, con un total look jeans, scarpe comprese. Si mette a ridere e mi saluta con il suo accento milanese. «Uè, ciao paninara!»
Senza togliere le mani infreddolite dalle tasche, le mostro il parka. «Guarda che non è un Moncler!»
Ci baciamo sulla guancia. «Sei paninara lo stesso. Come stai?»
Sara è dottoranda in psicologia, è un po’ la mia ancora di salvezza per la disforia di genere. «Come sempre. Oggi meglio di ieri. E tu?»
«Bene. Hai letto le fotocopie? Cosa ne pensi?»
Sospiro. «Sì, interessante. Molto. Però… Da una parte sarebbe fantastico avere i documenti con scritto Adamo Rigon. Ma mi spaventa tanto l’intervento chirurgico… per cosa, poi?»
Sara sorride tra lo sbarazzino e il malizioso. «Beh…»
Le do una spintarella. «Mona! Comunque grazie; mi ha fatto bene.»
Ci abbracciamo.
«Allora ti posso chiamare Adamo?»
Ho un tuffo al cuore. Metto le mani avanti. «No! Ti prego, troppo imbarazzante. Cioè, guardami: sembro proprio una femmina. Non… Non…»
Mi mette una mano sulla spalla. «Ok, tranquilla. Un passo alla volta.»
Annuisco. «Grazie.»
Stiamo in silenzio per qualche secondo, poi inspiro profondamente. «Cioè, non ci sono abituata; ho passato tutta la mia vita a sentirmi dire che sono malata. È tutto bellissimo quando mi dici che invece va tutto bene, però… cioè…»
Mi guardo intorno. La piazza si sta ravvivando, piena soprattutto di ragazzi e ragazze che per la maggior parte si dirigono al Liviano. «Le persone non sono tutte Sara Ghezzi e questa cosa mi fa tanta paura.»
Ci abbracciamo di nuovo.
È arrivata anche per noi l’ora di salire ai dipartimenti. Oggi non abbiamo seminari ma escono i risultati dei colloqui per le borse di studio. Sara mi stringe il braccio; la sento tremare e questo alimenta la mia agitazione. Saliamo le scale parlando di Spandau e Duran, se è più bella Gold o New Moon On Monday. In corridoio mi viene spontaneo girare verso filosofia. Sara ride e mi tira dall’altra parte.
Il dipartimento di sociologia non è poi così diverso: grandi porte in legno scuro, finestroni che si affacciano su piazza Capitaniato, quadri e foto alle pareti. Siamo tutte e due fuori luogo, qui. Io non riconosco nessuno; Sara invece saluta alcuni compagni, che ricambiano facendo allusioni enigmatiche. Mi sento elettrizzata: vuoi vedere che a lei è andata bene?
Arriviamo alla bacheca di sughero dove sono esposte le comunicazioni agli studenti. Troviamo il foglio che ci interessa. Il suo nome è il primo: Dottoressa Ghezzi Sara, psicologia, sessanta sessantesimi.
Pensavo che si sarebbe messa a saltare e urlare di gioia, invece si limita a dire: «Sì!» alzando le braccia al cielo.
Segue il Dottor Montanari Marco, sociologia, cinquantotto sessantesimi.
Il mio nome ancora non c’è; seguono tutta una serie di dottori e dottoresse in sociologia. Penso che sia giusto così, non ero molto fiduciosa nel mio orale. Mi sale la rabbia solo perché speravo di sbattere il risultato in faccia a papy.
«Guarda!» Sara indica una riga nell’elenco e mi abbraccia prima che io riesca a focalizzare.
Dottoressa Rigon Chiara, filosofia, cinquanta sessantesimi. Mi rendo conto solo adesso che la riga è evidenziata in giallo, come le prime due.
Mi metto le mani davanti alla bocca e scoppio in una risata liberatoria.
«Sei la prima di filosofia! Ma ti rendi conto?»
Annuisco, ma ancora non credo di aver capito bene.
