“Zio Quang, perché passi così tanto tempo in soffitta? Tutte le volte che vengo a trovarti, sei lì, in mezzo ai tuoi costumi di scena, sempre intento a guardare il mare dalla piccola finestra sul tetto”.
È questo che mi chiede spesso il piccolo Quy, il figlio di mia sorella Quyen. Non è più tanto piccolo, ha già dieci anni, ed è arrivato il momento di spiegargli tante cose. Lui sta vivendo finalmente in un periodo di pace ma deve sapere che non è stato sempre così, che c’è stata una terribile guerra che ha causato morte e distruzione, che gli ha portato via anche il padre, proprio quando stava per venire al mondo. Mi sento in dovere di farlo, proprio come fossi io il padre che non ha.
Sono costretto a raccontargli tutto per iscritto, non posso fare altrimenti; non riuscirei mai a dire tutto quello che vorrei con quel poco che resta della mia voce. Una lettera è la cosa migliore che possa fare. Gliela darò al momento giusto.
È questo che mi chiede spesso il piccolo Quy, il figlio di mia sorella Quyen. Non è più tanto piccolo, ha già dieci anni, ed è arrivato il momento di spiegargli tante cose. Lui sta vivendo finalmente in un periodo di pace ma deve sapere che non è stato sempre così, che c’è stata una terribile guerra che ha causato morte e distruzione, che gli ha portato via anche il padre, proprio quando stava per venire al mondo. Mi sento in dovere di farlo, proprio come fossi io il padre che non ha.
Sono costretto a raccontargli tutto per iscritto, non posso fare altrimenti; non riuscirei mai a dire tutto quello che vorrei con quel poco che resta della mia voce. Una lettera è la cosa migliore che possa fare. Gliela darò al momento giusto.
Halong, 16 marzo 1984
Caro Quy,
ho deciso di scriverti proprio oggi che non è un giorno come gli altri per il nostro paese e per la nostra famiglia. Quando ti avrò raccontato tutta la storia allora capirai meglio la ragione per cui ho comprato questa casetta ad Halong e perché io passi ore e ore a guardare dalla finestrina della soffitta lo splendido panorama della baia, il brulicare di quelle rocce emergenti circondate delle giunche dei pescatori. Ricordi la leggenda che ti raccontava sempre la mamma quando eri più piccolo? I draghi si schierarono con i vietnamiti nella guerra contro i cinesi e per aiutarli lanciarono nel mare gocce di giada che si trasformarono in quei curiosi pinnacoli di roccia perché formassero una sorta di muraglia difensiva. Così il nostro paese uscì vincitore dalla guerra, come del resto è accaduto sempre nella nostra storia. Così è stato anche con i francesi e con gli americani.
Come sai, noi proveniamo dalla provincia di Quang Ngai, dalla città di Sơn Mỹ. Non avevo ancora tredici anni, quando ci spostammo più a nord, insieme ai nostri genitori, nella regione di Ha Nam, vicino ad Hanoi. Soltanto i miei anziani nonni restarono a Sơn Mỹ.
Mio padre aveva una vera passione per il teatro Cheo e durante le feste di paese partecipava fra gli interpreti di quella rappresentazione popolare in cui ogni gesto ha un preciso significato, come pure la mimica facciale e i movimenti del corpo, secondo regole precise stabilite quattro o cinque secoli fa.
Anch’io seguivo affascinato i suoi spettacoli e mi ripromettevo che un giorno o l’altro mi sarei dedicato anch’io a quel genere teatrale. In parte ci sono riuscito, anche se tutto non è andato come mi aspettavo.
Tuo nonno era sempre più bravo e il successo che aveva ottenuto ad Hanoi, gli consentì di abbandonare il lavoro dei campi e dedicarsi al teatro Tuong, meno popolare e più raffinato del Cheo. Lo seguivo in ogni sua rappresentazione, fino a quando anch’io ottenni qualche piccolo ruolo. Il gradimento del pubblico mi fece capire che quella avrebbe potuto essere la mia strada.
