Cre-pi Ho Chi Minh, viva il corpo dei Marines. Il motivetto continuava a rimbombagli in testa da un’eternità, ma James L. Asbott non lo avrebbe ripetuto ad alta voce mai più, neanche sotto tortura. Il Vietnam poteva essere la sua tomba; dopo la presa di Saigon, nove anni prima, era diventato la sua casa.
Il croscio ovattato della pioggia produceva una eco sfuggente che si perdeva tra le isole, che rimbombava nelle grotte. L’umidità dell’oceano si congiungeva a quella del cielo. Era in quel punto ideale, al cambio concreto della stagione, che il dolore si ripresentava nel corpo di James.
Con il dolore ritornavano anche i fantasmi: uno squadrone di spettri, ciascuno dei quali rappresentava una delle strade sbagliate che James aveva scelto di imboccare nella sua vita. Ogni volta si era ritrovato al classico bivio, per cui la domanda sorgeva spontanea: da che parte andare?
James non si pentiva della via che aveva scelto di percorrere a suo tempo, ma rimuginava su come sarebbero andate le cose, se avesse scelto diversamente.
«Smettila di pensare!» lo ammoniva Lu, sua moglie. James avrebbe voluto risponderle: “Ma tu che ne sai?”
Non lo avrebbe mai fatto. Se non fosse stato per lei, sarebbe ritornato in Kansas dentro un sacco nero; lo avrebbero messo six feet under con la divisa stirata e le medaglie appuntate al petto; a sua madre in lacrime, spaventata dai colpi sparati a salve, avrebbero dato una bandiera sporca di sangue. Tanto sangue.
Invece gli era andata di lusso, perché l’ogiva di un kalashnikov calibro 7.62 lo aveva passato da parte a parte senza ledere nessun organo vitale. I vietcong stavano invadendo Saigon come formiche affamate. In via ufficiale non avrebbero torto un capello a nessuno yankee ancora presente sul territorio.
«Cazzate, tutte cazzate, ci avrebbero ammazzati tutti, non vedevano l’ora!», esclamava James a voce alta.
Lu pensava di sapere come aiutare suo marito quando nella sua mente riaffioravano quei momenti: parlava con lui, nel modo più naturale e spontaneo possibile: «Hai ragione Little Asbott, mio piccolo Asbott, ma guarda dove ti trovi ora».
«Sei tu che mi hai strappato alla morte del corpo, amore mio», rispondeva James con gli occhi lucidi, «ma con i tormenti della mente, non so se mai ci riuscirai».
Con la sua mano di seta, Lu gli accarezzava la guancia calda. I suoi occhi stretti diventavano la linea di un sentimento infinito, due stelle che baluginavano in un mare di oscura felicità. La pioggia continuava a battere l’oceano e le isole della baia. Lo sguardo di James pareva perso oltre l’orizzonte grigio di nuvole.
Una fitta di dolore si materializzava con una smorfia sul volto di James. Con la mano gelata dell’emozione dei ricordi, James premeva quel trapezio scuro di pelle liscia appena sotto il costato. Poi, il calore della mano di Lu cambiava improvvisamente la fase passando attraverso il palmo di lui per lenire il dolore.
James fece per alzarsi dalla sedia di vimini rivolta verso il mare: «Dove vai?», domandò Lu.
«Amore mio, che domande mi fai?», rise James.
«Va’ pure» gli strizzò l’occhietto Lu.
«Ecco perché ti amo, muso giallo», rispose James voltandole le spalle e procedendo sul pavimento scricchiolante della palafitta.
La soffitta di James era un posto sicuro. Non per lui, ma per i suoi pensieri. Il tetto di canne di bambù poste a spiovente e coperte da uno spesso strato di paglia e foglie di cocco faceva scivolare l’acqua rapidamente. La luce di quel giorno era debole, per cui James dovette accendere una lampada a olio.
«Uscirò vivo da qui?», pensò ad alta voce.
«Ma certo che ne uscirai!» rispose Lu dal piano di sotto.
«Che fai? Origli?», chiese James seccato.
«No», rispose convinta, « io sono la ragione, la ragione non origlia, ma ascolta in disparte.»
James pensò alla ragione. Sebbene non avesse contezza in sé circa la ragione in senso lato, Lu non poteva essere la ragione incarnata in un’entità fisica, come a quel punto affermava di essere.
“Maledette palafitte di legno!” pensò James tra sé. Chiuse a chiave la porta della conica soffitta, prese dei tappi per le orecchie e si sedette sulla sedia sgangherata. Sul piano della scrivania c’erano alcuni fogli bianchi e una penna. Il primo foglio era ingiallito e impolverato dal tempo. James si chiese da quanto tempo quei fogli fossero lì. Era giunto il momento di riempirli d’inchiostro.
Mi chiamo James Little Asbott. Mia madre preferì Little a Junior per distinguersi dalla massa di quei genitori del dopoguerra americano che chiamavano i figli maschi con lo stesso nome del padre. Il vecchio diventava senior e il figlio junior. Non mi è mai piaciuto Little, ma tant’è.