Sara legge la comunicazione esposta sotto la graduatoria: «I vincitori della borsa di studio per il gruppo interdisciplinare che ha l’obiettivo di analizzare le condizioni sociali, culturali e ambientali della popolazione dell’isola di Komodo sono convocati per le ore undici nello studio del professor Rosario Russo. Dai, andiamo a festeggiare!»
Mi stringe il braccio e mi trascina verso l’uscita. Io prima vorrei scoprire dove si trova lo studio, ma non c’è modo di farle mollare la presa e la devo seguire per forza.
La stanza dove lavora il professor Russo è arredata con mobili in legno che sembrano vecchi come il Liviano. Il dottorando di sociologia, di cui non ricordo più il nome, è già seduto e ci accomodiamo anche noi. La scrivania, riverniciata più di una volta, ha solchi profondi che la attraversano in lunghezza. Dall’altra parte, insieme al professore, c’è l’assistente che faceva parte della commissione esaminatrice.
Russo inizia con le presentazioni. «Lui è il professor Luca De Santis, sarà il coordinatore del gruppo interdisciplinare.»
Il dottorando in sociologia interviene. «Lo conosciamo.»
Russo gli lancia un’occhiataccia, poi continua. «Bene. Per qualunque problema, dubbio o perplessità chiedete pure a lui, sarà il vostro punto di riferimento. Dopo vi lascerà il suo interno.»
Di nuovo il dottorando: «275.»
Russo non so come mantiene la calma. «Lei è?»
«Professore, non si ricorda? Sono Marco Montanari. Ho fatto l’esame di ammissione al dottorato con lei.»
«Ho esaminato tante persone, mi dispiace che proprio lei mi sia sfuggito. Lei invece?»
Tiro fuori la poca voce che non mi resta bloccata in gola. «Chiara Rigon, dipartimento di filosofia.»
Russo annuisce. «Ha fatto la tesi su Habermas, mi diceva De Santis.»
Sorrido. «Sì, mi ha affascinato subito con le sue idee, mi piace quando la filosofia è applicata allo studio critico della società.»
«Bene. Lei?»
La mia amica ha una voce squillante. «Sara Ghezzi, dipartimento di psicologia. Ho fatto la tesi su Schütz.»
«Centodieci e lode, e un piano di studi improntato sulla sociologia fenomenologica. È sicura che non vuol passare da questa parte?»
De Santis si schiarisce la voce. «Rosario, abbiamo bisogno di una dottoranda in psicologia…»
Russo sorride. «Come non detto. Come dite voi giovani? Facciamo rewind? Resti pure dall’altra parte del corridoio, io non ho parlato. Comunque, semmai, tra un anno, se dovesse cambiare idea, le porte qui sono aperte.»
De Santis si schiarisce di nuovo. Russo alza le mani. Io e Sara ridacchiamo.
Marco, serio: «Io ho fatto la tesi su Mannheim.»
Russo si gira. «Lo conosciamo.»
Sara mi tira un calcetto senza farsi vedere. Io alzo le spalle. Per adesso ridacchiamo, ma purtroppo ci toccherà sopportare quel dottorando per ben sei mesi.
Oggi è il 2 giugno 1984 e siamo al secondo mese di missione. In Italia è festa nazionale, mentre qui è sabato; che poi è come dire lunedì perché a Komodo la popolazione è musulmana e riposa al venerdì.
L’unica radio trasmette in lingua bajo e questo è solo uno dei tanti inquinanti culturali: la maggioranza degli abitanti è infatti di origine bugis, ma nemmeno loro sono autoctoni. Insomma è un puzzle difficile da districare e non è facile capire qual è il substrato sociologico che rende unico questo villaggio.
È pure il terzo giorno di ramadan e sto provando a digiunare anch’io. Così, mentre Sara, Marco e il professor De Santis vanno nel bungalow a pranzare, mi intrattengo all’ombra delle palme con una delle nostre guide: è una giovane donna di nome Hasnah. Con lei parliamo in francese, più o meno; ogni tanto ci inventiamo delle parole, ma alla fine l’importante è che ci capiamo.
«Tu non vai a mangiare?»
«No, faccio digiuno.»
Mi sorride. «Davvero? Mi fa molto piacere. E perché lo fai?»