Caro Quy,
ho deciso di scriverti proprio oggi che non è un giorno come gli altri per il nostro paese e per la nostra famiglia. Quando ti avrò raccontato tutta la storia allora capirai meglio la ragione per cui ho comprato questa casetta ad Halong e perché io passi ore e ore a guardare dalla finestrina della soffitta lo splendido panorama della baia, il brulicare di quelle rocce emergenti circondate delle giunche dei pescatori. Ricordi la leggenda che ti raccontava sempre la mamma quando eri più piccolo? I draghi si schierarono con i vietnamiti nella guerra contro i cinesi e per aiutarli lanciarono nel mare gocce di giada che si trasformarono in quei curiosi pinnacoli di roccia perché formassero una sorta di muraglia difensiva. Così il nostro paese uscì vincitore dalla guerra, come del resto è accaduto sempre nella nostra storia. Così è stato anche con i francesi e con gli americani.
Come sai, noi proveniamo dalla provincia di Quang Ngai, dalla città di Sơn Mỹ. Non avevo ancora tredici anni, quando ci spostammo più a nord, insieme ai nostri genitori, nella regione di Ha Nam, vicino ad Hanoi. Soltanto i miei anziani nonni restarono a Sơn Mỹ.
Mio padre aveva una vera passione per il teatro Cheo e durante le feste di paese partecipava fra gli interpreti di quella rappresentazione popolare in cui ogni gesto ha un preciso significato, come pure la mimica facciale e i movimenti del corpo, secondo regole precise stabilite quattro o cinque secoli fa.
Anch’io seguivo affascinato i suoi spettacoli e mi ripromettevo che un giorno o l’altro mi sarei dedicato anch’io a quel genere teatrale. In parte ci sono riuscito, anche se tutto non è andato come mi aspettavo.
Tuo nonno era sempre più bravo e il successo che aveva ottenuto ad Hanoi, gli consentì di abbandonare il lavoro dei campi e dedicarsi al teatro Tuong, meno popolare e più raffinato del Cheo. Lo seguivo in ogni sua rappresentazione, fino a quando anch’io ottenni qualche piccolo ruolo. Il gradimento del pubblico mi fece capire che quella avrebbe potuto essere la mia strada.
L’inizio della guerra, con il suo carico di dolore e di morte, interruppe i miei sogni artistici. L’episodio più doloroso è quello che avvenne esattamente sedici anni fa, il 16 marzo 1968. Un plotone di americani, in preda a una tragica follia omicida, riunì gli abitanti del villaggio, in prevalenza donne, bambini e anziani, e iniziò una specie di tiro al bersaglio. Non si è mai saputo con precisione il numero delle vittime, ma furono circa trecentocinquanta. Fra questi anche mio nonno e mia nonna. L’eccidio è conosciuto meglio come la strage di My Lai ed è stato uno degli episodi più crudeli della guerra contro l’invasore americano.
Soltanto dopo alcuni mesi io e mio padre riuscimmo a ritornare al villaggio. Non restavano che poche capanne e pochi superstiti che ci raccontarono particolari agghiaccianti di quella triste giornata. L’abitazione dei nonni era stata risparmiata dalle fiamme ed era occupata da una famiglia. Fummo contenti che quella casa fosse servita ad accogliere altre persone.
Entrammo nella casa. Ciò che mi colpì subito fu una vecchia foto appesa a una parete, che rappresentava un panorama marino.
Mio padre mi spiegò che quella era la baia di Halong. Mio nonno non aveva mai visto quel luogo, ma quell’immagine era divenuta per lui una vera ossessione. Chissà come fosse capitata nelle sue mani? Diceva sempre che avrebbe voluto andarci e che quello era il luogo in cui gli sarebbe piaciuto vivere e morire.
Chiedemmo il permesso di prendere con noi quella foto e ora, come sai, è appesa a una parete della mia soffitta.
Non so se fu l’immagine di quel villaggio distrutto, oppure il terrore negli occhi dei pochi superstiti, la vista della casa in cui affondavano le mie radici, i racconti della strage. So per certo che sulla via del ritorno sentii montare una rabbia incontenibile e fu in quell’occasione che presi la decisione. Avevo già diciannove anni e come altri della mia età decisi di unirmi ai vietcong per andare a combattere nel sud contro gli americani e il governo collaborazionista di Saigon (allora la città di Ho Chi Minh si chiamava così).