Ho trascorso la mia infanzia tra i campi di frumento bruciati dal sole che si estendevano all’infinito creando un gioco di luci e ombre, dal giallo vivo all’ambra. Abitavamo in una fattoria non molto distante da Kansas City, dove mio padre era funzionario governativo. Mia madre faceva da contabile all’azienda agricola di Mr. Truman, proprietario della fattoria. Lui e sua moglie non avevano figli. Ho passato molti momenti in solitudine, riflettendo, anche se ora non ricordo nulla di quei pensieri. Soltanto la solitudine è rimasta.
Il trasferimento di mio padre a New York fu provvidenziale. Almeno per me. Mamma invece soffriva la grande metropoli. Soffriva in silenzio poiché la carriera di papà stava decollando con conseguenti benefici economici.
Mi chiamo James L. Asbott. Sono laureato in filosofia alla Columbia University con il massimo dei voti. Ho scritto una tesi su Hegel. La mia tesi è sempre la stessa, è l’oggetto che è cambiato.
Grazie al profitto negli studi, per me si spalancarono le porte del mondo accademico. Nulla poteva ostacolarmi, niente mi avrebbe fermato. Lavorando sodo a nuove pubblicazioni non avrei avuto difficoltà per giungere alla cattedra di filosofia della Columbia. L’illustre professor Delauney era il mio mentore e si avvicinava alla pensione.
Venne la guerra. Una guerra lontana e, direi oggi, incomprensibile. Eppure allora mi sentii in dovere di rispondere alla chiamata del mio paese. Fui arruolato senza fare una piega. L’addestramento fu breve ma intenso. Scoprii di avere una certa dimestichezza con le armi. Io ero padrone del mio fucile e lui il mio servo. Faceva ciò che gli dicevo di fare. Sparava lacrime che andavano nella direzione che io gli indicavo. E si trasformavano in sangue.
Mi chiamo James Little Asbott. Ho avuto paura di morire. Il mio fucile, da solo, non poteva proteggermi. Un colpo di mortaio era esploso a pochi metri da me. Il busto del tenente Sanders giaceva a qualche metro dalle sue gambe. Il caporale Ross era tutto intero ma crivellato di schegge. Avevo visto cadaveri prima di quel momento, ne vidi tanti altri dopo. Ma quella scena non la scorderò mai. Pensai inoltre che la filosofia non fosse in realtà un valore in cui credere per migliorare l’uomo. Ciò che accadeva intorno a me lo dimostrava. Non si può migliorare la natura dell’uomo.
Fu il mio ultimo pensiero quel giorno: dopo averci martellato con l’artiglieria, i musi gialli attaccarono la mia unità frontalmente. Non avevamo il supporto dei blindati e quando arrivò l’aviazione era troppo tardi. Buona parte dei soldati miei compagni furono uccisi. Davanti a me una distesa di fiamme. Per un attimo mi parve di essere in Kansas. Le urla dei vietcong che bruciavano come spaventapasseri mi fecero ritornare alla realtà.
Mi chiamo James L. Asbott. Col passare dei mesi la mia tempra è migliorata. Filosoficamente direi che il servizio è migliorato. O meglio, si è autodisciplinato. Dopo la strage sono stato promosso tenente. Ciò che rimaneva della mia unità è stato smembrato e sono finito a Saigon come ufficiale di collegamento.
Odiavo i musi gialli. Ero abituato al binomio muso giallo/uccidilo, per cui avevo una gran voglia di usare il mio fucile. Lui se ne stava lì tutto solo, nell’armadio dietro la mia scrivania. Era da un po’ che non lo facevo cantare. Aprii l’armadio e gli chiesi scusa per averlo trascurato.
Quando mi girai vidi che sulla porta c’era una donna che mi guardava. Era una di loro e parlava la nostra lingua. Era assunta come interprete presso il comando americano di Saigon. Pensai alla figuraccia che avevo fatto: mi aveva sicuramente visto parlare con il fucile. Non disse nulla, sorrise soltanto. Io dissimulai la mia vergogna. Non credo di esserci riuscito. Al comando si diceva che lei fosse in realtà un agente dei servizi segreti del Vietnam del Nord.
Mi chiamo James Little Asbott e Little non mi piace, ma tant’è. Me lo ricordo bene quel giorno maledetto. Tutti gli americani in Vietnam sapevano che la guerra era persa. Tutti gli americani in patria sapevano che la guerra era persa. Tutto il mondo sapeva che gli americani avevano perso la guerra in Vietnam. Auspicavo che almeno le anime di morti avessero trovato pace. Oggi direi che non è così: vagano nel mondo per tormentare i vivi, per vendetta. Una vendetta giusta per una morte ingiusta.