«Voglio capire meglio la vostra cultura.»
Hasnah ridacchia. «Voi italiani siete buffi. Questo è un villaggio di pescatori, cosa c’è da capire? Butta le reti, prendi i pesci, cucinali per la famiglia… fine. Sei mesi mi sembrano tanti per studiare la nostra filosofia. No?»
Rido di gusto. «Hai ragione. Ma c’è anche raccogli le banane, sbucciale, mangiale…»
Lei annuisce ironica. «Ah! È vero, questo complica molto la nostra vita.»
«A parte gli scherzi, sto cercando… stiamo cercando qualcosa di molto particolare; magari unico e antico, mi spiego?»
Hasnah sembra riflettere e poi annuisce tra sé. «C’è Putu, è l’ultimo bissu.»
Nella mia mente si forma l’immagine di Indiana Jones nella prima scena del film. «L’ultimo bijou?»
Ride. «No, non è un gioiello. Bissu. È un vecchio che… fa magie.»
Mi sento attraversare il corpo da una scossa. «Ma è fantastico! Devo assolutamente incontrarlo. Sai dove posso trovarlo?»
Si alza in piedi e mi offre la mano. «È molto anziano, vive nel sottotetto della casa di un suo parente. Vieni, sentiamo se ti può ricevere.»
La famiglia di Putu, l’ultimo bissu, ci riceverà stasera per l’iftar, il pasto che si consuma dopo il tramonto durante il ramadan. Ho convinto i miei compagni di missione a saltare per lo meno il pranzo, perché ci sarà molto da mangiare e sarebbe maleducato rifiutare qualche porzione.
Hasnah sta aiutando me e Sara a preparare del kolak, una zuppa a base di banane e patate dolci, per non presentarci a mani vuote. Non c’è verso che i maschi ci diano una mano.
Marco scribacchia qualcosa sul suo quaderno degli appunti. «È evidente che Putu è l’ultimo superstite di una casta di sciamani chiamata bissu. Dobbiamo scoprire se sono stati sterminati dagli olandesi, dai bajo, dai bugis o dai fondamentalisti islamici.»
Per fortuna ha parlato in italiano. Hasnah ci fissa con lo sguardo interrogativo, ma Sara alza le spalle e in francese aggiunge: «Parole senza senso.»
Nel frattempo De Santis prova ad aggiustare il tiro. «Potrebbe anche darsi che non sia successo nulla di così catastrofico. Forse il sistema di caste originario potrebbe essere stato assimilato durante l’islamizzazione. Bisogna capire quali fossero i compiti dei bissu e chi li svolge oggi.»
E così, mentre Marco tira fuori le ultime teorie sulla sociologia della conoscenza, Hasnah rimprovera Sara. «Ah, ah! Non si assaggia.»
«Uffa! E come faccio a sapere se è pronto?»
«Usa il mestolo o uno spiedino. Così.»
De Santis non è d’accordo e rilancia con alcune congetture di sociologia fenomenologica.
Sara piagnucola. «Però io non sto facendo ramadan, potrei anche…»
Io le faccio gli occhi dolci da gatto smarrito; Hasnah mi imita. Sara non può fare altro che posare il mestolo.
Marco pretende di aver ragione.
La zuppa è pronta appena in tempo per salire a casa dei nostri ospiti. Ci accolgono con tantissimo riguardo e ci ringraziano pure, quando in realtà siamo noi in debito con loro. Assistiamo in silenzio alla preghiera del tramonto, infine i bambini ci portano un dattero per rompere il digiuno.
Durante l’iftar il capofamiglia e la moglie ci raccontano a grandi linee la storia di Putu. Lui non ha avuto figli, per cui a prendersene cura fu la sorella, che poi lasciò l’incombenza al figlio e così via; a sentire loro, sarebbe lì nel sottotetto da generazioni e dovrebbe avere più di cento anni.
Marco come al solito fa le sue considerazioni fuori luogo ma nessuno ha il coraggio di tradurle in francese.
