La prima volta che la vidi, stava sdraiata sull’asfalto. La polizia aveva disperso il corteo e nella fuga generale doveva essere caduta. Mi ritrovai nella strada da solo con lei. Non sapendo che fare, se chiedere aiuto o scappare, mi avvicinai. Aveva la felpa sporca di sangue così mi accucciai e le chiesi come stava. Era rimasta immobile per un tempo che a me sembrò lunghissimo. Quando non ci furono più rumori, alzò la testa mostrando il viso rosso e qualche graffio.
«Come stai? Dove hai dolore?»
«Dove ho dolore io, non si vede».
L’aiutai ad alzarsi e quando la sorressi sotto le braccia mi accorsi che era magrissima e leggera, quasi senza peso.
«Riesci a camminare? Vuoi che ti accompagni a casa?»
«Non abito vicino. Portami a casa tua, se non ti dispiace».
Veniva dall’Argentina e non aveva parenti a Londra. Mi parlò solo di un certo Oliver, proprietario di un pub, dove occasionalmente faceva la cameriera. Era scappata dalla sua terra, ma non mi disse altro. Mi meravigliai un po' della richiesta, ma da una parte fui risollevato. Non conoscevo ancora bene Londra. Mi ero trasferito da poche settimane e non ero preparato ad assistere ai disordini che da qualche settimana si stavano diffondendo a macchia d’olio in tutta la Gran Bretagna.
Era marzo del 1984 e il governo di Margaret Thatcher aveva deciso di chiudere le miniere di carbone nello Yorkshire, provocando la perdita di ventimila posti di lavoro. L’Unione Nazionale dei Minatori aveva risposto prima con una settimana di sciopero, poi erano diventate due, tre, quattro e sembravano destinate a continuare. I lavoratori delle miniere, scioperando, rinunciavano allo stipendio, mettendo la famiglia in ristrettezze pur di portare avanti la lotta.
Arrivato in città avevo trovato una sistemazione in un sottotetto, e benedissi mia madre per non avermi fatto troppo alto. Si trovava in un quartiere non molto lontano dagli scontri, in una palazzina semplice di due piani e sopra una parete si aggrappava un rampicante. Il capofamiglia era un ferroviere e anche la sua categoria, insieme ai portuali, scioperava per evitare che il carbone arrivasse dall’estero. Affittare la soffitta tornava utile per racimolare qualche sterlina ed io, al momento, non potevo permettermi altro. Ero un giovane attore a cui piaceva sperimentare nuove strade, con molte idee per la testa, troppi sogni, tra cui trovare un lavoretto per coltivare la mia unica passione.
Quando arrivai la stanza era talmente malridotta e piena di polvere che mi prese un attacco di allergia come quando ero bambino.
Era un deposito di vecchie riviste, di giornali, libri e quaderni ammassati in scatole di cartone. Un baule era pieno di vestiti dismessi e qualche cianfrusaglia. C’era un piccolo cavallo a dondolo di almeno due generazioni precedenti, una bambola senza un occhio e quello che restava di una pianola.
Mi aiutarono a sgombrarla la padrona di casa, Harriet, persona imperscrutabile e i suoi tre figli, soprattutto Charles, il più piccolo, un ragazzino sveglio con l’inseparabile cane Bighair. La sistemai alla meno peggio con una rete, un piccolo scrittoio e uno specchio in verticale che erano tutto il mio mobilio. Era poco luminosa, ma di notte dal lucernaio lo spettacolo era unico. Me ne stavo, anche per ore, a guardare il cielo, il passaggio delle nuvole, a volte le stelle, quando la luna aveva libera uscita e a fantasticare sul mio futuro.
Fu lì che portai la ragazza conosciuta quel giorno per strada. Si chiamava Berenice, ma mi disse di chiamarla Bernie. Veniva da Puerto Iguazú, una città a nord dell’Argentina. Aveva occhi incredibilmente marroni che viravano al giallo, tanti capelli scuri che cercava di domare con un fermaglio, una fossetta in mezzo al mento e una ruga verticale tra le sopracciglia, come chi non capisce ma non ha neppure tempo di ascoltare spiegazioni. Aveva ventiquattro anni, due più di me, la pelle leggermente ambrata, i jeans strappati al ginocchio e le scarpe da ginnastica rotte. Le chiesi che ci facesse una ragazza come lei, venuta da una terra così lontana, a manifestare con i minatori inglesi.
«In questo paese ormai ci vivo e bisogna scegliere da che parte stare».
Poi, come se avesse preso coscienza di sé o di quello che fosse, continuò: «Per me è naturale trovarmi dove ci sono proteste, rivolte e ribellioni, che siano quelle dei minatori o altre».
Le chiesi perché non fosse scappata come tutti gli altri invece di restare immobile sull’asfalto.
«Tanatosi, lo sai cos’è?» Mi guardò da sotto le lunghe ciglia, mordendosi il labbro inferiore.
