«E rite ’na ’nzegne, ca tiè sempre la grufe!»
Il mio cuore perde un battito, ma non ho bisogno di voltarmi per sapere chi mi sta parlando.
«Frangische! Gnà stì?» Lo stringo forte.
Ci sediamo sulla battigia come facevamo da ragazzi, con la prima brezza dell’alba a scompigliarci i capelli e lo sguardo perso nelle sfumature rosate del giorno nascente. La sottile linea dell’orizzonte, finalmente libera dall’oscurità notturna, rivela via via l’azzurro del mare che scintilla sotto i primi raggi del sole. Dopo alcuni giorni di tempesta, la distesa d’acqua sembrerebbe immobile se non fosse per le carezze intermittenti della risacca sui nostri piedi.
Ci guardiamo intorno, la piccola spiaggia è ancora deserta. Un cenno complice e, all’unisono, gridiamo: «Ritorna! Ritorna!»
Una volta ci credevamo davvero che il mare potesse far tornare i nostri padri e ci rivolgevamo a lui come la principessa della famosa leggenda. In fondo, non abbiamo mai smesso di sperarlo e così, ogni anno, in ricordo di quel maledetto giorno, ci troviamo sulla spiaggia per chiedergli di restituirci i nostri cari.
“Non dovete uscire in mare domani. È giorno punta di stella.”
“Rosa, sono tutte dicerie. Gioanìna gnà stà bielle grasse!”
Papà si preoccupava sempre che mangiassi poco, diceva che non avrei avuto figli sani se rimanevo così magra.
Mia madre, invece, ci credeva tanto alle superstizioni. In certi giorni era proibito pescare perché portava disgrazia, ma troppi erano i pescatori a contendersi un fazzoletto di mare e mio padre a certe usanze preferiva non dare peso. “Meno pescherecci in acqua, più pesce nelle reti”, diceva.
Dopo qualche ora dalla partenza, il cielo si tinse di un oscuro presagio.
Le nostre madri si precipitarono a svuotare le riserve di sale, ne gettarono ampie manciate verso le nuvole recitando come un mantra una preghiera antica: “Santa Barbara benedetta nun fa calà né furmene né saetta, se proprio a da calà, falla calà in una valle oscura dove non ci sta nisciuna creatura.”
Nuvole gonfie di pioggia si addensarono sulla costa, raffiche di vento agitarono le acque; in breve tempo, ondate potenti s’infransero sugli scogli spazzando via tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Così, nel giorno di San Giovanni, si compì il destino dei nostri padri.
Neppure un frammento del peschereccio tornò mai a riva. Mia madre, da quel momento, smise di vivere, come se anche la sua anima fosse stata risucchiata dai flutti.
Per mantenere la sua mamma e suoi fratelli, Francesco andò a lavorare al trabocco di zi’ Masino e nessuno di noi ebbe più tempo di farsi una famiglia.
Sospiro. Francesco si è alzato, deve tornare al lavoro. Io decido di restare ancora un po’ a passeggiare sulla riva. Assorta nei ricordi, non mi accorgo dell’ostacolo che m’impedisce di proseguire il cammino; impossibile mantenere l’equilibrio, riesco solo a evitare di finire col volto sulla sabbia.
Coi vestiti zuppi e le gambe doloranti sto sorridendo tra me e me per la mia sbadataggine quando lo noto: sono inciampata in un pezzo di legno restituito dal mare.
È fradicio e consumato dal lungo viaggio, ma si notano ancora dei rimasugli di colore e qualche lettera sbiadita: “…SA”. Una scossa mi attraversa il corpo dalla punta dell’alluce fino alla testa. Dipinta di turchese, il colore dei miei occhi, e di rosso come l’amore per la propria famiglia, la barca di mio padre si chiamava ROSA.
Non è il sale dell’acqua di mare a farmi bruciare gli occhi e annebbiare la vista. Stringo quel legno al petto e lo riempio di baci. Poi lo metto nella borsa e, incurante del dolore che mi affligge a ogni passo, mi affretto a rientrare a casa.
Una volta dentro, appoggio la schiena alla porta, mi lascio scivolare piano sul pavimento scossa da un pianto liberatorio. Un flebile lamento proviene dalla camera. Tiro su col naso, mi asciugo gli occhi con la manica del vestito e mi avvio nella stanza. Apro gli scuri, scosto le tendine per far entrare un po’ di luce.
«Mamma, sono qui. Stai calma» le dico sottovoce accarezzandole la fronte.
Lei mi rivolge uno sguardo assente e si rimette a mugolare.
Le parlo e, come se potesse comprendermi, le confido tutto.
