Qualche mese fa, beh ormai quasi due anni fa facendo un rapido calcolo, ero andata a camminare portandomi appresso la stampata di un racconto che faticavo a chiudere. Volevo rileggerlo con calma, non davanti al computer, ma come fossi una lettrice qualunque, per sentirne il ritmo, per capire se quello che volevo dire passasse.
Dopo averci tanto lavorato, ora mi sembrava scontato e banale.
Avevo raggiunto il posto dove avevo ambientato il racconto, un posto tranquillo, con una villa antica chiusa da tempo, in mezzo a un boschetto. All’inizio del sentiero di accesso niente cancello ma solo un bel cartello di “divieto di accesso”, che ignorai bellamente.
Così come restarono ignorate quelle pagine: mi trovai invece a riflettere su “Rooms”, al significato che può avere un percorso creativo così dilatato nel tempo, dove ogni tappa presenta tante piccole e grandi difficoltà, sfide ma anche opportunità per lavorare su qualcosa che staziona da tempo nei nostri cassetti segreti.
Su come un percorso simile lo si possa vedere replicato nella nostra vita.
Sul retro del racconto mi ero annotata questi pensieri, un po’ confusi forse, a tratti declinati in prima persona, a tratti come se qualcuno parlasse con me di me.
Li ho ripresi, con l’intendo di risistemarli un po’, ma alla fine ho cercato solo gli inevitabili refusi e poco più.
Mi sono trovata a riflettere sul fatto che nella vita abbiamo tante stanze da abitare, tante porte da aprire e chiudere, ma non ne conosciamo l’ordine: ogni porta introduce in una stanza che non conosciamo, non sapremo cosa contiene fino a quel momento.
L’abiteremo per un po’, faremo esperienze, lasceremo qualcosa e passeremo oltre. Non ne conosciamo l’ordine ma in cuor nostro sappiamo di doverle visitare tutte e forse quelle che lasciamo indietro prima o poi ci verranno a cercare, anche se l’età non sarebbe più quella giusta.
E può capitare di dover recuperare stanze dove c’è ancora posto – anche se hai i capelli bianchi – per “invaghirti” di un attore che, bontà sua, riesce a interpretare la tua idea di protezione, che ha lo sguardo che vorresti incrociare, da cui essere letta.
Nella stessa stanza ti piace sentirsi avvolgere dalle musiche di un disco comprato perché la copertina era curiosa, per poi scoprire che il rock coniugato con la musica sinfonica è poesia; che ti piaceva ascoltarla a volume alto quando, nell’andare e tornare dal lavoro, eri in coda, code che sfinivano a mezzo metro alla volta e oggi ti piace ancora più di allora, perché questa musica potente, importante, ti fa vibrare, ti regala emozioni che ti fanno scordare la tua data di nascita.
È una stanza dove trovi il coraggio di volerti sentire “importante” o esserci solo per il tempo che un altro qualcuno impiegherà a leggere un tuo racconto, che hai tenuto ben riposto perché non ti sentivi pronta a un giudizio che viene da uno che può essere tuo figlio o anche tuo nipote, ma adesso non te ne frega niente. Lo butti nella mischia e se lo criticano, vedi difetti che puoi correggere, se piace ti commuovi e ti senti bene. Per un quarto d’ora hai fatto parte della vita di qualcuno che, tra le tue righe, trova qualcosa che neanche tu hai saputo di aver lasciato trasparire.
Faccio mia questa frase, che Girolamo Laquaniti, un poliziotto scrittore, ha inserito nella prefazione del suo primo libro, e in cui mi ritrovo.
"Quindi sappiatelo, e consideratemi pure presuntuoso, ma io non scrivo per voi. Scrivo per me e, al limite, per un'altra persona che può capire. Spero di conoscerla un giorno…"
È una stanza dove vuoi sentirti viva, perché il momento che stai attraversando ti sta annientando, non vuoi sentirti la tua età, quella delle convenzioni, degli stereotipi, ma non vuoi avere nessuna età. Semplicemente vuoi vivere il momento in cui lo sguardo di quell’attore, con una bellissima musica di sottofondo, rimette in moto emozioni dimenticate, dove lasciarti andare al descrivere, o al tentare di descrivere, come ti senti. Vuoi sentirti.
È la stanza in cui cerchi di allontanare l’idea di avere le ali tarpate, forse anche per colpa tua.
È la stanza dove riesci a tenere a bada la mancanza di persone amate, lontane e silenti, che in altre stanze ti toglie il respiro.
È la stanza dove vorrei fosse sempre e solo tarda sera e notte, perché è il momento in cui riesco a scrivere: da sola, posso anche parlare a mezza voce, parlarmi, raccontarmi come sto.
Frugare nei ricordi alla ricerca di bei momenti che seppelliscano quelli che mi fanno male.
È la stanza in cui mi dico chissenefrega, tu sei anche questa.
È la stanza dove il mio compagno di vita mi tiene ancora per mano, come sempre, e scherza, mi prende in giro, mi osserva così attentamente da farmi sentire trasparente, ascolta un po’ della mia musica, legge qualcosa che ho scritto.
Le altre stanze sono ancora lì, devono essere comunque vissute, ogni giorno in un modo un po’ diverso, ma prima di essere chiuse dovranno prendersi ancora qualcosa di me e darmi un piccolo o grande bagaglio per la stanza successiva.