L’uomo nuovo
“Io cerco l’uomo nuovo, l’ha incontrato?È uscito proprio adesso, che peccato!”
13 giugno 1984
Arturo
Chissà cosa ha pensato Enrico quando le parole hanno iniziato, inesorabili, a sfuggirgli, quando tutto ha cominciato a confondersi. Chissà cosa ha pensato quando ha sentito il suo popolo farsi muto, quando, guardandolo, ha smesso di vederlo.
Mi piace pensare che oggi si stia godendo questa bellissima Roma. Milioni di uomini e donne la stanno colorando di rosso per lui. Sono venuti a salutarlo e a promettergli che nulla cambierà. Continueranno a lottare per un mondo nuovo dove si possa vivere felici perché uguali. Si promettono l’un con l’altra che proseguiranno la rivoluzione dolce del segretario.
Impugno la mia Asahi Pentax e la uso per difendermi dalla commozione. Il diaframma della macchina fotografica come separazione fra me e il dolore. Inquadrare gli occhi lucidi degli altri per non piangere io stesso.
Siamo uno spettacolo fantastico. Cosa mai potrebbe succedere al nostro Paese se c’è questa gente a difenderlo?
Eppure.
Eppure, avverto un definito e triste senso di fine. Come se oggi si concludesse un’epoca. Come se stessimo preparando un pacco bellissimo, per poi riporlo in soffitta.
Carmen
Non vedo più Arturo.
“Vado a fare un po’ di foto”, mi ha detto. Siamo in milioni oggi a Roma. Ritrovarsi sarà difficile.
Temo proprio che siano le prove generali. Fra poche settimane, lui parte.
Non gli ho detto ancora nulla e penso proprio che niente gli dirò. Non so se faccio bene. Quello di cui sono certa è che se lo facessi, lui non partirebbe. Direbbe pomposamente che deve fare il suo dovere: addio borsa Fulbright, addio dottorato in America. Magari entrerebbe in banca o farebbe un concorso alle poste. Insomma, si accontenterebbe.
Dirlo e decidere insieme non è possibile: in questo momento della vita, le scelte sono costosissime. Meglio che decida la più forte, quella in grado di gestire il rimorso. Lui annegherebbe nei rimpianti.
Arturo non torna. Non sarà la prima storia d’amore a finire in soffitta,
4 settembre 1984
Arturo
In America, è tutto cotto e mangiato velocemente. Arrivato da poco nel dipartimento di Filosofia della University of South California, fra poche settimane dovrò fare le valigie e partire: si va in Amazonia. Pensare che a me, romano del Testaccio, già la città degli angeli sembra un sacco esotica.
Carmen mi scrive sempre più di rado. Ieri avevamo un appuntamento telefonico e a casa sua non ha risposto nessuno. Mi dispiace? Non so.
Il mio inglese sta migliorando. Chiedo ad Ann, una collega del dottorato, come si dice, “mandare qualcosa in soffitta”. Col suo accento strascicato del Sud, risponde: “To get rid of somenthing”.
“Eh, no”, le rispondo io, “quello è buttare per sempre.”
Tento di spiegarle che noi in Italia mettiamo le cose in soffitta per riprenderle un giorno, forse. Quando saranno cambiate loro o saremo cambiati noi, chissà. Non sono cose buttate per sempre, sono cose lasciate a invecchiare, come il vino.
“Are all Italians like you? You sound very funny”.
Sorride, inclina leggermente la testa e la bacio.
Carmen
Lettere stanche che non mi piacciono e non mi aiutano, quelle di Arturo.
Ho preso la mia decisione. Per ora, non voglio sentirlo. Se gli parlassi, forse finirei per dirgli tutto e oramai è veramente troppo tardi.
Meglio pensare ad altro. Devo terminare la mia tesi di laurea, che, ironia della sorte, sembra la tela di Penelope. Sto lavorando sull’Antigone di Sofocle. Personaggio straordinario, affascinate e moderno, una donna che si scaglia contro l’autorità per quello in cui crede. Disvela, a costo della vita, le contraddizioni del potere, mettendo Creonte davanti alle sue colpe. Paga con la vita il suo coraggio, ma alla fine è lei che giganteggia vittoriosa. Scrivo e riscrivo le conclusioni, mai del tutto soddisfatta.
Se penso alla povertà culturale di coloro che vorrebbe mandare il latino e greco in soffitta, in nome di superficiale fiducia nell’approccio scientifico, mi viene una rabbia...