Gli elicotteri dei Marines andavano e venivano senza sosta dall’aeroporto di Saigon per evacuare gli americani. Si udivano esplosioni di colpi d’artiglieria e raffiche di kalashnikov: si combatteva alla periferia della città. La fine della mia guerra accadde poco dopo quando uno dei piloti di elicottero si rifiutò di ammettere a bordo tre interpreti del comando. Tra loro c’era Lu. Intervenni per sedare gli animi che si stavano scaldando. Avevo il mio fucile a tracolla, aderente alla schiena. Scalpitava poiché aveva capito che avrebbe potuto finalmente sparare. L’idea che alcuni vietnamiti assunti dal comando americano fossero in realtà spie dei comunisti aveva fatto più strada di quanto pensassi. La situazione degenerò presto quando il servente dell’elicottero estrasse la pistola puntandola contro Lu. Mi misi in mezzo, ma non fu l’americano il primo a sparare. Mi portai le mani al costato. Prima di cadere vidi la mia divisa intrisa di sangue, una macchia ocra in espansione. Il dolce viso di Lu fu la mia ultima immagine.
Mi risvegliai in una stanza dalle pareti grigie. Pensai di essere morto e iniziai a sudare freddo. Poi vidi Lu: «Hanno ammazzato anche te?» chiesi con voce roca, «dammi dell’acqua!», esclamai subito dopo.
Sei giorni prima, uno degli interpreti sparò un colpo di kalashnikov verso il pilota dell’elicottero, colpendo me. Fu a sua volta ucciso dal servente che lo freddò a colpi di pistola. L’altro interprete se l’era già data a gambe. L’elicottero decollò lasciando me sul terreno, il cadavere dell’interprete e Lu sopra di me.
Lu mi guardò con la solita dolcezza. Senza che mi dicesse una parola capii che ero ancora vivo. Dal primo giorno che misi piede in Vietnam ho sempre avuto paura di morire. Prima ero indifferente alla morte. Dissi: «Lu, amore mio, non era quello che avevo pensato per noi, ma vedrai che in Kansas ci troveremo bene, lavorerò e metteremo su famiglia».
«Non ce ne sarà bisogno my Little Asbott», rispose laconica, «qui staremo bene, tra poco lo vedrai con i tuoi occhi».
Mi chiamo James L. Asbott. Gli Stati Uniti d’America mi avevano abbandonato. O meglio, credevano di aver abbandonato un cadavere. Non li biasimo, anch’io l’avrei fatto. Infatti volevo tornarci a casa, con Lu. Se non doveva essere il Kansas, potevano andare bene anche le montagne del Colorado oppure, perché no, New York, la città dove avevo studiato.
Lu spinse la sedia a rotelle fino a una porta di canne di bambù. «Che fai, non apri?» domandai. «Ascolta», sussurrò lei.
Non ci avevo fatto caso ma tendendo l’orecchio sentii la pioggia che cadeva copiosa. Non era soltanto quello, c’era dell’altro. Onde, onde che spumeggiavano infrangendosi sugli scogli. La porta si aprì e davanti a me apparve la baia di Ha Long.
Lu mi aveva portato lì, in quel luogo meraviglioso. Da quel giorno è stata la nostra casa. Col passare del tempo non ho più sentito l’esigenza di tornare negli Stati Uniti, il Vietnam del Nord è diventata la mia patria. Sì, le dicerie non erano infondate: mia moglie era una spia dei vietcong. Non fosse per questo credo che non mi sarei innamorato di lei.
A ben vedere, tutto torna, come diceva Hegel. Coscienza, Autocoscienza, Ragione. La Ragione che non mi ha mai abbandonato. Tesi, antitesi, sintesi. Quello che sono diventato portandomi dietro il fardello della guerra vissuta. Il mio vero rimpianto, è proprio questo: non sono ancora arrivato all’unione profonda tra me filosofo e la filosofia. L’ho abbandonata per uno stupido richiamo nazionale.
James Little Asbott sentì un enorme peso sulle spalle. Come una zavorra quella mole sembrava schiacciarlo alla scrivania dell’angusta soffitta di bambù, paglia e foglie di cocco. Lo spazio ridotto conteneva troppe parole, troppi pensieri: le pareti iniziarono a curvarsi, il tetto a tremare come il coperchio di una pentola. James urlava tutta la sua pena e il suo grido riecheggiava nella baia tra le gocce di pioggia. Il tetto della palafitta esplose e le parole salirono al cielo, leggere. Fu un attimo di tranquillità finché il dolore e il tormento contenuto nella sequenza di DNA narrativo non ricadde come bombe al napalm su quella meraviglia della natura. Soltanto James Little Asbott bruciava.
Lu avrebbe voluto piangere tante lacrime quanta era la pioggia che cadeva. Mentre il marito delirava dalla soffitta, lei guardava il dottore con gli occhi gonfi ma carichi di speranza: «Non possiamo proprio far nulla per aiutarlo?» chiese quasi implorando.
«Post traumatic stress disorder. È molto grave. Sono passati anni ormai. Non credo ci sia una possibilità».
La pioggia continuava a cadere, annacquando le parole, sulla palafitta nella baia di Ha Long.