La biografia
Mboti Gade Mugumbe (1931 - 1984) è stato un filosofo sudafricano seguace della filosofia Ubuntu e attivista anti-apartheid. Sempre considerato un personaggio di secondo piano, a confronto con nomi di spicco come Nelson Mandela o Desmond Tutu, la sua figura è stata notevolmente rivalutata ai giorni nostri, dopo il ritrovamento di molti suoi scritti (fra i quali spicca il suo Manifesto per una nuova idea di liberazione – Lettera aperta ai compagni di MK) che propugnano il progressivo allontanamento dalla lotta armata dell'Umkhonto we Sizwe (abbreviato in MK) e un ritorno a metodi di resistenza non violenti, nel solco di una umanità e una comunità e affinità di intenti profondamente insite nello spirito Ubuntu ("io sono perché noi siamo").
Nato a Johannsburg, in una famiglia della media borghesia nera, Mboti G. Mugumbe frequentò la St Peter’s School, una scuola anglicana alla cui direzione, nel 1949, venne designato Padre Trevor Huddleston. Fu proprio grazie a Padre Huddleston che Mboti conobbe Desmond Tutu ed entrò in contatto con il mondo del dissenso verso l'apartheid, regime istituito formalmente dai governanti bianchi l'anno precedente.
A causa delle misure sempre più restrittive nei confronti della popolazione nera, i suoi studi subirono un rallentamento, ma riuscì comunque a laurearsi in filosofia, nel 1960, presso l'Università di Fort Hare, una delle poche università che, nonostante il Bantu Education Act (1953), aveva mantenuto un alto standard qualitativo anche per gli studenti neri.
Nello stesso anno riallacciò i rapporti con Tutu, che, una volta nominato pastore anglicano, divenne cappellano di quella stessa università.
Nel 1962 si trasferì a Città del Capo e iniziò la sua carriera di insegnante, osteggiando apertamente le restrizioni basate sulla segregazione razziale del Bantu Education Act.
E aderì al neonato movimento Umkhonto we Sizwe (“Lancia della Nazione”, sorta di braccio armato dell'African National Congress), restando però sempre molto critico verso l'uso della violenza e della strategia di attentati portata avanti dal gruppo fondato nel dicembre 1961 da Nelson Mandela.
Dai documenti scolastici sembra che Mboti abbia continuato a insegnare fino al 1970, lasciando in buona parte degli studenti un vivido ricordo delle sue partecipate ed emozionanti lezioni sul pensiero Ubuntu.
Da allora non si hanno più sue notizie fino al 1976, quando compare nella lista degli organizzatori di un importante stayaway, una sorta di sciopero generale che ben si confaceva con le sue idee di azione non violenta. La manifestazione però non ebbe il successo sperato, a causa soprattutto delle profonde divisioni che esistevano in quegli anni sia all'interno delle varie organizzazioni sindacali dei lavoratori che fra le organizzazioni studentesche.
Si pensa che in tale occasione abbia rischiato l'arresto e sia questo il motivo degli ulteriori anni di silenzio, probabilmente trascorsi in esilio.
Il suo nome riappare nel giugno 1982 nei registri della prigione di Pollsmoor, dopo esser stato arrestato in seguito a una retata di attivisti all'indomani di un attentato: una bomba piazzata alla sede del Consiglio di Città del Capo che causò un morto e alcuni feriti. Attentato al quale però si dimostro completamente estraneo, tanto che venne scarcerato nel marzo 1983.
Durante i mesi di prigionia entrò quasi sicuramente in contatto con Nelson Mandela, che, nell'aprile 1982, era stato trasferito nello stesso carcere.
E da quel momento ancora una volta si perdono le sue tracce, per ritrovarle infine in uno scarno rapporto di polizia del 16 dicembre 1984 che ne riporta la causa di morte: una "caduta fatale in una via del centro nel tentativo di sfuggire alla cattura da parte delle forze dell'ordine".
Ma la "caduta fatale" avvenne di fronte a un antico palazzo, il cui proprietario ha deciso di intraprendere dei grossi lavori di ristrutturazione; ed è stato proprio durante i lavori – in particolare quelli che hanno riguardato la soffitta – che sono venuti alla luce i suoi ultimi scritti, rimasti nascosti per tutti questi anni in un'intercapedine fra la parete e l'unica finestra.
Grandi quaderni scritti a mano e decine di fogli compilati a macchina, pieni di spunti, annotazioni, pensieri, che testimoniano il grande coinvolgimento nella causa anti-apartheid e il pressante desiderio che i movimenti dissidenti riuscissero a lasciarsi alle spalle rivendicazioni e vendette dettate dalla violenza.
