Il salotto era in penombra: il fuoco nel camino e le candele, sistemate in tazzine scompagnate posate su mensole e tavolini, creavano un’atmosfera calda e accogliente. Magda si stava godendo quel momento, incurante del temporale che infuriava oltre gli spessi muri della casa. Il vento pareva deciso a spogliare i grandi alberi del giardino, mentre il tuono di tanto in tanto, prepotente, curiosava in ogni angolo della casa e lei aveva l’impressione di sentir tintinnare i bicchieri nella vetrinetta. Ma non aveva paura, le piacevano i temporali.
Stava mettendo un ciocco nel camino quando udì dei colpi al portone d’ingresso.
«Era una notte fredda e tempestosa… e senza corrente!» sussurrò prendendo una bugia per farsi luce. Chi poteva andarsene in giro a quell’ora e con quel tempo? Magari era padre Gael, sorpreso dal temporale dopo aver lasciato l’Hospital de Niños.
«Magda - ne imitò la voce profonda - non hai ancora fatto riparare il cancello! Lo sai che Posadas sta diventando pericolosa!»
A ogni buon conto, arrivata all’entrata prese una pistola da un cassetto e aprì di colpo il portone: si trovò di fronte a un enorme mazzo di fiori grondante acqua, dietro cui si nascondeva, fradicio di pioggia, Jean. Suo marito.
«Buona sera Magda.»
«Sei in ritardo. Di tre anni.» Gelida, la donna indicò un grande baule impolverato, su cui era fissato un biglietto datato marzo 2007: “Arrivo a fine mese. Ti amo.”
«Posso spiegarti, querida…»
«Troppo tardi. E non chiamarmi più querida o ti sparo.»
«Oh, amore, non ne saresti capace!»
Un vaso sul tavolino in fondo al portico andò in mille pezzi.
«Bella mira! Posso entrare?» Le porse i fiori, che finirono da qualche parte oltre la balaustra della veranda.
«Conciato così? Non se ne parla.»
«Se potessi avere dei vestiti asciutti…»
Magda, sospirando, prese qualcosa dal baule e rientrò in casa, chiudendosi la porta alle spalle: a Jean non rimase che cambiarsi lì, sotto il portico. Quando raggiunse la moglie in salotto, lei era seduta su una poltrona davanti al camino, mentre sull’altra stava acciambellato un grosso gatto che fissò, indifferente, l’uomo.
«Potrei avere qualcosa di caldo? Per favore.»
«Potresti, se io avessi tempo da sprecare.»
«Magari Egle…» Egle era la governante.
«Egle è morta un mese fa. E questo non è un albergo.»
I due rimasero per un po’ in silenzio: Magda impassibile, Jean imbarazzato.
Nel frattempo il temporale era diventato solo un vago brontolio ed era tornata la corrente.
«Bene, me ne vado a letto.»
Magda si alzò e Jean, con gesti eleganti, le offrì inutilmente il braccio.
Arrivati al primo piano, Magda gli impedì di entrare nella loro camera da letto:
«Le tue cose sono in soffitta: ultima stanza in fondo al corridoio.»
«In soffitta?»
«In soffitta, il posto per le cose ormai inutili.»
Magda si chiuse la porta alle spalle, dando due mandate, e vi si appoggiò, chiudendo gli occhi: erano tre anni che aspettava quel momento. Tre anni in cui aveva provato e riprovato quel tono freddo e sferzante, carico di astio. Tre anni in cui aveva imparato a sparare, in cantina, usando come bersaglio i ricordi dei loro tanti viaggi, le locandine degli spettacoli del famoso “Jean Le Mimò”, le fotografie che lo ritraevano con personaggi famosi.
Irrequieta, tardò ad addormentarsi: la notte si era fatta silenziosa, lo sentì scendere le scale e avvicinarsi alla porta; vide la maniglia abbassarsi e dovette combattere con sé stessa per non farlo entrare.
Quegli occhi verdi e quel sorriso che l’avevano conquistata trent’anni prima avrebbero avuto ancora una volta la meglio e lei non voleva più soffrire.
Il mattino dopo Magda fu svegliata da un buon profumo di caffè: Jean era in cucina, con uno dei suoi abiti di scena, perfettamente truccato. Con i gesti tipici del suo mestiere, si trasformò in cuoco maldestro e cameriere galante.
«Lascia perdere, Jean: non funziona più.»
«Posso spiegarti?»
«Sarebbe l’ennesima inutile e puerile spiegazione. Ora siedi e ascoltami attentamente.»
Magda dettò le sue regole, ignorando uno sguardo che avrebbe potuto intenerirla.
Jean poteva restare. Erano ancora marito e moglie dopotutto e non era la prima volta che accoglieva il figliol prodigo, con debiti da saldare e i tanti profumi di donna nelle valige.