Soltanto dopo alcuni mesi io e mio padre riuscimmo a ritornare al villaggio. Non restavano che poche capanne e pochi superstiti che ci raccontarono particolari agghiaccianti di quella triste giornata. L’abitazione dei nonni era stata risparmiata dalle fiamme ed era occupata da una famiglia. Fummo contenti che quella casa fosse servita ad accogliere altre persone.
Entrammo nella casa. Ciò che mi colpì subito fu una vecchia foto appesa a una parete, che rappresentava un panorama marino.
Mio padre mi spiegò che quella era la baia di Halong. Mio nonno non aveva mai visto quel luogo, ma quell’immagine era divenuta per lui una vera ossessione. Chissà come fosse capitata nelle sue mani? Diceva sempre che avrebbe voluto andarci e che quello era il luogo in cui gli sarebbe piaciuto vivere e morire.
Chiedemmo il permesso di prendere con noi quella foto e ora, come sai, è appesa a una parete della mia soffitta.
Non so se fu l’immagine di quel villaggio distrutto, oppure il terrore negli occhi dei pochi superstiti, la vista della casa in cui affondavano le mie radici, i racconti della strage. So per certo che sulla via del ritorno sentii montare una rabbia incontenibile e fu in quell’occasione che presi la decisione. Avevo già diciannove anni e come altri della mia età decisi di unirmi ai vietcong per andare a combattere nel sud contro gli americani e il governo collaborazionista di Saigon (allora la città di Ho Chi Minh si chiamava così).
Fra le poche cose che avevo portato con me c’era anche la vecchia foto di Halong. Non avrei mai pensato che quell’immagine sbiadita in bianco e nero mi avrebbe aiutato a superare momenti di solitudine e di angoscia.
Fui destinato alla zona di Cu Chi, non troppo lontano da Saigon. Il nostro compito era molto delicato e pericoloso. Ce ne stavamo rintanati nelle gallerie sotterranee che erano state scavate nel lungo periodo della guerra contro i francesi. Fu in quella circostanza che mi accorsi di soffrire di un disturbo che mi causava il terrore irrazionale degli spazi chiusi. Ero riuscito piano piano a convivere con questo problema ma talvolta le crisi arrivavano all’improvviso.
In quei momenti ricorrevo all’immagine della baia di Halong, agli ampi spazi, al mare e all’orizzonte nello sfondo. I pinnacoli che emergevano dal mare mi davano un senso di solidità e sicurezza; mi concentravo sulla foto, dimenticando il luogo angusto in cui ero rintanato, fino al momento in cui l’inquietudine e l’angoscia lentamente mi abbandonavano.
I nostri erano compiti di sabotaggio e di agguati nella boscaglia. Alla fine di ogni azione rientravamo nella nostra tana, tutti, salvo uno di noi che doveva restare all’esterno per togliere ogni traccia che rivelasse l’ingresso al tunnel.
Spesso mi sono offerto come volontario per il delicato compito di sorveglianza. In certi momenti preferivo il rischio di un proiettile al rientro in quella sorta di tomba sotterranea.
Nonostante tutte le precauzioni, alcuni accessi ai tunnel di Cu Chi venivano scoperti e allora erano guai seri.
Gli americani avevano una squadra appositamente addestrata per queste missioni. Li chiamavano Tunnel Rats che qualche volta riuscivano a penetrare, costringendoci a una battaglia sotterranea in cui tutte le armi erano utilizzate, da entrambe le parti.
L’arma che temevamo di più e che ci costringeva a precipitose fughe nel labirinto di cunicoli, era il CS, un composto lacrimogeno che veniva soffiato all’interno delle cavità del tunnel allo scopo di farci uscire allo scoperto. Questa miscela causava sulla salute conseguenze molto gravi che potevano anche essere irreversibili.
Proprio il CS ha causato i miei problemi respiratori e mi ha gravemente danneggiato le corde vocali. Da allora la mia voce è quella che conosci bene: suoni gutturali e graffiati che riesce a comprendere soltanto chi mi conosce bene.
Per un po’ di tempo non mi abbandonò la speranza che il disturbo sarebbe passato e che tutto prima o poi sarebbe tornato come prima e, in fondo, non ci pensai molto; in quel momento c’era da combattere, uccidere e cercare di salvarsi la pelle.