Fra le varie carte, sono state rinvenute anche numerose foto con vedute della Table Mountain ripresa dalla piccola finestra della soffitta nella quale si era relegato: immagini della montagna piatta che sovrasta Città del Capo e che era divenuta per Mboti Mugumbe un importante simbolo della sua filosofia, come si può leggere, qui di seguito, nella parte finale del suo Manifesto.
La storia non si fa con i "se", ma chiunque abbia potuto leggere le riflessioni e le esortazioni di Mugumbe è propenso a credere che con l'immediata divulgazione dei suoi scritti forse non sarebbe stato necessario attendere gli anni Novanta per decretare la fine di uno dei regimi più odiosi e odiati del XX Secolo.
La lettera
Manifesto per una nuova idea di liberazione – Lettera aperta ai compagni di MK
Città del Capo, 16 dicembre 1984
Fratelli miei, compagni dell’Umkhonto we Sizwe,
vi scrivo queste righe dal mio attuale rifugio, una minuscola soffitta dove in questi giorni si soffoca dal caldo ma che, credetemi, almeno è luminosa e proprio tutt’altra cosa rispetto alla grigia cella di Pollsmoor che mi ha ospitato per alcuni mesi (e il cui ricordo ancora mi riempie di terrore) e dove, ancora oggi, sta rinchiuso il nostro invictus Madiba.
Caldo e solitudine forzata, comunque, non pesano più di tanto.
Dalla mia finestra riesco a godermi la splendida vista della nostra particolarissima montagna piatta, con la sua chioma di nuvole; e poi ho il conforto importante delle mie letture e delle cure di alcuni cari amici che mi riforniscono regolarmente di cibo e di notizie.
Purtroppo, sono proprio le notizie che mi giungono alle orecchie a opprimermi e rattristarmi.
Notizie che suonano sempre più tragiche e che mi spingono a scrivervi, a rivolgere a voi tutti la mia preghiera: ripensiamo e modifichiamo le nostre strategie, finché siamo in tempo.
Strategie, fino a oggi, decisamente fallimentari, frutto avvelenato delle troppe stagioni di segregazionismo e discriminazione.
Le politiche razziste e repressive del governo hanno pesato molto su certe scelte e hanno completamente stravolto il nostro antico sentimento comunitario e pacifista. Un sentimento che anche noi, al pari dei nostri avversari, abbiamo cominciato a confondere con l’arrendevolezza di chi china il capo.
E al posto della pace abbiamo seminato guerra.
È una lunga scia di odio, sangue e desiderio di vendetta quella che da ormai ventitré anni segna la strada dell’MK. Proprio oggi ricorre l’anniversario della sua fondazione, un giorno scelto non a caso: proclamato festa nazionale dai nostri oppressori in ricordo della sporca vittoria dei Boeri sugli Zulu nel 1838, noi eleggemmo il 16 dicembre a simbolo di riscatto per la nostra “Lancia della Nazione”. Ma il riscatto è ormai diventato disprezzo. E il disprezzo non serve altro che a tracciare confini, segnare divisioni, portare lutti…
Ricordate le parole del nostro Manifesto?
Nella vita di ogni nazione arriva il momento in cui restano solo due scelte: sottomettersi o combattere. Quel momento è arrivato per il Sud Africa. Noi non ci sottometteremo e non abbiamo altra scelta se non ribattere colpo su colpo, con ogni mezzo in nostro potere, a difesa del nostro popolo, del nostro futuro, della nostra libertà.
Ebbene, mi chiedo e vi chiedo: quanto ha giovato al popolo, al suo futuro, alla sua libertà, l’infinita serie di attentati che si sono susseguiti negli anni?
Davanti agli occhi non ho altro che un lungo elenco di morti, di vittime sacrificali uccise sull’altare del nulla. Perché a nulla hanno portato le nostre azioni, se non a un numero troppo grande di caduti, espunti sempre e comunque nelle fila dei soliti poveri cristi, siano essi poliziotti o compagni di lotta.
Il potere che gestisce e regola l’opprimente politica di apartheid è ancora ben saldo nei suoi propositi e nei suoi palazzi, al riparo da qualunque bomba si riesca a scagliare, da qualunque arma si possa impugnare; e può permettersi anche di schernirci con le sue false e subdole “riforme democratiche”: buon’ultima la cosiddetta Nuova Costituzione, che, con il miraggio di allargare i diritti alle minoranze meticce e indiane, in realtà mira soltanto a seminare zizzania e ad aumentare i contrasti fra le varie popolazioni che vivono nel nostro Paese, secondo l’antica e sempre valida massima del divide et impera.
Mi conoscete e sapete che non è da me cercare di imporre il mio pensiero.
Vorrei solo riuscire a farvi riflettere sugli scarsi (forse meglio dire inesistenti) benefici che sono scaturiti dalla nostra condotta. E, in questa direzione, penso possa bastare un semplice raffronto, anche limitato a quest’ultimo anno, fra la nostra funesta politica di ripetuti attentati (quasi uno al mese) e la scelta pacifica e unificante degli stayaway, portata avanti dalle organizzazioni lavorative e studentesche fra settembre e novembre.
