L'aria era ferma, appiccicosa, caldissima.
Da qualche minuto l'appartamento al piano terra del condominio Saturno era stato colpito direttamente dal sole.
La tapparella del monolocale, non del tutto abbassata, lasciava filtrare solo qualche vivace raggio di luce che si proiettava in linee parzialmente deformi e in misteriose forme geometriche sulle pareti disadorne della stanza. Nella penombra un tavolo, un vaso di cristallo, una sedia e un vecchio si consumavano nella solitudine. Aspettavano qualcosa o qualcuno che non sarebbe venuto mai e, in quell'attesa immobile, la divisione tra spirito e materia era sembrata incrinarsi e cadere, come una delle più false illusioni umane. Non era chiaro se gli oggetti si fossero elevati ai viventi grazie a quella innaturale calma sospesa o, viceversa, se i viventi fossero scaduti al grado di oggetti a causa di una loro progressiva e malata staticità.
Il tavolo desiderava essere apparecchiato per pranzo, assistere a lunghe partite a scopa, essere ancora d'appoggio per libri, giornali e riviste. Il vaso voleva dell'acqua e dei fiori, la sedia un corpo da ospitare e sostenere e il vecchio un'alternativa alla vita o alla morte, non sapeva decidersi. Il meno sicuro era il vecchio, sì non c'erano dubbi, era proprio lui quello meno convinto e con i desideri più schizofrenici. Ma era un' instabilità che andava sanata. Così Ernesto, questo il nome del vecchio, lasciò l'appartamento e, infiacchito e stordito dal caldo, si avviò con fatica verso il bar del quartiere limitrofo.
Il Top Life si presentava a quell'ora infausta in tutta la sua sgangherata desolazione. Le macchinette dei giochi, con i loro colori psichedelici, le loro luci e i loro suoni elettronici erano il cuore pulsante del locale e radunavano una folla eterogenea di prostitute, pensionati, piccoli malavitosi e fannulloni di vario genere. Ernesto entrò senza essere visto e, senza scambiare una parola neanche con il barista, ritirò al banco la sua "medicina". Le pale sul soffitto del bar, che mulinavano aria non fresca, furono le uniche a salutarlo. Nessun altro sembrava vederlo. Si rintanò in fondo, dietro al vecchio biliardo, abbracciando la medicina: un fiaschetto di vino economico. "Finalmente un amico!" pensò, mentre, con l'aiuto prezioso di un fedele cavatappi, aprì l'agognata bottiglia. La dissoluzione delle ore del pomeriggio avrebbe seguito, come ogni giorno, l'antica regola: "al primo bicchiere l'uomo beve il vino, al secondo bicchiere il vino beve il vino, al terzo bicchiere il vino beve l'uomo." Naturalmente il numero dei bicchieri reali raggiunto superava ampiamente quello simbolico del proverbio. Per essere più precisi, si sarebbe potuto stabilire un'equazione tra bicchieri e bottiglie da mezzo litro.
Ora Ernesto si trovava al terzo stadio e si sentiva vuoto, come le bottiglie che aveva davanti, ma la sua sete non si estingueva. Non si poteva estinguere. Così si alzò dalla sedia sulla quale era stato seduto in silenzio tutto il pomeriggio e, barcollando, si avvicinò al bancone di legno finto del bar. "Prima i soldi vecchio... poi...se ci sono tutti...il vino." Il giovane barista obeso si rivolse a lui come se stesse parlando con un cane e lo guardò di traverso, con un' aria di insensibile disapprovazione. Ernesto non se ne curò e, senza battere ciglio, infilò la mano nell'unica tasca non bucata dei pantaloni, nel tentativo di stanare le ultime monete rimaste. Quando si accorse che mancavano un euro e 60 centesimi, si sentì quasi soffocare, chinò il capo e rimase immobile per un minuto, poi, riprese a camminare barcollando e si avviò verso l'uscita del Top Life. "Ah ah ah...le hai finite per oggi vecchio, eh!" Ridacchiò il giovane barista soddisfatto, mentre ritirava i bicchieri sporchi nel lavello. Ernesto lo ignorò e si avviò, col suo passo da cane randagio che le aveva appena prese, verso casa. Durante il tragitto non fece altro che pensare ai due giorni senza "medicina" che lo separavano dall'arrivo della pensione. Due giorni erano tanti, troppi per la sua sete. Come avrebbe fatto? A chi avrebbe potuto chiedere un prestito? Si fermò a vomitare all'incrocio tra via Neruda e via Hemingway, come se fosse il gesto più naturale e ordinario del mondo. Ormai faceva parte della sua fisiologia. Raggiunse i giardinetti di piazzale Smirnoff, si sciacquò con l'acqua fresca di un dragone sotto gli occhi divertiti di due brufolosi giovinastri e, con un forte mal di testa, tagliò verso viale Nabokov, dritto verso il Saturno. Proprio sotto il palo della fermata del 27 vide la Wanda con la sua parrucca riccia e rossa che "passeggiava" ancheggiando su dei trampoli e ciondolava una minuscola borsetta di paillettes. Ernesto la salutò con mille salamelecchi e, con la tortuosità del più scaltro dei ruffiani, le chiese i soldi per la "medicina". La Wanda sorrise con la sua bocca rifatta, infilò una mano dentro a quei suoi seni giunonici che nascondevano un cuore ancora più grande, e tirò fuori un biglietto da venti. Ernesto lo prese con un trasporto esagerato e commosso e, fissando con riconoscenza gli occhi affogati nel rimmel della Wanda, le disse la frase più romantica che gli venne in mente: "Sei la lucciola più bella e luminosa del viale!" Ora stava meglio, ce l'aveva fatta. La sua dannazione era salva.
Ultima modifica di Andrea Bernardi il Lun Lug 03, 2023 9:07 pm - modificato 2 volte.