[…]
La mia prima opera, “Il Suono della Città”, aveva suscitato un discreto clamore, non solo nel mondo accademico a cui era principalmente rivolta, ma pure fra curiosi e lettori di ogni tipo. Difficile spiegare a donnette e ragazzini che non si trattava di un Twain o di un James, bensì di pura filosofia. Una sinuosa donna in posa davanti alla nuova Statua della Libertà spinse molti a scambiarlo per un mite romanzo rosa, così andò a ruba: non si deve giudicare un libro dalla copertina, si dice, però è un bell’incentivo alle vendite. Il libro piacque, giustamente, alla solita cerchia; pochi riuscirono a superare la decima pagina, quasi nessuno ne apprezzò il vero significato. “Pecunia non olet”: i frutti di tale lavoro, francamente inaspettati, me li sarei spesi per la sua prosecuzione, la sua meritata controparte: “Il Suono della Natura.”
La molla che fece scattare il me la voglia di proseguire le mie fatiche filosofiche fu il viaggio in Europa dell’anno precedente, una costante altalena di alti e bassi ai quali non riuscii a restare indifferente. La mia profonda amicizia con il grande scrittore Giovanni Verga, magari sconosciuto qui in America, mi diede forti motivazioni in proposito: dopo aver criticato la sua vecchia novella Rosso Malpelo, con le sue superstizioni e credenze ancestrali, aborrii addirittura Mastro Don Gesualdo, letto in anteprima l’anno scorso: lo giudicai un netto stroncamento verso l’ascesa sociale e il costante miglioramento che tutti vogliono, anzi devono perseguire nella loro vita. La mia idea si collocava esattamente all’opposto, così provai ad invertire le tempistiche: partire dalla situazione di fiorente sviluppo che avevamo nel 1890 e tornare a ritroso fino ai primordi dell’umanità. Le grandi meraviglie dell’Esposizione Universale di Parigi, con i suoi scintillanti viali ad illuminazione elettrica, presto copiata qui a New York, e le prodigiose strutture in acciaio non fecero che accrescere in me il desiderio di tornare a ritroso sui passi dell’umanità per studiare le cause verso le quali noi uomini tendiamo spontaneamente a migliorarci, a dispetto della classe sociale e di ciò che i nostri antenati ci conficcano in testa.
Perché andare proprio lì a scriverlo, appollaiato su un’enorme cascata nel bel mezzo della foresta paranese, fra inauditi pericoli? Facile: era uno dei pochissimi posti al mondo dove si poteva ancora sentire l’autentico “Suono della Natura”. Ero forse l’unico uomo nel raggio di una ventina di chilometri, avevo contatti giusto con un paio di indigeni che mi facevano strapagare qualche legume secco o un sacco di farina. Mi bastava e avanzava, credevo davvero di sentirmi un selvaggio, con la giusta predisposizione d’animo per riempire il calamaio e iniziare a far scorrere il pennino. Quale dei miei studenti mi avrebbe riconosciuto, con la barba più lunga del Westernland e i piedi più sporchi di un minatore di Pittsbourgh?
Per l’occasione, con gli ingenti proventi del “Suono della Città”, mi feci riattare una vecchia palafitta di pescatori. Al piano inferiore vi posizionai il letto, qualche vettovaglia e un braciere: nessuna tramezza divisoria, certo che qui vi sarei rimasto solo. Di sopra, nell’enorme soffitta, posizionai giusto uno scrittoio. Null’altro, ad eccezione di due grandi finestre, una che dava sulla fitta boscaglia circostante, l’altra direttamente a strapiombo sulle acque, dove il vecchio inquilino calava le lenze direttamente fra i gorghi sottostanti, movimentato habitat dei pochi pesciolini che lo sfamavano.
Il rombo continuo della cascata di Iguazù, incessante, era il vero “Suono della Natura”, esattamente ciò che cercavo per trovare la mia ispirazione. L’intensità di un boato squassante si mischiava alla costanza del frinire di mille grilli in una mattina d’estate, coprendo qualsiasi altro rumore. Non mi accorgevo neppure del cinguettio degli uccelli o del ruggire dei giaguari, le urla delle scimmie le percepivo appena, i temporali erano per me bagliori di lampi seguiti da flebili rombi. Insomma, ci avevo fatto ormai l’abitudine al vero suono della natura, ne ero così inebriato, mi sentivo così parte di esso da intravedere già le prime dieci, forse venti pagine del nuovo libro.