20 dicembre 1984
Arturo.
Passerò il Natale in Amazonia. Non c’è la neve, quella nemmeno a Roma, in verità. In compenso: piove, piove, piove.
La tribù dei Machiguenga vive nell’Amazzonia peruviana. Sebbene negli ultimi decenni, abbiano abbandonato il nomadismo, vivono principalmente di caccia e di frutti raccolti. Solo di recente si sono dedicati a piccole forme di agricoltura e hanno avviato una rete di scambi fra le varie famiglie che compongo la tribù. Parlano una lingua locale, l’Arawak, ma alcuni conoscono anche lo spagnolo. Per questo sono stato mandato qui: il mio spagnolo è migliore del mio inglese.
Ann chioserebbe che non ci vuole poi molto. Forse sono riuscito a instillarle un po’ del sarcasmo romano.
Siamo un gruppo di ricerca multidisciplinare composto da economisti, filosofi e antropologi, proveniente da diverse università americane. L’idea è valutare come si comportino persone che hanno poche o scarse relazioni di mercato, quando devono prendere decisioni di tipo economico. Gli economisti assumono che sia l’egoismo, ovvero la ricerca del massimo benessere materiale, a motivare le decisioni individuali. Questa forma di egoismo sarebbe naturale e quindi pre-culturale. Se questo fosse vero, dovremmo trovare prove di comportamento egoistico anche in piccole società pre-industriali e pre-contadine come quella dei Machiguenga.
Gli esperimenti sono tenuti quasi contemporaneamente in diverse parti del mondo, in realtà antropologiche simili ma differenti. Ann, per esempio, è presso gli Gnau in Nuova Guinea. Mi sa che è stata più fortunata di me, almeno per quanto riguarda il clima. Ha messo il bikini in valigia. Sono anche un po’ geloso.
Quando ho detto ai miei che sarei venuto qui, ai confini del mondo civilizzato, a mia madre è venuto un piccolo collasso. Fissata con la pulizia e l’igiene, si starà chiedendo cosa possa mai mangiare e bere e sarà preoccupatissima.
Mammina cara, tranquilla, giuro che starò attento. Detto fra noi, sarà difficile.
Carmen
Mi ha chiamato la mamma di Arturo. Mi ha chiesto se avessi sue notizie recenti. Comunicare dall’Amazonia è difficilissimo.
“Nessuna”, le ho detto. “L’ultima lettera l’ho ricevuta una quindicina di giorni fa”. Spedita da Lima da un suo collega che tornava negli Stati Uniti.
“Oh poverina, ne sai quanto me, allora.”
Qualcosa di più ne so, in verità. So di quella del Texas e so che non stiamo più insieme. Cosa che Elvira, evidentemente, ignora.
Non mi sembra elegante aggiornarla sulla nostra situazione sentimentale. Che almeno a questo pensi suo figlio.
E poi c’è un'altra cosa che Elvira non sa e non deve sapere.
25 dicembre 1984
Arturo
Pranzo di Natale in Amazonia. Ho accettato l’invito di Ar e della sua famiglia. Ar mi ha aiutato molto traducendo le istruzioni dei nostri esperimenti nella lingua Arawak. Ar è l’unico dei suoi che conosca lo spagnolo, ma con gli altri della sua famiglia non ho bisogno di tante parole. I machiguenga sono cordiali e ospitali, sorridono spesso e hanno una forte capacità comunicativa naturale. Io sono italiano, meglio ancora, romano. Uso tanto i gesti e la mimica facciale per farmi capire.
Sarà, ovviamente, meglio che mia madre non sappia mai quello che sto mangiando, dove lo mangi e come. Mammina tranquilla, a parte che quello che mangio non l’ho capito bene neanche io, quando ti racconterò tutto, vorrà dire che sono sopravvissuto.
Non ho più tanti rollini per la mia macchina fotografica e procurarsene altri è quasi impossibile. Ho fatto tante foto: sia a colori che in bianco e nero. Non vedo l’ora di tornare in America e svilupparli. Uno degli ultimi rollini lo dedico ai miei nuovi amici. il secondo genito di Ar ha appena sette anni e possiede la classica finestrella con gli incisivi centrali inferiori e superiori caduti, lo sguardo acuto e vivace e un sorriso che riscalda il cuore. Gli riservo qualche scatto; in particolare, una foto penso che sia venuta proprio bene. Lui sorrideva proprio mentre un rarissimo raggio di sole si faceva strada fra le nubi e illuminava di luce il suo viso e la foresta tutta.