«Stamani ho incontrato Francesco, ricordi?»
Lei continua a fissare il soffitto.
«Si è fatto vecchio pure lui, ma è sempre bello. E forte. Ha smesso di fare il pescatore, sai? Il trabocco di zi’ Masino se l’è comprato uno che vuol farci un ristorante.»
Il ritmo del respiro, si regolarizza. Succede sempre quando le racconto del mondo là fuori. Chissà se davvero capisce quello che le dico, me lo chiedo sempre.
«No, mamma, non si è sposato» proseguo il mio assurdo dialogo a una voce. Adesso lui racconta le storie dei trabocchi ai turisti. Lo hanno persino intervistato alla televisione...»
Mamma pare tranquilla, vado a cambiarmi e asciugarmi.
Prendo il pezzo di legno e lo esamino con maggiore attenzione alla luce del giorno. Una ridda di ricordi si affastella nella mia mente: avevo aiutato papà a dipingere il nome della mamma sullo scafo, ma la “A” non era venuta bene, era un po’ più grande delle altre. Ora le lettere sono così rovinate che appena si riescono a leggere, non credo di sbagliarmi, ma avrei bisogno di una conferma.
«Mamma…» sollevo la coperta, tiro fuori il braccio e le prendo la mano. È fragile e leggera come un uccellino.
«Stamattina il mare ha risposto alle nostre preghiere. Sai che giorno è oggi? È San Giovanni.»
Lei gira lentamente la testa verso di me. Le mostro il legno.
«Guarda che ho trovato! Lo riconosci?»
Un barlume di lucidità le attraversa lo sguardo, la sua reazione mi coglie impreparata.
«Patrete affucò…» mi risponde mentre una lacrima le riga il viso. Mi chino su di lei e mi sfiora la guancia con un’accenno di carezza.
Cinquant’anni sono trascorsi da quando non ho più sentito la sua voce; è un raggio di speranza, un piccolo miracolo. Da qualche parte, in quel cervello martoriato dalla sofferenza, mamma Rosa c’è ancora. Io ci ho sempre creduto.
«Ce lo ha mandato papà, di sicuro. Dice che devi stare bene, mamma. Lui è in pace.»
L’abbraccio forte prima di vederla ripiombare nel solito torpore.
Torno sulla spiaggia, c’è un capannello di persone giù al trabocco. Affretto il passo. Attraverso la lunga passerella di legno e raggiungo la “tavolata”, dove c’è il casotto di legno che un tempo conteneva gli attrezzi per la pesca. Dalla tavolata si allargano a ventaglio sul mare quattro lunghi pali ai quali è appesa una rete. Francesco, coi calzoni a mezza gamba, la camicia con le maniche arrotolate fino al gomito e il cappello, veste i panni del tipico traboccante:
«Questo è stato un trabocco che ha campato tante famiglie. Prima si lavorava pe’ campà, pe’ se sfamà. Con lu pesce venevano i contadini da l’entroterra e facevano a cagna merce. I pescatori glie devano lu pesce e loro glie devano la farina, lu vine, robbe da mangià…»
La gente lo ascolta a bocca aperta come se lui narrasse una fiaba.
Gli faccio un piccolo cenno con la mano. Sgrana gli occhi preoccupato, mi fa un mezzo sorriso e accelera il racconto.
Appena il gruppo di turisti si allontana, mi viene incontro.
«Gio’, che succede?»
Apro la borsa e tiro fuori il pezzo di legno. Mi tremano le mani quando glielo porgo.
Francesco l’osserva con attenzione, lo sguardo rimbalza veloce da quell’oggetto a me. Deglutisce a vuoto. Cerca di mantenere un contegno, ma non posso fare a meno di notare i suoi occhi lucidi.
«Dove l’hai trovato?»
«Era sulla riva, ci sono inciampata mentre camminavo… stamani, dopo che te ne sei andato.»
Non servono parole, ci stringiamo forte e, per la prima volta, ci scambiamo un bacio. D’amore vero, forte, resiliente alle tempeste proprio come un trabocco: sembra una struttura fragile, provvisoria, ma tutto è studiato per resistere alla furia del mare.
Il mare ha fatto tornare a casa un pezzo delle nostre vite, finalmente avremo una tomba su cui piangere i nostri cari. Lo metteremo sul cassettone sotto all’immagine di San Tommaso e non gli faremo mai mancare una candela accesa.
Abbiamo affrontato molte tempeste e, anche se non ci restano molti anni da vivere insieme, la nostra rete, da oggi in poi, sarà colma di pesci. Io ci credo.