Ma per lui, ora, solo un paio di stanze in soffitta: il resto della casa, eredità di Magda, gli era precluso, a parte la cucina e la lavanderia. Se proprio non sapeva come passare il tempo, sistemasse le aiuole del giardino, da bravo marito, o, meglio ancora, in alcuni scatoloni c’erano un po’ di cose scampate al tiro al bersaglio: poteva rispolverare ricordi ed errori.
Oppure andarsene. Per sempre.
Più tardi si chiese se era stata una mossa intelligente, stupida o da masochista. Risposta: non riusciva a toglierselo dal cuore.
Jean accettò: ogni cosa ha un suo prezzo. Anche la speranza di ritrovare il porto sicuro che la moglie era sempre stata per lui.
Le settimane passarono: Magda sentiva il marito muoversi in soffitta, provare i monologhi che poi avrebbe trasformato in gesti ed espressioni del viso.
Diversi impresari proposero a Jean qualche breve tournée in alcuni teatri argentini, portando in scena ancora una volta “La leggenda delle Cascate di Iguazù” che tanta notorietà gli aveva dato. Ovviamente con Magda nella parte di Naipù, come all’inizio.
Jean le Mimò rifiutò sdegnosamente, quasi con rabbia:
«Io non sono solo Caroba, sono ben altro! Non capiscono nulla! Nulla. Pretendono di sapere loro qual è il mio meglio e neanche sanno chi è stato il mio maestro, Étienne Decroux. Maledette cascate!»
Magda, suo malgrado dovette intervenire: lo giustificò dapprima con una nuova fase creativa che lo stava stressando, poi con la preparazione dei corsi per la scuola di mimo che aveva intenzione di aprire a Buenos Aires ma alla fine si arrese e confidò ai pochi amici rimasti che Jean non sarebbe mai tornato sul palcoscenico né avrebbe insegnato il mestiere a chicchessia.
La depressione aveva preso il sopravvento e Jean era ormai l’ombra dell’uomo brillante e intellettualmente vivace di una volta: non voleva vedere nessuno, vestiva unicamente coi suoi abiti di scena, sempre truccato e coi capelli raccolti sotto una retina. Inventava personaggi di cui non ricordava nulla il giorno dopo.
Un giorno Jean aprì finalmente il suo baule di viaggio: a Magda parve un buon segno.
«Nel baule ci sono cose anche tue, cara, che avevi lasciato a Parigi. Se vuoi…»
Quel sorriso, quella voce calda! Magda si arrese, ma solo un poco.
«Dai, riordiniamo un po’ le cose.»
Sistemarono in un vecchio armadio alcuni abiti di scena, i più classici per un mimo: Jean se li faceva confezionare su misura, quando iniziava con un nuovo spettacolo o una tournée, e vi faceva cucire un’etichetta con l’anno.
«Mi ha sempre portato fortuna. Quando ho smesso, anche la fortuna si è girata dall’altra parte.»
«La fortuna! Oh, Jean, sei patetico. Tu hai buttato tutto al vento, inutile che menti anche a te stesso. Io invece ho tenuto memoria di tutto.»
Andò a prendere alcune scatole da una stanza vicina, chiusa a chiave anch’essa: sul coperchio era scritto un anno e dentro c’erano le locandine degli spettacoli, le recensioni, i ritagli delle riviste, gli appunti sulle sceneggiature. Delle videocassette. I due biglietti per gli spettacoli che sempre acquistavano.
«Me lo ricordo. “Così non potremo dire che non abbiamo venduto neanche un biglietto!” E sempre gli stessi numeri di poltrona: 74 quando ci siamo conosciuti, 76 quando ci siamo sposati.»
Trovarono le foto con il loro maestro, Étienne, che li aveva presi sotto la sua ala.
Lei figlia dell’ambasciatore argentino a Parigi, si era iscritta alla scuola di mimo senza tanta convinzione, quasi un capriccio, scoprendo poi di avere molto talento. Jean un attore di strada che per mesi e mesi aveva fatto la posta a Decroux davanti alla scuola, improvvisando pantomime su pantomime.
«Guarda, ecco il nostro primo spettacolo: praticamente ci ha buttati sul palcoscenico. Se avessi dovuto recitare, quella sera avrei fatto scena muta.» Magda aveva un ricordo indelebile di quel giorno: la sensazione di leggerezza sul palcoscenico, la naturalità di gesti studiati a lungo e il momento in cui seppe di essersi innamorata di Jean: il suo sguardo quando era si era alzato il sipario.
«Cos’è, una battuta?» Jean la risvegliò sai ricordi.
Scatola dopo scatola, sera dopo sera, ritrovarono gli anni più belli del loro sodalizio artistico ma ancora di più della loro storia. Ma anche i momenti difficili: le tante, troppe avventure di Jean, il dispiacere di Magda di non poter avere figli, le decisioni che Jean prendeva senza consultarla.
