Vịnh Hạ Long, aprile 1984
“Inizia dal cielo”, le chiese.
“Sembra un quadro di Turner. Ricordi quello che abbiamo visto a Southampton durante la luna di miele?”
“Ricordo altre cose di quel viaggio.” Le prese la mano. “Scusami, vai avanti”, disse.
“È quasi tutto nero. Ma c’è una finestra di luce violenta. Come uno strappo nel tessuto della realtà.”
La barca iniziò a muoversi. Sam avvertì le vibrazioni del motore, sentì Helen alzarsi dal suo posto per parlare alla guida. Delle lingue che conosceva, il vietnamita era la sua preferita.
“È un cielo da tempesta”, riprese Helen, tornando a sedersi accanto a lui. “Ma il mare è calmo. Ha lo stesso colore scuro del cielo. E poi c’è quel punto dove la luce lo colpisce. Come un incendio fatto da milioni di scintille che danzano nell’oscurità. C’è un peschereccio al centro. Ce ne sono altri, in tutta la baia, nascosti nel buio, ma quello è l’unico sotto la luce. Basso, lo scafo incurvato come un giunco, una piccola costruzione in legno verde appoggiata a poppa.”
“Cos’altro?”
“La nebbia. La baia è immersa nella nebbia. Riesci a vedere le isole più vicine. Emergono dall’acqua. Sembrano sospese sulla superficie. Poi l’orizzonte inizia a dissolversi. Le isole più lontane sono appena delle ombre.”
“E dopo?”
Boston, gennaio 1984
“Cosa vuoi fare ora?” gli chiese, aiutandolo a scendere dall’auto.
Il marciapiede di Irving Street era coperto da un sottile strato di ghiaccio. Per la prima volta quell’inverno le temperature erano scese sotto zero.
Sam scosse la testa, chiedendosi se si riferisse al resto della giornata o al resto della loro vita.
“Non lo so”, le disse, una risposta che valeva in entrambi i casi.
La luce gli dava fastidio. Tenne la testa bassa, gli occhi ridotti a una fessura. Si pentì di aver tolto gli occhiali scuri. Li aveva in tasca, ma non voleva cedere alla tentazione di rimetterli.
La prese per mano e camminò sulla macchia grigia del marciapiede, facendo attenzione a non scivolare.
“La vista potrebbe anche migliorare”, disse Helen.
Il tono della sua voce era cambiato. Sembrava sicura di sé ora. Se anche Sam si fosse girato a guardarla negli occhi non avrebbe potuto leggervi niente di diverso.
“Oppure no”, le rispose.
Helen gli strinse più forte la mano. Si fermò. “Ma potrebbe”, disse risoluta.
Sam le diede ragione. Non che ci credesse davvero, ma non gli andava più di contraddirla.
Il medico l’aveva chiamata sindrome ischemica oculare.
“Mai sentita”, era stato il primo commento di Sam.
“Il fatto che non la conosca non la rende meno reale.”
Nella sua vita aveva fatto il possibile per avvicinarsi alla verità. Aveva scavato in profondità, alla ricerca delle ragioni ultime dell’esistenza. Ma per quello che riguardava il suo corpo aveva fatto del suo meglio per restare in superficie. Aveva condotto una vita sregolata, ignorato sintomi, evitato qualunque esame preventivo. Si era preso cura della sua mente e quanto al resto se n’era infischiato.
“Non mi interessa sapere che cos’è. Mi dica cosa devo aspettarmi ora.”
“La vista potrebbe anche migliorare”. A Sam era sembrato divertito dal suo atteggiamento scontroso. “Oppure restare così com’è.”
“Peggio sarebbe difficile.”
“Ma non è tutto.” La sua voce era diventata seria tutto d’un colpo. “La perdita della vista è solo un effetto. La causa è un’altra.”
“Conosco la relazione causa-effetto. Vada avanti, dottore.”
“C’è stata una riduzione del flusso sanguigno. Potrebbe essere un avviso.”