La differenza fra i due modi operandi è netta non credo richieda molte parole: da una parte morti, feriti e distruzione; dall’altra manifestazioni pacifiche che la polizia ha tentato senza successo di fermare, limitandosi ad arrestare alcuni capi sindacali e studenteschi, la maggior parte dei quali è stata rilasciata solo dopo poche ore o al massimo pochi giorni.
Manifestazioni pacifiche: che al loro centro hanno avuto e avranno i principi di comunità e di rispetto degli altri; e la finalità di far capire a ognuno che solo l’umanità, non solo come insieme degli uomini ma anche come qualità etica e morale, ha davvero importanza.
“Io sono perché noi siamo”.
È questo il succo della filosofia Ubuntu.
La filosofia che lo stesso Nelson ha sempre cercato di seguire e che è valsa, solo pochi mesi fa, anche il riconoscimento di un Premio Nobel per la Pace al nostro fratello Desmond Tutu per il suo ruolo di “figura unificante nella campagna per risolvere il problema dell'apartheid in Sudafrica”.
La filosofia i cui principi erano sempre stati il faro per la nostra condotta, per la nostra lotta non violenta sul sentiero dell’emancipazione e dell’uguaglianza.
La filosofia che dovremmo tutti abbracciare di nuovo, prima che il numero delle vittime diventi un peso insopportabile sulle nostre coscienze. Prima che diventiamo vittime noi stessi.
La filosofia della quale noi cittadini del Capo abbiamo sempre avuto il miglior simbolo davanti agli occhi e non ce ne siamo mai resi conto: la nostra Table Mountain.
Osservatela. Come ho fatto io dalla mia piccola soffitta in questi mesi di vita nascosta.
La sua sommità è estesa, piatta e non ha la forma di una piramide, come la maggior parte delle cime montuose. Non ha un vertice striminzito sul quale possono trovar posto a malapena un paio di scalatori sfiniti dalla fatica e dal gelo, mentre aiutanti e portatori, certamente altrettanto sfiniti, sono costretti a restare più in basso. Servi. Schiavi! No, nessun vertice lassù, nessun gradino sociale. La sua superficie è piana e può ospitare tutti – scalatori, aiutanti e portatori – e tutti allo stesso livello.
E così dovrà essere la nostra lotta: una scalata forse lunga, certamente difficile, faticosa e piena di insidie, ma che ci porterà verso un luogo agevole e pianeggiante, dove tutti saremo finalmente uguali.
Afrika Mayibuye!
Mboti Gade Mugumbe
La fine
Mboti spense la macchina da scrivere e, ancora seduto, stirò braccia e gambe inarcando la schiena. Estrasse il foglio dal rullo e, dopo un’ultima veloce rilettura, si alzò e si avviò verso la finestra per riporlo nella stretta intercapedine dove conservava tutti i suoi scritti.
I tempi sembravano maturi per la loro diffusione: gli stayaway di settembre, ottobre e novembre avevano visto una larghissima partecipazione e, questa volta, la coesione verso il comune obiettivo aveva prevalso sulle stupide divisioni fra le varie forze sociali e sindacali. E questo grazie anche ad alcuni interventi che, nonostante la sua vita nascosta, lui stesso era riuscito a fare durante le assemblee preparatorie.
Chiuse la cornice che copriva l’intercapedine e si fermò ancora un attimo a gustarsi la vista della montagna piatta, ormai divenuta, nel suo pensiero, simbolo della nuova strategia.
Colse con la coda dell’occhio il proprio riflesso nel vetro. I suoi lineamenti si stavano ridistendendo, mentre il terribile ricordo dei mesi di prigione andava pian piano scolorendosi. Solo il tremore delle mani tornava, troppo spesso, a ravvivare i dolori fisici e mentali che aveva dovuto sopportare.
Per questo viveva da recluso, in una soffitta.
Non avrebbe potuto reggere un’altra volta, nemmeno per un singolo giorno, l’incubo di soprusi e violenze che accadevano fra quelle mura, soprattutto fra i detenuti stessi, sotto lo sguardo disattento degli agenti. Ancora un chiaro esempio della stessa white strategy: fai sì che i poveri diavoli si scannino fra loro e vivrai tranquillo…
Dei rumori improvvisi sulle scale interruppero i suoi pensieri.
Passi pesanti si stavano avvicinando alla sua porta: forse avevano scoperto il suo nascondiglio?
Il dubbio divenne certezza quando una voce gridò “Aprite, polizia!”.
Lo spettro di una cella gli calò davanti agli occhi e si lanciò nel vuoto.