Tante piccole crepe di formarono tra di loro: provarono a ricominciare trasferendosi a Posadas, dove il padre di lei si era ritirato, accogliendoli nella sua casa. Per un po’ le cose funzionarono: lavorarono molto, viaggiarono in tutto il Sud America. Ma Jean era sempre irrequieto, sempre alla ricerca di qualcosa che forse non sapeva neanche lui cosa fosse.
Il suo modo di esprimersi sul palcoscenico mutò, era irascibile e incontentabile durante le prove, mettendo tutti a dura prova.
Improvvisamente sparì. Per tre anni. Ogni tanto arrivava una cartolina, che Magda metteva in una scatola.
Arrivò anche il momento di aprire l’ultima scatola, quella del 1984.
Nella scatola c’era anche una videocassetta. Jean aveva recuperato un televisore e un videoregistratore: si misero comodi e, da spettatori, si rividero in quello che era stato lo spettacolo che aveva dato l’avvio vero e proprio alla loro carriera, ideato per la cerimonia di proclamazione delle Cascate dell’Iguazù come Patrimonio dell’Unesco.
Sullo sfondo le riprese delle imponenti cascate, in sottofondo il fragore delle cascate stesse, e sul palcoscenico loro due e la leggenda di due innamorati che un dio malvagio e geloso aveva diviso per tutta la vita, creando le cascate nelle quali Naipù cadde trasformandosi in roccia, mentre Caroba, trasformato in albero, potè da allora solo osservarla.
Lo spettacolo ebbe un successo incredibile: nessun dialogo avrebbe potuto reggere il fragore delle cascate, personaggio anch’esse e che quindi dovevano essere assolutamente realistiche, per cui una performance di mimi era stata una scelta azzeccata.
Magda ricordava ancora il terrore di quando erano andati a visitare le cascate la prima volta: tutta quell’acqua spumeggiante, il non riuscire a sentire le parole di Jean che le illustrava la sua idea, le vertigini. Ogni volta che replicavano lo spettacolo, tutta quella paura tornava e forse fu per quello che Naipù rubava la scena al marito.
Magda non riuscì a farsi dire dove fosse stato in quei tre anni. Ormai Jean viveva in un mondo tutto suo e lei, per pietà, lo assecondava.
«Querida, aiutami a prepararmi: stasera ho uno spettacolo. Ti ricordi vero? Devo andare alle Cascate… anche tu, preparati. Come ogni anno, lo sai. Hai ripassato la parte, vero? Ah, non c’è mai stata una Naipù migliore di te.»
«Lo so, e anche tu sei stato un Caroba eccezionale! Però non andiamo fin là in fondo, non c’è posto: rimaniamo alla fermata del trenino; verranno in tanti, hanno messo anche delle seggiole. Ora stai fermo, per favore.»
Magdalena lo truccava con cura: il cerone bianco per il viso, labbra rosse e gli occhi cerchiati di nero, col cuore in un angolo, come sempre. Poi entrambi indossavano gli abiti di scena e, in quella soffitta che ormai era più casa che non le altre stanze, recitavano per un pubblico invisibile.
Le settimane composero i mesi, i mesi gli anni. I rapporti si ammorbidirono.
Magda lo vide rimpicciolirsi, gli abiti che indossava divennero larghi, il pallore quasi prese il posto del trucco. Non parlava più, si esprimeva solo a gesti.
Usciva raramente in giardino e solo quando Magda andava in chiesa o a fare commissioni: capitava che qualche vecchia conoscenza, sapendo di questa abitudine, passasse per una visita ma lui ne ignorava i richiami dal cancello. Si limitava a gironzolare tra le aiuole, perso nel suo mondo fatto di movenze lente e curate: annusava un fiore, carezzava un gatto invisibile, rincorreva una farfalla, inciampava in chissà che cosa e poi, d’improvviso, si metteva una mano all’orecchio, come udisse lo squillo del telefono o il richiamo di qualcuno e correva in casa, salutando, ora sì, la persona al cancello.
Magda offrì a Jean alcune stanze al primo piano, più confortevoli, ma lui rifiutò: in quelle due stanzette c’era tutto il suo mondo, in cui si sentiva protetto.
Una sera, dopo aver riposto alcuni piccoli souvenir, Jean le parlò: la voce era roca, e Magda fece fatica a capirlo.
«Allora non avevi sparato a tutto!»
Lei lo guardò, dritto negli occhi:
«No. E sai perché? Perché anche in quei momenti ti amavo. Quanto sono stata innamorata di te! Lo sono ancora sai? Si vede che l’amore eterno esiste davvero, nonostante tutti gli ostacoli che ci troviamo sul cammino. Però adesso non lo chiamo più amore. È pietà. Mi fai pietà. Per questo sei qui. Per pietà.»