Ciò che mi affliggeva di più era la convinzione che questa grave menomazione mi avrebbe impedito di riavvicinarmi agli spettacoli teatrali che sarebbero ripresi quando finalmente avremmo vinto la guerra e cacciato gli invasori. Non mi sarebbe rimasto che tornare al duro lavoro nelle risaie. Invece, non è stato così.
Nel teatro Tuong, la parola non è così importante. I personaggi del Tuong si identificano dal loro trucco, dai costumi, dalle espressioni del viso e dai movimenti del corpo e in tutto questo mi accorsi presto di essere un maestro.
A metà degli anni ’70, con la fine della guerra riprese lentamente la vita normale e con questa il desiderio di divertirsi. Cominciarono di nuovo anche le rappresentazioni teatrali.
Ripresi l’attività, sotto la guida esperta di mio padre che aveva deciso di abbandonare la recitazione.
Con il suo aiuto cercai di affinare i personaggi di quelle storie, puntando soprattutto sui movimenti del corpo e sulle espressioni del viso che avrebbero sostituito la parola che non mi apparteneva più.
Avvertii subito che si creava un legame immediato, quasi magico, fra me e il pubblico. Gli spettatori solidarizzavano con me se avevo la faccia dipinta di rosso, colore che rappresentava il coraggio e la lealtà. Mi odiavano, invece, se mi muovevo in modo minaccioso e avevo la faccia bianca, simbolo di crudeltà e tradimento. Alcuni bambini non riuscivano a trattenere il pianto. Piccoli gesti, come il giocare con la barba finta, facevano trasparire stati d’animo di incertezza, preoccupazione, rabbia e così via.
Il successo mi procurò presto quel po’ di denaro che non avrei mai ottenuto spezzandomi la schiena nei campi. In questo periodo riuscii finalmente a vedere la baia di Halong. Era anche più bella di come me la ero immaginata. Girai in lungo e in largo la costa, fino a quando non riuscii a trovare il punto esatto da cui era stata scattata quella fotografia. Era una casa a due piani, certamente costruita durante il periodo francese. Dal secondo piano si accedeva a una soffitta e il panorama che si poteva ammirare dalla finestrina sul tetto era proprio quello da cui l’ignoto fotografo aveva scattato la foto del nonno.
Spesi tutti i miei risparmi per avere quella casa. Del resto, come avrei potuto farmela sfuggire?
La baia di Halong era ormai diventata un’ossessione anche per me, proprio come per mio nonno.
Resi ancor più mia la soffitta, portando lì i miei costumi di scena e le foto che mi ritraevano durante gli spettacoli. Erano in buona compagnia con la foto del nonno.
La baia è il simbolo di tutto quello che avevo sognato nei momenti più bui della mia esistenza. È l’immagine concreta della libertà, della pace. Come diceva il grande Ho Chi Minh, “Nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà”.
La finestrina sulla baia rappresenta il bello e anche tu dovrai sempre ricercare il bello nella tua vita, perché il bello è contagioso e quando lo trovi ti resta addosso e impedisce al brutto di entrare. Il grande Ho diceva anche: “Vicino all’inchiostro si diventa neri, vicino alla lampada si diventa chiari”.
Spesi tutti i miei risparmi per avere quella casa. Del resto, come avrei potuto farmela sfuggire?
La baia di Halong era ormai diventata un’ossessione anche per me, proprio come per mio nonno.
Resi ancor più mia la soffitta, portando lì i miei costumi di scena e le foto che mi ritraevano durante gli spettacoli. Erano in buona compagnia con la foto del nonno.
La baia è il simbolo di tutto quello che avevo sognato nei momenti più bui della mia esistenza. È l’immagine concreta della libertà, della pace. Come diceva il grande Ho Chi Minh, “Nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà”.
La finestrina sulla baia rappresenta il bello e anche tu dovrai sempre ricercare il bello nella tua vita, perché il bello è contagioso e quando lo trovi ti resta addosso e impedisce al brutto di entrare. Il grande Ho diceva anche: “Vicino all’inchiostro si diventa neri, vicino alla lampada si diventa chiari”.
Tuo zio Quang