Nel frattempo, il figlio maggiore scende dopo aver portato da mangiare al pro-prozio. Fa un annuncio che ci viene subito tradotto da Hasnah: «Putu è disponibile a celebrare un rito, ma alla presenza di uno solo di voi.»
Marco non fa in tempo a dire: «Io,» che De Santis e Sara mi hanno già chiesto, quasi in coro: «Vai tu?»
De Santis aggiunge: «Hai trovato Putu e in più stai facendo ramadan, secondo me sei la persona più adatta.»
Io sono perplessa. Sara annuisce per incoraggiarmi. Non ho idea di che cosa mi aspetti. Sento anche il peso della responsabilità di essere l’unica testimone di ciò che accadrà, ma accetto.
Tolgo i sandali e salgo nel sottotetto insieme a Hasnah. Ho paura di trovare una stanza che puzza di vecchio e disinfettante, come la casa di mia nonna. Invece c’è odore di erbe, che bruciano come incensi in alcuni piatti di terracotta, e nient’altro.
Putu sembra avere davvero cent’anni a giudicare dalle rughe sul viso. Il portamento è fiero, la schiena è dritta ed è seduto con le gambe incrociate su un materasso disteso per terra.
L’anziano bissu mormora delle parole, subito tradotte da Hasnah: «Ti saluto e ti ringrazio per la visita. È da tanto tempo che non ricevo forestieri. Accomodati e dimmi cosa ti porta da me, c’è qualche nodo che stringe il tuo cuore?»
Mi siedo a gambe incrociate sul materasso di fianco al suo. Ho davvero qualcosa di grosso che mi opprime ma non ho sufficiente confidenza con Hasnah per tirarlo fuori. E poi ricordo il motivo per cui sono salita qui e non riguarda di sicuro me. «Sono io che ti ringrazio per avermi ricevuta e per concedermi l’onore di partecipare al rito.»
Putu rivolge la mano verso di me. «Questo è un rito antico quanto il primo bissu che giunse a Komodo. Incontrò il drago, guardiano dell’isola, e strinse un patto con lui. Erano arrivati uomini, donne, calalai e calabai, e il guardiano li aveva divorati. Ma quando arrivò il primo bissu il guardiano non lo divorò.»
Mi gira la testa; troppe informazioni tutte insieme. «Hasnah, scusami. Mi ripeti chi arrivò con gli uomini e le donne?»
«Calalai e calabai, non so come si dice in francese. I calalai sono persone nate femmine ma che hanno l’anima del maschio. Si vestono da uomo, fanno lavori maschili e si sposano con le donne.»
Il cuore mi batte all’impazzata. E mentre Hasnah mi spiega le calabai, io mi sento persa per la naturalezza con cui mi ha spiegato i calalai, perché è proprio il maledetto concetto che mi rappresenta alla perfezione.
La fiamma delle candele balla e uno scricchiolio rompe il silenzio, sovrapponendosi alle voci ovattate dell’iftar che continua al piano di sotto. A un cenno di Putu, Hasnah alimenta gli incensi aggiungendo altra miscela di fiori e piante secche nei piatti di terracotta.
Il bissu annuncia, tradotto dalla guida: «È arrivato. Desideri incontrare lo spirito del drago guardiano?»
Non ho idea di cosa voglia dire, ma sono qui anche per questo. «Sì, sono pronta.»
Hasnah mi porge una ciotola che contiene una polvere dall’odore pungente.
«Cos’è?»
Mi risponde senza chiedere a Putu. «È polvere magica. Contiene erbe, radici, fiori e ossa di animali. Ogni ingrediente ha un significato ma non so altro.»
«E tu l’hai provata?»
Annuisce. Mi fa cenno di inspirare profondamente.
Sono titubante. Di sicuro c’è qualche sostanza psicotropa, però sembra pestata e non raffinata, quindi dovrebbe avere un effetto blando. Mi faccio coraggio: nella speranza che sia sufficiente per non sembrare maleducata, avvicino la ciotola al naso e inspiro appena un po’.
Starnutisco rumorosamente, riuscendo a evitare di farlo sulla polvere.
Hasnah prende la ciotola e mi invita a stendermi sul materasso.
Putu inizia a cantare delle litanie.