Jean la guardò, sorpreso: mai aveva pensato di far pietà, forse solo compassione, ma non pietà.
Fu l’ultima volta che Magda lo sentì parlare.
Nel marzo del 2017 Magda salì sul treno che da Posadas la portò a Puerto Iguazù: un viaggio faticoso per lei, malata da tempo.
Col trenino turistico arrivò alle cascate. Impiegò quasi due ore a percorrere il camminamento dalla stazioncina di arrivo fino alla Garganta del Diablo: tutta quell’acqua che scorreva sotto la passerella la terrorizzava e ogni folata di vento un po’ forte le bloccava il respiro. Profittava delle panchine, sistemate su slarghi ricavati su piccoli isolotti, per riprendersi: doveva farcela. Arrivata al punto panoramico, si sorprese di come la maestosità delle cascate, il cui fragore cancellava ogni altro suono, la calmasse anziché stordirla come tanti anni prima.
Attese con pazienza il momento in cui non vi fossero turisti nelle vicinanze e lanciò oltre il parapetto un sacchetto di tela: forse era troppo liso e si ruppe, disperdendo nell’aria una polvere grigiastra. Fu proprio in quel momento che all’orizzonte si formò uno splendido arcobaleno e lei si dispiacque che Jean non potesse vivere quel momento.
«Oh, Jean, se solo tu fossi qui! E invece no, testardo d’un uomo! Eppure te l’avevo chiesto per favore, sai che questo posto mi fa paura.»
Qualche giorno dopo padre Gael, passò a trovarla, come faceva appena le gambe glielo permettevano: entrò usando le chiavi che lei gli aveva dato tempo addietro e per la prima volta trovò le porte delle stanze spalancate.
Rimase esterrefatto: a parte le due o tre stanze in cui Magda si era ritirata, le altre erano desolatamente vuote, velate dalle ragnatele. Niente più mobili di pregio né tappeti; quadri e porcellane erano spariti, così come la collezione di libri del padre di Magda; le tende di pizzo, impolverate, nascondevano al mondo il nulla di quelle stanze. Poche lampade, nude e inquietanti, rendevano ancora più cupa l’atmosfera.
Con uno strano presentimento nel cuore, il vecchio prete salì faticosamente in soffitta e trovò Magda nella stanza di Jean, distesa sul letto, vestita con un vecchio abito da sera e truccata maldestramente. Quando si accorse della presenza di Gael, gli sorrise:
«Sei arrivato in tempo.»
Gli porse una busta, poi, con un ultimo battito di ciglia, salutò Jean, seduto su una poltrona.
Mummificato, con un coltello piantato nel cuore.
“Perdono, Gael, per i miei peccati.
Ho odiato e smesso di perdonare. Ho ucciso Jean.
Dieci anni fa, in una notte fredda e tempestosa, come nei romanzi, bussò alla porta, fradicio, pallido, certo che sarebbe stato perdonato ancora una volta.
Si sbagliava. Tanto lo avevo amato, tanto lo odiavo per avermi tradita, abbandonata. Umiliata. L’ho ucciso, ma non subito, solo quando cominciò a farmi pena per com’era ridotto. Ma non fu per pietà: avevo solo trovato finalmente il coraggio. L’ho lasciato lì, tanto in soffitta non saliva più nessuno. Ho mentito a te e ad altre persone, fingendo talvolta di essere Jean, solo in giardino, voi davanti al cancello e io travisata da “Le mimò”. Sono stata brava, vero?
Mi spiace di non averti potuto dare più nulla ultimamente per i bambini dell’Ospedale: per sopravvivere ho dovuto svendere tutto, poco per volta. E tu lo sapevi. La casa però no, è tua. Saprai farne buon uso. Magda.”
Jean era morto in quella soffitta: una pugnalata al cuore. Un ultimo battito di ciglia per vedere il volto stravolto della moglie. Per mesi la soffitta era rimasta chiusa a chiave, le finestre aperte per disperdere l’odore di morte. La donna a ore si occupava solo delle poche stanze occupate, a pianterreno.
Quando l’odore sparì, magda cominciò ad andare quasi ogni giorno in quella soffitta: parlava per ore e ore con Jean, gli mostrava le cose che aveva conservato, poi bruciava lettere, fotografie e documenti e ne raccoglieva le ceneri in un sacchetto di tela.
Avrebbe voluto bruciare anche Jean, ma non sapeva come fare.
Il suo mondo era diventato il palcoscenico da cui lui l’aveva esclusa, dove le era sempre più difficile distinguere la realtà dal copione.
Quando non ci fu più nulla da bruciare, bruciò sé stessa, mangiando quando si ricordava, buttando le medicine. Le ultime energie le aveva spese per trascinarsi in quella soffitta.