“Di cosa?”
“Un ictus. Oppure un infarto del miocardio. Si tratta di un problema relativamente nuovo. I primi dati ufficiali risalgono a un articolo pubblicato nel 1963.”
“Sono passati ventun anni.”
“In medicina non vogliono dire molto.”
Entrarono in casa.
“Voglio andare in soffitta”, le disse.
Helen si offrì di accompagnarlo.
Scosse la testa. “Devo solo andare di sopra”, le rispose. “Aprire la botola, far scendere la scala e salire. Conosco la strada. Quante volte giro per casa di notte mentre tu dormi?”
Si aspettò che gli rispondesse che non era la stessa cosa, che la sua insonnia non avrebbe mai potuto prepararlo a tutto questo, ma non disse nulla. Lo accarezzò e basta.
Sam conosceva quel gesto. Non era nuovo. Forse aveva lavorato sul tono della voce, ma il modo di toccarlo era rimasto lo stesso.
Si chiese se con il tempo sarebbe cambiato anche quello, se si sarebbe evoluto in una nuova forma di linguaggio, in un'intimità più profonda.
Quanto al fatto che non fosse la stessa cosa, se ne rese conto al primo gradino, ma proseguì, per non contraddirsi, sicuro che lei lo stesse guardando dal fondo delle scale. Si mosse con cautela e, quando arrivò in cima, tirò un sospiro di sollievo.
Percorse il corridoio al secondo piano, fermandosi a metà. Allungò una mano in cerca della corda, ma non la trovò. Fece un passo avanti e uno indietro, ma nulla. Allora iniziò ad agitare le braccia, menandole per aria in preda alla frustrazione, spostandosi avanti e indietro lungo il corridoio, fino a quando per puro caso non la colpì con il dorso della mano.
Pensò alla differenza tra casualità e causalità e gli venne da ridere.
Si fermò, fece un lungo respiro per calmarsi, cercò ancora la corda e finalmente riuscì ad afferrarla. La tirò per aprire la botola e far scendere la scala, calcolando di quanto avrebbe dovuto spostarsi per non farsi prendere in pieno, ma ovviamente sbagliò e la scala lo colpì su una spalla.
Restò lì a massaggiarla per un po’, chiedendosi se quella divinità in cui non aveva mai creduto, di cui si era così duramente sforzato di dimostrare la non esistenza, ora non lo stesse guardando divertita dai suoi tentativi di dimostrare di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno per uscire dal buio in cui era cascato.
“Ora basta”, disse a bassa voce.
Salire fu la cosa più semplice.
Per mesi era stata solo una stanza vuota.
Quando avevano preso in affitto la casa di Cambridge a metà degli anni Settanta non si erano accorti della botola sul soffitto del corridoio al secondo piano.
Era stata Helen a notarla per prima, un pomeriggio in cui lui era fuori città per una delle sue conferenze.
“Abbiamo una soffitta”, gli aveva detto al telefono quella sera.
Sam la chiamava da un hotel dell’Upper East Side, un posto squallido a pochi passi dalla Columbia, dove la notte si sentivano i topi correre nelle intercapedini delle pareti.
Di più non poteva permettersi. Era appena all’inizio della sua carriera. La scrittura e la differenza era stato favorevolmente accolto dalla comunità degli accademici del New England. Aveva aperto prospettive inedite, a detta di molti, ma di certo non lo aveva coperto di soldi.
Era riuscito a incrociare fenomenologia, strutturalismo e letteratura, ma non aveva ancora trovato un modo per diventare ricco con le sue idee. Probabilmente non lo avrebbe mai trovato.
“O almeno credo che lo sia”, aveva aggiunto lei.
“Che vuoi dire?”
“C’è una botola, ma non riesco ad aprirla. Sembra chiusa dall’interno. Potrebbe essere il nascondiglio di un fantasma.”