Quel poco che ho inalato sembra essere stato sufficiente, perché le luci e le ombre nella stanza prendono la forma di un drago di Komodo.
Rimango distesa, ma ho la sensazione di sedermi, anzi no: di alzarmi in piedi. Mi allontano dal mio corpo e cammino verso l’immagine del lucertolone.
Mi sembra perfino di comprendere il significato delle preghiere intonate da Putu: «Guarda la tua anima, guarda la tua essenza.»
Mi osservo e sono un uomo.
Mi tocco il viso e ho la barba.
Alzo gli occhi. Lo spirito del drago guardiano mi parla in italiano. «Chi sei?»
Parlo senza aprire bocca. «Chiara Rigon.»
Il lucertolone di luce e ombra tira fuori la lingua e mi ripete: «Chi sei?»
Questa volta non rispondo subito. Mi osservo di nuovo. Mi tocco il petto, il pacco e finalmente mi riconosco. «Sono io, un calalai! Il mio nome è Adamo Rigon.»
La lingua dello spirito sonda alcune volte lo spazio intorno a me. «Il tuo è odore di verità. Sei benvenuto sull’isola di Komodo, Adamo Rigon.»
Con una specie di balletto, lo spirito si gira e torna a confondersi con le luci e le ombre alle pareti.
Un brivido mi percorre il corpo e mi risveglio dal breve sogno. Sono ancora distesa sul materasso e il cuore mi batte forte.
Vorrei alzarmi ma Hasnah mi fa cenno di rallentare. Putu sta ancora cantando le litanie con gli occhi chiusi. Le erbe continuano a bruciare nei piatti di terracotta. Le luci e le ombre della stanza non hanno più alcuna forma.
Il cuore e il respiro tornano normali e mi siedo. Hasnah sussurra qualcosa e Putu termina le litanie. Il rito si chiude con una sequenza che somiglia molto a una preghiera musulmana, a cui assisto in silenzio ripensando alla visione e a quello che mi ha rimescolato dentro.
«Putu ti ringrazia per la tua partecipazione però adesso è molto stanco e ha bisogno di riposare. Possiamo tornare di sotto.»
Il bissu ha gli occhi chiusi e ha il respiro pesante.
«Non l’ho nemmeno ringraziato. Io… fammi sapere come mi posso sdebitare.»
Hasnah annuisce. Mi offre la mano e l’afferro per rialzarmi. Scendiamo.
Il primo sguardo che cerco è quello di Sara che subito ricambia. «Allora, com’è stato?»
Mi tremano le gambe. «Preparati, perché stanotte dobbiamo parlare tanto!»
Marco si intromette. «Ma almeno hai scoperto cos’è un bissu?»
Zio Billy! Stavolta ha ragione. «N-no.»
Mi guarda con aria di sufficienza. «Eh, però, che scarsa.»
Prima che io possa sputargli in faccia un “fatti i cazzi tuoi,” interviene De Santis. «Di sicuro avrà tante altre cose da raccontare.»
Salutiamo gli ospiti e le guide, poi torniamo ai nostri bungalow. Io mi tengo stretta più che posso alla mia amica.
Io e Sara abbiamo intervistato alcuni calalai e il risultato è sorprendente: pur vivendo una condizione di disforia di genere, ritengono che non ci sia nulla di sbagliato nel loro corpo e questa sembrerebbe una contraddizione. Abbiamo condiviso le nostre impressioni con De Santis e lui ha promesso di supportarci per una tesina interdisciplinare parallela a quella della missione.
Ma non è soltanto questa la cosa che mi elettrizza: in questa contraddizione mi ci riconosco, sono proprio io. Sara dice che forse ho paura dell’operazione per la riassegnazione del sesso; può essere, ma sono abbastanza convinto che non importa ciò che ho nelle mutande: è una cosa mia personale e non dovrebbe interessare a nessuno.
Ah, nel frattempo ho cominciato a parlare di me stesso al maschile, almeno quando sono con lei, e anche questo mi fa sentire bene.
Nota dell’autore: bissu è una persona che non è né maschio, né femmina, né calalai, né calabai.