I machiguenga hanno una strana usanza durante il pasto: sebbene non siano una società particolarmente patriarcale, le donne, giovani e adulte che siano, possono mangiare solo dopo che gli uomini abbiano finito. Ar mi spiega che essendo tradizionalmente un popolo di maschi cacciatori, occorreva essere sicuri che gli uomini avessero sempre le energie sufficienti per andare a caccia.
Mi sa che è solo un ulteriore forma di sessismo: tutto il mondo è paese, mi verrebbe da dire. Quando avrò figli, vorrei fossero femmine.
Carmen
Cosa è l’amore? Cosa vuol dire amare qualcuno quasi più di sé stesse? Oggi sono in vena di domande esistenziali complesse. D’altra parte, ho passato mesi e mesi sola con Antigone.
Forse ho amato troppo, non lo so. Per me, amare vuol anche dire anche lasciar andare. E sapere quando farlo. Si può amare e osservare da lontano, anche senza vedere.
Molti confondono amore e possesso: sei mia, sono tuo, si dicono. Qualche volta l’avrò detto anch’io. Dovremmo imparare a dire: “Sei tua, e ti amo per questo”.
Mi sento serena. Che dico! Sono proprio felice.
Che sia accaduto il giorno di Natale, poi, colora tutto di magico e di trascendente. Se fossi credente, direi che trattasi di miracolo.
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Roma 29 dicembre 2005
Alba arriva davanti alla porta, fa un bel respiro, come le aveva consigliato di fare suo padre, prima di battere i tiri liberi, quando ancora giocava a basket. Ne fa un altro ancora, poi finalmente suona alla porta.
Le apre un ragazzo sulla ventina che le sembra subito simpatico.
“Caspita. Fino a ieri non sapevo di avere una cugina e oggi scopro anche che è molto carina. Allora è il mio periodo fortunato!”
Anche Maurizio è un belloccio. Fisico atletico, sguardo furbo, sorriso pericoloso, direbbe Clara, la migliore amica di Alba.
Lei gli porge la mano benché la senta sudata, ma lui la ignora. La stringe invece in un caloroso abbraccio.
“Entra e raccontami questa storia. Per quello che mi hai detto al telefono sembra più un romanzo che una vicenda vera”.
Maurizio la fa accomodare in un’ampia terrazza chiusa con una vetrata che si affaccia su Piazza Testaccio. Il sole del primo pomeriggio la colora di una particolare luce mélange. Luminosa e aperta sul cuore di Roma: sembra una di quelle case che si vedono nei film.
“Lunedì scorso, il giorno di Natale, ho compiuto 21 anni”, parlare della sua storia con Maurizio, le sembra naturale. Forse è vero che il sangue è sangue. O magari Maurizio è solo un ragazzo particolarmente empatico e, come tale, un buon ascoltatore.
“I miei amatissimi genitori mi hanno detto che non ero la loro figlia naturale. Mi hanno adottato quando avevo pochi giorni di vita. Mi hanno anche consegnato una lettera di Carmen, la mia mamma biologica. È stato, come puoi immaginare, uno shock fortissimo. Tutto quello che avevi dato per scontato, ti accorgi che scontato non è. Quella che tu chiami mamma, sei sicura che ti ami, ma non è quella che ti ha partorito. Quella che ti ha partorito, non ti amava, o non ti amava abbastanza, altrimenti non ti avrebbe abbandonato.
Poi ho letto la lettera, bellissima - te la farò leggere - e piano piano ho capito, almeno mi sembra di averlo fatto. Lei mi ha fatto crescere con amore nel suo corpo per nove mesi, ma poi mi ha affidato a chi potesse serenamente crescermi. Lei in quel momento della sua vita non era in grado di farlo. Ha ragione lei, è stata una scelta d’ amore, amore vero, l’amore di chi ti lascia andare.”
Alba è oramai un fiume in piena: non le sembra vero di poter raccontare la storia a qualcuno della sua nuova famiglia. È figlia unica, i suoi non potevano concepire figli, e l’adozione era una scelta obbligata. Anche loro erano figli unici e Maurizio, se l’avesse accettata come tale, sarebbe stato il suo primo cugino.