Helen era un'appassionata di storie dell’orrore. L’idea di un fantasma in soffitta la metteva di buon umore. Per Sam era lo stesso con il baseball o Bruce Springsteen. Ognuno aveva le proprie debolezze.
Una volta tornato a Cambridge, non ne avevano più parlato. All’epoca Helen lavorava a tempo pieno come interprete per uno studio legale di Boston e lui era sempre in giro. Quando riuscivano a incrociarsi preferivano passare il loro tempo a letto oppure esplorare i locali intorno a Harvard Square. Per quasi un anno avevano vissuto nel caos più totale.
Svuotando finalmente gli scatoloni, avevano sistemato il necessario e si erano disfatti dell’inutile. Il rimanente erano ricordi che appartenevano a un passato di piccoli fallimenti: le bozze di un romanzo che Sam non aveva mai finito, l’attrezzatura per una camera oscura a cui Helen non aveva mai trovato il tempo di dedicarsi, racchette da tennis che non avevano mai imparato a usare. Questi e molti altri oggetti: un elenco infinito di cose incomplete. Non necessariamente qualcosa di cui disfarsi per sempre, ma da conservare e ritrovare più avanti, quando sarebbero stati oltre la metà delle loro vite, più propensi ai bilanci, a guardare il passato con maggior tolleranza o nostalgia.
Era stato allora che gli era tornata in mente quella telefonata.
Era salito al secondo piano per cercare la botola. Non era chiusa dall’interno. Tinteggiando il soffitto, la vernice in eccesso si era seccata lungo i bordi. Aveva usato un cacciavite per rimuoverla ed era riuscito ad aprirla.
La soffitta era un sottotetto. Dava l’idea di essere fredda d'inverno e rovente d’estate, ma per il resto era in buone condizioni.
“Mi dispiace. Niente fantasmi”, le aveva detto.
Avevano sistemato di sopra quei reperti del loro passato e la soffitta era diventata una soffitta a tutti gli effetti, un posto buono per nascondere i ricordi scomodi.
Per anni era rimasta tale, anni in cui si erano dedicati alle loro rispettive carriere e al tentativo di avere un figlio. Sam aveva pubblicato altri due trattati, triplicato il numero di conferenze. Helen si era messa in proprio, lavorando come consulente per diversi studi legali. Non erano diventati ricchi, ma se non altro Sam poteva concedersi il lusso di dormire in stanze di hotel dove i topi non correvano all'interno delle pareti.
Tra il 1977 e il 1981 Helen aveva avuto una serie di aborti, uno dei quali piuttosto doloroso, a metà del secondo trimestre. In quell'occasione Sam aveva portato di sopra alcuni oggetti acquistati pensando che, superati i primi tre mesi, le cose sarebbero andate finalmente per il verso giusto. Erano dentro una scatola con la scritta William, il nome che avevano scelto per il bambino.
Almeno fino all’estate del 1982 avevano continuato a provarci. Poi una notte, all’inizio dell’autunno di quell’anno, Helen gli aveva detto: “Dovremmo fare un viaggio”.
“Un viaggio?”
“Sì. Uno di quelli lunghi.”
Era stato il suo modo per dirgli che si era arresa, che sarebbero rimasti loro due soltanto.
Forse credeva ai fantasmi, ma non ai miracoli.
“Va bene”, le aveva risposto. “E dove vorresti andare?”
Aveva lasciato a lei la scelta.
“Sette posti.”
“Perché sette?”
“È un numero che rappresenta completezza. Perfezione. Il mondo è stato creato in sette giorni.”
“A quanto dice la Bibbia…”
“La settimana ha sette giorni.”
“Una semplice convenzione.”
“I sette chakra.”
“Va bene. Ho capito. E quali sarebbero?”
“Prima devo mostrarti una cosa.”
Lo aveva portato nel suo studio. Sulla parete era appeso l’albero genealogico della famiglia di Helen. Aveva lavorato anni per completarlo. Diversamente sarebbe probabilmente finito in soffitta.