«È l’estrema difesa di alcuni animali quando non hanno via di scampo. Come fa l’opossum, che vive nelle foreste argentine. Si finge morto, quando capisce di aver perso ogni speranza. È la tattica che uso anch’io. Alla fine, quei bastardi se ne sono andati, no? E tu che fai a Londra?»
Non avevo una risposta convincente, se non imparare l’inglese e temporeggiare con i miei genitori
che avrebbero voluto per me un lavoro sicuro e non che diventassi un artista di strada.
Quando salimmo in soffitta, domandò, stupita, se ci abitassi. Ridendo le risposi che ero uno spagnolo squattrinato e che quello potevo permettermi.
Si buttò sul letto e quando tornai con una bacinella con l’acqua e con il disinfettante già dormiva.
Passai la notte a fare le prove davanti allo specchio finché con voce assonnata mi chiese: «Cosa stavi facendo?»
«Provavo. Tu non lo sai, ma davanti a te c’è il mimo più bravo che si possa trovare nei paraggi».
Si morse il labbro inferiore e finalmente sorrise.
La rividi, dopo qualche giorno, in Piccadilly Circus, insieme a un gruppo di ragazze del comitato femminile. La protesta dei minatori era appoggiata dall’intera popolazione, giovani, studenti e donne. Ovunque si vedevano tavoli con barattoli gialli che raccoglievano fondi per le famiglie degli scioperanti. L’aiutai nella raccolta e dopo l’invitai nella mia reggia a bere una birra. Ci venne ad aprire Charles, con il suo inseparabile Bighair, un incrocio tra un breton e un gordon setter e si piazzarono sul letto perché volevano assistere al mio spettacolo.
Mi imbiancai il viso e con la testa che sfiorava il soffitto mi diedi uno schiaffo e da quello scoppiò una risata, da una carezza il pianto. Feci crescere fiori dove non c'era terra, toccai la luna con un dito. Spostai muri invisibili, scesi scale inesistenti, camminai restando fermo nello stesso punto. Aprii porte e il vento portò via l’ombrello che tenevo in mano, un violino suonò senza archetto. Tutto nella mia e nella loro immaginazione. Finita l’esibizione, applaudirono entusiasti. Pensai al mio maestro di recitazione, alle sue parole: «Se riesci a esprimere i sentimenti, le immagini e le emozioni senza parlare, magari diventi un vero attore».
A Madrid avevo frequentato un corso di mimo. Potevamo comunicare a piccoli gesti con le mani, la faccia e tutto il corpo. I movimenti dovevano essere lenti, per spiegare e far riflettere perché un mimo racconta in silenzio e senza parole. All’inizio volevo scappare, pensando che non facesse per me, perché ero un tipo logorroico e dal carattere frenetico. Ma poi mi appassionai ed era impossibile tornare indietro. Pur di riuscire ero disposto a esibirmi per strada, nei mercati, agli angoli delle piazze.
Dopo lo spettacolo, Bernie mi portò al pub per farmi conoscere Oliver. Era un tipo alto e allampanato come certi lampioni che vedevo illuminati nelle strade meno frequentate. Aveva un ciuffo unto, che mandava all’indietro con una mano ogni volta che parlava.
«Oliver, guardalo bene, Adrian è un artista unico e potente! Il suo personaggio silenzioso arriva dove le parole non riescono a raccontare, le sue storie, il suo linguaggio sono capaci di strappare un sorriso o una semplice riflessione. La sua è una forma di arte di cui pochi sono capaci, ma che arriva dritta al cuore di tutti!» Fece una presentazione degna del miglior impresario.
Il pub di cui Oliver era proprietario si trovava a Soho, un quartiere frequentato da giovani, da scrittori, poeti e artisti, e la sera si esibivano band esordienti. Accettò di farmi fare il numero tra un’esibizione e l’altra.
Con Bernie scelsi la musica che facesse da colonna sonora e allo stesso tempo guidasse i miei movimenti. Non potevo crederci, ma alla gente il numero piaceva.
Le giornate passavano tra le prove e i cortei. Non so se fossi innamorato di lei, o se era frutto della mia immaginazione. Mi piaceva il suo carattere deciso, ma in alcuni momenti la sua fragilità veniva inesorabilmente a galla. Aveva continui sbalzi d’umore, passava in un momento dall’allegria alla tristezza più cupa che ristagnava, anche quando rideva, nei suoi occhi gialli.
Una mattina eravamo da me in soffitta e pioveva senza speranza di interruzione. Una gatta aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare e le davamo da mangiare. Avevamo deciso di chiamarla proprio Berenice, colei che porta vittoria, di buon auspicio.
Bernie leggeva appunti per il comitato, io avevo finito di provare alcuni movimenti nuovi.
Senza preavviso, come a volte faceva, si avvicinò e mi prese le mani.
Il suo volto si trasformò e, più delle parole che seguirono, parlò la sua espressione.
«C’è una cosa che devi sapere, in Argentina amavo un ragazzo. Mio padre voleva che ne sposassi un altro solo perché era più ricco. Io ho rifiutato e insieme avevamo deciso di venire in Inghilterra, dove viveva una sua sorella. Prima di partire, una sera, mio padre insieme a mio fratello lo hanno inseguito minacciandolo. Daniel ha perso il controllo della moto e cadendo è morto».