Era un vero spettacolo quando mi alzavo all’alba, salivo in soffitta e mi immergevo nell’arcobaleno: mi sentivo anch’io parte del risveglio del sole in contrasto con il moto perenne della spuma mossa appena sotto. Vedevo a tutte le ore innumerevoli colori abbaglianti rifrangersi e avanzare nella nebbia facendosi concreti, per poi scomparire di nuovo, evanescenti, dietro di me, laddove il bosco faticava a scrollarsi di dosso le tenebre, celanti inaudite violenze di predatori, quanto grazia di strabilianti, gigantesche farfalle in volo.
Un giorno come tanti altri, mentre sorridendo leggevo alcuni stralci di quel sognatore di Marx, percepii un violento tonfo provenire dalla soffitta. Un colpo deciso ma morbido, attutito, non abbastanza forte da sovrastare il continuo infrattarsi della cascata ma sufficiente a increspare l’acqua del catino in grandi cerchi concentrici. Non poteva trattarsi di un crollo, nemmeno di una scimmia curiosa: ogni tanto entravano ma facevano incetta di carta e inchiostro come canagliette rodate, senza trambusto. Corsi su di soprassalto, con tanta foga dal far scricchiolare gli sgangherati pioli della scaletta, e ciò che mi si presentò davanti fu qualcosa di curioso, mai visto, nemmeno sui libri o nei sogni.
A prima vista lo scambiai per un grosso primate bianco, dal pelo candido e fare circospetto. Non si accorse di me, mi avvicinai appena, terrorizzato dal dover affrontare qualcosa che non conoscevo. Quando fui a meno di cinque passi di distanza lo vidi balzare verso la finestra, più spaventato di me. Provò a fuggire laddove era entrato ma il suo tentativo non andò a buon fine: rimase avviluppato nella tenda, penzolando manco fosse precipitato su un’amaca.
L’essere si placò, iniziò a guardarmi: era un ragazzino albino pelosissimo, avrà avuto sì e no diciotto o vent’anni. La corporatura agile, che incuteva rispetto nonostante fosse quasi scheletrico, era completamente ricoperta da peluria bianca, conferendogli un che di spettrale, incastonato com’era nella tenebrosa giungla dietro di lui. Fango e rimasugli di foglie, mescolate ad altre sozzure non meglio identificate, chiazzavano il candore della peluria rendendolo decisamente più animalesco di quanto le gentili fattezze lasciassero presagire.
“Ragazzo, che succede, ti sei perso?”, gridai per sovrastare l’incessante fragore della vicina cascata.
All’udire la mia voce si dimenò tremendamente, dando alla tenda strattoni così violenti da lacerarla in più punti. Provai ad avvicinarmi per liberarlo, approfittando del suo subitaneo acquietarsi; quindi ripresi:
“Stai fermo un attimo, così provo a toglierti di dosso…”.
La foga del ragazzo raggiunse nuovamente il culmine, terminando l’opera demolitrice iniziata poco prima: un ultimo strappo e la tenda cedette definitivamente, trovandomelo insaccato a dimenarsi sul pavimento. Di nuovo tranquillo.
“Non capisco cosa…”
Alla terza sfuriata capii: era terrorizzato dalla voce umana. Mi colpì un particolare, una lunga cicatrice che gli scendeva dal fianco sinistro fin quasi ai glutei, troppo dritta e precisa per essersela procurata da sé; più probabilmente, a giudicare dalla larghezza della lacerazione, era stato ferito da una lama quando era ancora piccolo. Sapevo, dalle mie ricerche antropiche, che rituali contro gli albini erano molto diffusi in Africa, non in Sud America. Quei gravi segni sul suo corpo, il terrore verso la mia voce e forse verso tutti gli uomini, tuttavia, me lo lasciavano più che supporre. Forse l’ipertricosi, unita al rarissimo colore del suo manto, avevano risvegliato vecchie superstizioni ormai cadute in disuso.
Provai a farmi capire con il linguaggio universale delle mani: le stesi ben avanti, con i palmi aperti. Sapevo che, come tutti gli albini, aveva la vista un po’ offuscata ma speravo comunque di farmi comprendere. Quell’ultimo tentativo andò a buon fine, tanto che riuscii ad avvicinarmi abbastanza da recidere con un coltello le poche fibre ancora integre che lo intrappolavano. Rimasi stupito che non scappasse di fronte a una lama simile a quella che gli aveva procurato tanto dolore; forse non se la ricordava nemmeno, abbandonato nei meandri della foresta da così tanto tempo da risultare immemore di qualsiasi civilizzazione.
Appena liberato si avvicinò alla finestra opposta quasi volesse saltarci attraverso, la sua era solo curiosità: non aveva mai visto la grande cascata da quella prospettiva, gli si stampò un gran sorriso sul volto e istintivamente si rivolse verso di me, quasi cercasse la mia approvazione.