Maurizio la ascolta con emozione. Anche lui è figlio unico. Ha dei cugini per parte di madre, vivono in Belgio e li frequenta poco. Alba, ha un bel viso, rotondo, incorniciato da lunghi capelli neri lisci. Gli ricorda vagamente la Biancaneve del cartone Disney. Con gli occhi molto più vivaci e di un azzurro intenso come quelli di suo padre e, dicono, di suo zio. A lui è toccato in eredità genetica un più banale color castano, sia per i capelli che per gli occhi.
Gli piace assai, è quasi un peccato che siano cugini.
Maurizio non si ricorda molto di zio Arturo: è morto che lui aveva pochi anni, investito da una moto, sotto casa, in uno dei rari periodi che trascorreva a Roma. Quasi ironico, per lui che era stato in giro per il mondo, soggiornando spesso in luoghi pericolosi. Ricorda invece con precisione il dolore di suo padre e dei nonni: dolore che sembrava non passare mai.
Racconta questo ad Alba. Insieme ad alcuni aneddoti sulla vita dello zio divenuti leggenda familiare.
È passata poco di più di un’ora, quando Maurizio si alza.
“Andiamo, ora, Alba. Per arrivare a Frascati ci vuole un po’, specialmente se troviamo traffico.”
Elvira li ha visti arrivare dal giardino, apre la porta, prima che bussino. Aldilà dell’uscio socchiuso, Alba vede una signora anziana, ancora magra ed elegante con un sorriso aperto e sincero ma gli occhi pieni di lacrime. Le vengono in mente quelle strane giornate di primavera quando c’è il sole, ma c’è anche la pioggia e il cielo è squarciato in due, come l’animo delle persone quando provano una felicità che fa loro paura.
“Lo sai? Speravo tanto che tu venissi. Ti aspettavo, da quando Carmen, mi ha raccontato tutto. La decisione spettava a te e ai tuoi genitori. Ma speravo di vederti con tutto il cuore.”
“Avevi dei genitori speciali: il mio Arturo se n’è andato non sapendo nulla di te. Carmen ha deciso di lasciarti andare. Non voleva usarti per legare Arturo a sé, né voleva crescerti senza padre.”
“Quando mi ha contattato per raccontarmi tutta la storia, non stava già bene. Io all’inizio mi sono arrabbiata tanto. Per più di un mese non ho voluto vederla. Mi era sembrato un atto di egoismo. Sapere che esistevi, avrebbe in parte compensato il dolore enorme per la perdita di Arturo. Poi lentamente ho capito. Mio marito, tuo nonno, mi ha fatto aprire gli occhi. Mi dispiace che non sia qui: non ha fatto in tempo. Gli saresti piaciuta tanto.
Sei nata da due persone speciali, Alba. Speciali e sfortunate.
Sono stato molto vicina a tua mamma nei suoi ultimi mesi di vita. Passavamo buona parte del tempo insieme, facendo un gioco che ci piaceva tanto: inventavamo la storia della tua vita. Come eri, come vivevi, cosa pensavi. Ti immaginavamo bellissima, come peraltro sei veramente. Quale parte del viso avessi preso da lei e quale da Arturo. Tu hai gli occhi di mio figlio. Cosa studiavi, non avevamo dubbi lo facessi. Quali erano i tuoi sogni, come erano i tuoi genitori adottivi e così via. Abbiamo creato decine e decine di vite parallele della figlia di Arturo, così ti chiamavamo. Se n’è andata parlando di te.”
Alba non riesce più a trattenere le lacrime.
Sono sedute in salotto, quei salotti di una volta dall’aria vagamente liberty, Alba al divano, Elvira di fronte sulla poltrona. La nonna si alza, si siede accanto a lei e l’avvolge in una stretta dolce e affettuosa. Un abbraccio che riscalda e consola, come una borsa dell’acqua calda in una notte troppo fredda.
Passa in silenzio tempo pesante: secondi densi come anni.
Elvira si alza e le tende la mano.
“Ora vieni con me, andiamo in soffitta. Ci sono ancora tutte le cose di tuo padre.”
Mentre le vede salire su per le scale tenendosi per mano, a Maurizio viene in mente una delle foto più belle scattate da Arturo. L’aveva presentata a un concorso poco prima di morire vincendo un premio. Il bambino dell’Amazonia con il sorriso contagioso.
“Io cerco l’uomo nuovo, l’ha incontrato?
È uscito proprio adesso, che peccato!”
E se l’uomo nuovo fosse donna?