Con le mani si coprì il volto e cominciò a piangere a dirotto. Un quarto di luna si affacciava dal lucernaio e la pioggia imperterrita colpiva le tegole. Pensai a come in una soffitta i suoni venissero percepiti in modo diverso che nelle altre stanze di una casa. Mi chiesi anche perché mi avesse fatto una confidenza così intima ma non tardò a darmi la spiegazione.
«Nessuno conosce la mia storia e se un giorno fossi tu a raccontarla, vorrei che lo facessi nel tuo linguaggio». Non dissi nulla, non riuscivo a trovare parole per consolarla, forse il mio viso parlò per me, perché, abbracciandomi, continuò: «Siamo simili noi due. Anch’io ho una maschera bianca ma io non posso toglierla se non staccando la pelle».
Era giugno e passeggiavamo lungo il Tamigi, elegante e lento, che seguiva il suo corso senza fretta. Era una mattina in cui un tiepido sole, tra due nuvole, urlava la sua esistenza.
«In Argentina, vicino alla mia città, scorre il fiume Iguazù. Tranquillo, proprio come questo finché il suolo si inabissa formando le cascate. Sono meravigliose, dovresti vederle. Era un posto dove Daniel e io andavamo spesso. Stavamo abbracciati, stretti in quel rumore assordante. Dall’azzurro al verde, l’acqua diventa bianca di schiuma, nasconde tutto quanto porta con sé, dai tronchi ai massi, e con un ruggito li scaraventa a terra. La roccia si lascia levigare, diventa materia senza forma, un muro di luce e forza, e quando l’attraversa anche il fiume non è più lo stesso. Si è come svegliato da un torpore sordo, come se fosse cosciente della potenza che nemmeno sapeva di avere».
Si era interrotta, gli occhi sembravano, se possibile, ancora più gialli e sul labbro inferiore era apparsa una goccia di sangue che la lingua fece subito sparire.
«Una leggenda racconta come si siano formate. Un dio voleva sposare una ragazza bellissima, ma lei rifiutò perché amava un altro. Scapparono in canoa ma il dio si arrabbiò tanto da scuotere e dividere la terra, generando le cascate. La ragazza, cadendo, fu trasformata in roccia, il suo amante in albero. Dalle loro posizioni continuano a guardarsi, senza potersi mai più sfiorare».
Quello che cercava di dirmi era che anche lei aveva subìto uguale sorte e un dolore così grande non si poteva raccontare. Il pianto della sua terra era il suo pianto.
Poi, senza preavviso, mi disse: «Parto per Orgreave, nello Yorkshire del Sud. Con le altre donne del comitato, adesso sono loro la mia famiglia. È necessario che vada, è l’ultimo baluardo alla resistenza». Mentre lo diceva era più triste del solito, e non riusciva a sollevare lo sguardo da terra
«Portami con te», mi venne solo questo da dire ma lei, con semplicità disarmante, mi rispose:
«La mia battaglia non è la tua. La tua vita può scorrere lenta nel suo letto. Io covo la potenza dell’acqua, sono come la cascata, non ho più nessuna forma, se non la forza prorompente di chi mi sta intorno».
Avevo fatto fatica, ma alla fine avevo compreso la sua scelta. Era sincera quando diceva che si nutriva delle necessità, delle ingiustizie, dei bisogni degli altri per non sprofondare nella sua disperazione. Doveva in qualche modo incanalare la rabbia e tutto quel dolore per combattere un unico male, quello che si portava dentro.
Nei giorni che seguirono, avevo in cuore due sentimenti contrastanti, da una parte temevo per l’incolumità della mia amica e allo stesso tempo ero felice. Un produttore mi aveva notato al pub e mi aveva proposto un contratto. Non vedevo l’ora di dirlo a Bernie. Invece non l’ho più rivista.
Era 18 giugno, e la chiamarono la Battaglia di Orgreave.
Dalle immagini e dalle testimonianze, si vedeva l’inaudita violenza della polizia che, in pieno assetto militare e con reparti a cavallo, assaliva, picchiava e arrestava i manifestanti.
La riconobbi nella foto di un giornale. Aveva tagliato i capelli, sembrava un ragazzo, ma era lei, Bernie. Si vedeva un poliziotto armato di manganello che cercava di colpirla e lei, con lo sguardo che conoscevo, lo sfidava. La foto fece il giro del mondo, ma in cuor mio sperai che avesse fatto l’opossum, per avere salva la vita.
Charles mi aiutò nel trasloco, con Bighair che allegro ci scodinzolava tra i piedi. Lasciavo la soffitta a malincuore, però. Feci per lui il mio numero schiaffo risata, carezza pianto, ma non mi venne troppo bene. Sapevo di avere una storia nuova e difficile da mimare, la bellezza di una cascata.
Portai con me Berenice e i suoi occhi gialli, e immaginai che anche Bernie, ovunque fosse, ogni giorno combattesse per la sua vittoria.