Immaginai che avesse fame, così mi toccai il ventre e vi sfregai la mano contro. Non capì, iniziò a ridere, pensando che fossi in preda a una colica. Provai aprendo la bocca ed avvicinandovi le dita chiuse; questa volta comprese tutto e cominciò a scorrazzarmi intorno, carico di gioia fin quasi alle lacrime.
Scesi un attimo di sotto e, presa una porzione di arrosto con pane e una dozzina di frutti, si fiondò subito su questi ultimi, quasi ignorando la succulenta portata principale: probabilmente non conosceva nemmeno l’esistenza delle scienze culinarie. Prima di assaggiare il resto lo fiutò attentamente e iniziò a cibarsene staccando un bocconcino minuscolo e tastandolo con la punta della lingua. Rimase stupito quando, facendogli compagnia, addentai una generosa fetta di arrosto in salsa infilzandola con la forchetta: perché quell’inutile perdita di tempo, quando potevo tranquillamente usare le mani per portarmela alla bocca? In effetti non sapevo spiegarmi perché continuassi a utilizzare questi segni di creanza e civilizzazione, visto che vivevo nel nulla più assoluto.
Se ne andò poco dopo, fuggendo dalla finestra posteriore della soffitta senza nemmeno salutare: non conosceva il significato dell’arrivederci e dell’addio. Le sue visite continuarono, quasi a cadenza quotidiana, per circa un mese; lo ricevevo sempre nella sgombra soffitta, temendo che potesse farsi del male con i molti utensili e il fuoco presenti di sotto. Rimanevo ogni volta stupefatto di come riuscisse a raccontarmi tutte le sue avventure semplicemente con gesti e segni. Avventure sempre nuove e forse animalesche, che riusciva a superare brillantemente con un ingegno e un’abilità prettamente umane, nettamente superiori a quelle dei suoi avversari silvestri: per questo solo motivo lo potevo considerare più saggio e intraprendente di molti miei decadenti amici. Ocelot, liane e pozze d’acqua erano i suoi soggetti preferiti, esattamente come qualsiasi adolescente di New York adora i gatti, i giochi all’aperto e i bagni nell’Atlantico. L’inaspettato compagno era la linfa vitale che mi portava a scrivere per il resto della giornata e fino a notte fonda, incurante del fioco lume a petrolio che sforzava enormemente la mia vista e mi costringeva a sprofondare nel sonno ancora chino sulla scrivania. In pratica vivevo in soffitta, più per piacere che per il dovere di continuare la mia opera, accontentandomi di qualche conserva presa direttamente dalla primitiva madia, senza avere nemmeno tempo di ingentilirla o abbozzarne la cottura.
Mi interrogavo a lungo. Ero io a invadere il regno dell’uomo bestiale o era lui a invadere il mio? Che senso poteva avere, del resto, la proprietà privata, in un luogo senza legge? Sorridevo bonariamente alle scimmiette che mi mettevano a soqquadro la soffitta, ora pranzavo con una sorta di mostro che mi era precipitato in casa; come avrei reagito nella mia casa di Manhattan se il cane del vicino avesse fatto altrettanto? Oppure se uno straccione si fosse intrufolato nel mio appartamento? Lo avrei aiutato, soccorso o lo avrei cacciato? È forse questa la nostra civiltà?
Il fragore incessante della cascata e questo incontro iniziavano a far vacillare le mie certezze. Dopo “Il Suono della Città”, nel quale indicavo la strada verso un futuro radioso per la civiltà, “Il Suono della Natura” doveva rappresentare un excursus storico sul fenomeno, un’indagine su quanto le comodità e gli agi moderni, dal treno alla stufa alla bicicletta, ci rendevano di giorno in giorno la vita più facile, rispetto alla primitiva foresta. Non si dice forse che “chiodo scaccia chiodo?” Cosa ci eravamo persi in tanti anni di presunta civilizzazione? Erano bastati pochi gesti per farmelo capire, meglio di mille parole. Ero diventato un mimo anziché un filosofo, ma cosa cambiava nei fatti? Non intendevo forse il subumano, pur senza alcun alfabeto? Era forse questa l’essenza della comunicazione, tutto il resto una banale e pedante sovrastruttura? Quanto volte ho dato votacci ai miei alunni per aver sbagliato un congiuntivo o per l’uso scorretto di un’apostrofo (ecco, proprio così): forse non capivo comunque ciò che mi volevano comunicare? E allora perché punirli, visto che avevano raggiunto il loro scopo di farmi intendere il loro pensiero? L’emblema di tale confusione era per me la grande torre di Eiffel che avevo ammirato l’anno prima a Parigi, estasiato dalla sua leggerezza e dallo slancio aereo. Alla faccia di tutti i detrattori invidiosi, l’amai dal primo momento che le posai gli occhi addosso: non eravamo però di fronte alla nuova Babele, tentando di sovrastare la natura anziché Dio nel tentativo di conquistare stabilmente ciò che solo passeri e rapaci hanno la facoltà di possedere?