C’erano anche loro su quell’albero. Era la prima volta che Sam se ne rendeva conto.
Erano un ramo che non sarebbe cresciuto in nessuna direzione. Un’altra voce nell’elenco infinito delle cose incomplete. Un altro fallimento.
Forse alla fine la soffitta sarebbe stato il posto giusto in cui nascondere anche quello.
“Il Sudafrica.”
“Dove è nata tua madre?”
“Esatto. E Jeju, in Corea.”
“Dove è nato tuo padre.”
Helen era figlia di una naturalista sudafricana di origini tedesche e inglesi e di un diplomatico coreano. I suoi si erano conosciuti a Londra. Helen era alta, bionda, aveva la pelle chiara e il viso coperto di lentiggini, ma gli occhi erano quelli di suo padre. Parlava tedesco, coreano, ma anche vietnamita e francese.
Gli studi di sua madre e la carriera di suo padre l’avevano portata a vivere in diverse località del sud-est asiatico. Conosceva ogni lingua dei posti dove era stata da bambina.
“Inizio a capire la logica. Immagino che altri tre saranno il Vietnam, le Filippine e l’Indonesia.”
“Molto bene. Ne mancano due.”
“Dammi un indizio.”
“Il mio bis bis nonno.”
“William Chandless?”
A metà dell’Ottocento era stato a capo della spedizione che aveva esplorato il fiume Purus, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni. Aveva studiato le popolazioni del luogo, imparato la loro lingua, l’Arua, ormai estinta. Anche se non lo aveva mai conosciuto, Helen si era sempre sentita simile a lui. Una specie di affinità elettiva, di legame invisibile tra due spiriti distanti tra loro generazioni.
“L’Amazzonia?”
“Sì. E per finire Jordan Hummell.”
“Non mi dice nulla.”
“Era uno zio di mia madre.”
Gliel’aveva mostrato sull’albero.
“Era capitano di una nave a vapore, la Cometa. Organizzò il primo viaggio turistico alle cascate di Iguazú. Ho pensato che fosse di buon auspicio.”
“Interessante. Un viaggio del genere necessita di un'accurata preparazione. E avremo bisogno di spazio. I nostri studi sono troppo piccoli e non ci sono altre stanze adatte.”
“Che ne pensi della soffitta?” aveva proposto lei.
Per prima cosa avevano cercato un falegname che installasse una scala a scomparsa, così da rendere più semplice salire e scendere. Poi Sam aveva ammonticchiato in un angolo quello che avevano nascosto lassù e lo aveva coperto con un telo. Ora sembrava davvero che ci fosse un fantasma, aveva pensato.
Nel corso del 1983 avevano trasformato la soffitta in una riproduzione del mondo. Nella rappresentazione di un’idea. Un figlio sarebbe stato un viaggio nel futuro. Non potendolo avere, Helen aveva deciso di andare nella direzione opposta, di fare un viaggio nel passato, alle origini di se stessa e della sua famiglia, di quell’albero genealogico di cui sarebbero stati per sempre soltanto un ramo interrotto.
Sam si sedette per terra, al centro della stanza. A quell’ora la soffitta era immersa in una luce morbida che non gli faceva male agli occhi.
Le mappe geografiche davanti a lui erano ombre confuse dai tenui colori pastello: l’azzurro dell’oceano, il verde e il marrone dei continenti.
Le avevano appese a grandi lavagne mobili che aveva recuperato da un magazzino dell’università. C’erano fili rossi che correvano da una parte all'altra, i voli aerei che gli avrebbero permesso di saltare da un continente all’altro.
Ogni tappa del viaggio aveva una sua piccola isola di materiale: guide turistiche, articoli di riviste, mappe dettagliate dove gli itinerari erano tracciati con la stessa matita rossa che usava per correggere le tesine dei suoi studenti, interi quaderni di appunti.
Helen lo raggiunse e si sedette accanto a lui.
“L’idea di partire davvero mi ha sempre spaventato un po’”, gli disse.
Sam si chiese se lo stesse dicendo per lui, se fosse un modo per fargli capire che era pronta a rinunciare anche a quello.
“Ci lavoriamo da un anno. Non me l’hai mai detto.”
Pensò a tutte le volte che avevano provato ad avere un figlio, alla paura che se fosse arrivato davvero non sarebbe mai stato un buon padre, alla certezza che tutta la sua filosofia non gli sarebbe servita a nulla.
“Lo so. Nella mia testa è come se fossimo già partiti e tornati. Come se avessimo già visto il mondo intero. Anche se non abbiamo mai lasciato questa soffitta. Ma non dobbiamo per forza farlo ora. Possiamo aspettare ancora un anno. Vedere come va.”
Sam pensò che forse non avrebbe avuto un altro anno. Il dottore era stato chiaro. E allora le ripetè “Voglio andare”, provando a imitarla, a lavorare sul tono della sua voce.
“Ma avrò bisogno dei tuoi occhi”, aggiunse. “Che mi racconti tutto ciò che vedi.”
“Non so se ne sono capace.”
“Sì che lo sei. Devi solo usare le tue doti di interprete. Tradurre la realtà, come se fosse una lingua che non conosco.”
L’abbracciò, chiedendosi cosa avrebbero fatto della soffitta dopo quel viaggio. Se sarebbe tornata a essere una soffitta e basta, un rifugio per quei fallimenti di cui solo il tempo avrebbe deciso l’entità.
Boston, agosto 1984
Afferrò la corda e fece scendere la scala.
Indossò le cuffie. Avrebbe potuto ascoltare la musica a tutto volume, ma preferiva continuare a usare il walkman che le aveva regalato Sam.
Springsteen iniziò a cantare e Helen salì in soffitta. Non aveva mai amato la sua voce, ma ora non riusciva a smettere di ascoltarla.
La prima volta che aveva sentito Dancing in the dark era stato all'aeroporto Logan. Il corpo di Sam era appena arrivato con un volo speciale, atterrato qualche ora dopo il suo.
Quando fu nella stanza cercò di resistere all'istinto di strappare le mappe dalla lavagna, tagliare i fili rossi. Lasciò tutto com’era.
Erano stati in Indonesia, nelle Filippine, a Jeju, in Vietnam. Helen aveva imparato a tradurre la realtà, ma quando Sam si era spento su quella barca a Vịnh Hạ Long la realtà era diventata un posto buio, il viaggio un’altra voce nell’elenco infinito delle cose incomplete. Il suo posto era in soffitta.
Mentre la voce di Springsteen cantava Man, I'm just tired and bored with myself, Hey there, baby, I could use just a little help, Helen sollevò il telo con cui Sam aveva coperto una parte del loro passato.
Non era pronta per fare bilanci. Si chiese se fosse almeno pronta per ricominciare a vivere dopo che per mesi era stata stanca e annoiata di se stessa e della propria incapacità di reagire.
Chiuse gli occhi. La presenza di Sam era più forte in quella stanza. Alle volte la notte le sembrava di sentirlo camminare lungo il corridoio, scendere le scale. Muoversi leggero nel buio.
Se fosse stato ancora lì le avrebbe chiesto Com’è possibile che una persona intelligente come te creda ai fantasmi?
Non sapeva se ci avesse mai creduto in passato. O se fosse stato soltanto un gioco tra loro. Come quello di trovare una causa per ogni effetto, eliminare ogni possibilità che le loro vite fossero influenzate dalla casualità.
Di certo ci credeva ora. Credeva ai fantasmi. E soprattutto credeva ai miracoli.
Prese dal mucchio la scatola con la scritta William. Era leggera. Sarebbe riuscita a portarla di sotto senza bisogno di aiuto.
Si toccò la pancia.
Immaginò il bambino muoversi, sospeso nell’oscurità, dentro di lei, come una scintilla a cui si sarebbe aggrappata per uscire dal buio.