Una mattina come le altre, in marzo inoltrato (o almeno credo), fui dolcemente destato dal solito trambusto che il ragazzo faceva ogni qualvolta precipitava dalla finestra della soffitta. Ormai non ci facevo più caso: mi prendevo giusto il tempo di impiattare qualche derrata per fare colazione insieme. Il suono era più possente, pesante del solito, tanto da far scricchiolare i listelli che sostenevano il precario pavimento sopra di me. Iniziai a preoccuparmi, temevo che stesse richiamando la mia attenzione.
Oggi non era solo. Rannicchiato nell’angolino opposto a dove era entrato, cercava di mimetizzarsi da un giaguaro che lo aveva seguito fin dentro la palafitta. Non pareva preoccupato ma l’enorme felino non sembrava nemmeno innocuo. Non ne avevo mai visto uno così da vicino e, nonostante non mi avesse ancora inquadrato, temetti seriamente per la mia pelle. Mille macchie mi scrutavano come occhi, la pelle liscia e setosa lasciava intravedere i possenti arti e muscoli, ancora flosci in attesa di caricarsi come molle e balzare sul mio amico per farne un solo boccone. Per ora l’albino non pareva in pericolo ma chissà, la mente delle bestie mi era ancora imperscrutabile, se non condita da un po’ di saggezza umana. Dovevo intervenire, al più presto, per scongiurare ogni pericolo.
Scappai di sotto e caricai il magnifico Winchester decorato regalatomi da Buffalo Bill in persona. Salii di nuovo, emergendo dalla botola quel giusto che bastava per mostrarmi la scena, tenendo il fucile sul pavimento. Non avevo mai sparato in vita mia: sarebbe stata la prima volta. Puntai la canna verso il gattone, non sapendo come mirare, quindi premetti il grilletto. Il rinculo fu così brusco da farmi scappare l’arma di mano e il colpo andò a conficcarsi sull’architrave, riempiendo l’aria di schegge e fumo.
Ottenni comunque l’effetto voluto: il giaguaro, spaventato dall’unico suono che riusciva a sovrastare il fragore della cascata, apparve del tutto spaesato, sopraffatto da una forza ancora superiore alla sua possanza: ora era lui a cercare una via di fuga e in breve la trovò nella finestra dalla quale era entrato, quasi sventrandola con gli artigli, per la foga.
Lo schioppo provocò lo stesso effetto, ahimè, anche sul mio amico: con un solo balzo uscì dalla finestra opposta, senza nemmeno guardare cosa ci fosse sotto.
Lanciai il fucile disperato e, tirandomi su dalla botola spingendo con le mani come un ossesso, emersi nella soffitta. Riuscii solo a scorgere due braccia che si agitavano fra la furia delle acque. Fu l’ultima cosa che vidi di lui. Proprio quelle mani, che tanto mi avevano raccontato della sua vita e delle sue avventure, mi davano ora l’addio, salutandomi: almeno aveva imparato un po’ di buone maniere. Sparì fra l’eterno arcobaleno dei flutti della cascata, poco alla volta, tranquillo. Quel ragazzo era forse pronto all’incontro con altri uomini, non ancora con le loro opere, specie le più pericolose; in questo si era comportato come una bestia ma come biasimarlo? Chi non sarebbe fuggito di fronte a un fucile? Quel suono roboante lo aveva spaventato più degli artigli di un giaguaro.
Dicono che gli uomini buoni sono portati in cielo, spero che quella spuma sia stata per lui il traghetto verso una miglior vita. Buono, senza nemmeno saperlo, lo fu di sicuro, non essendosi mai corrotto con il male che solo l’uomo può insegnare, non i giaguari, le scimmie o le cascate.
PS: la prego di perdonarmi, Mr. Burroughs, se qualche particolare mi è sfuggito, ma sono passati più di vent’anni dall’incontro con l’uomo selvatico, avvenuto come le dicevo nel 1890. Non ho mai raccontato questi fatti ad alcuno, fino ad ora, ma per lei faccio volentieri un’eccezione: è il primo lettore a intuire che fu proprio quell’uomo bestiale, appena accennato nell’opera, il vero motore del mio “Suono della Natura”. Spero che questa nostra corrispondenza risulti proficua per entrambi e le auguro tanta buona fortuna affinché il suo personaggio Tarzan riesca a convivere pacificamente con gli uomini e con le bestie che incontrerà, proprio come fece il nostro inconsueto amico con me.