Fra Gerolamo annodò con molta cura le corregge del gatto a nove code e fissò tre uncini di ferro a ogni coda. Intanto pensava a quanto il male avesse permeato il mondo e quanta penitenza sarebbe stata necessaria per debellarlo. Tre uncini per ogni coda, in totale ventisette uncini: il tre, la sintesi perfetta, elevata alla terza potenza. Rabbrividì pensando alle pene che avrebbe subito il suppliziato, ma sorrise al pensiero che ogni fitta di dolore gli avrebbe rimesso un peccato. Una sola frustata avrebbe inferto nove staffilate e ventisette arpionate alle carni del penitente. Ventisette peccati rimessi in un colpo solo. Calcolò quante sferzate sarebbero state necessarie per superare il demonio: venticinque frustate avrebbero inferto seicentosettantacinque uncinate, nove in più del numero di Satana, il seicentosessantasei. Nove, il numero triplamente perfetto.
Poi si preparò: si denudò e s’inginocchiò dinanzi al Crocefisso. S’inebriò nel contemplare le cinque piaghe del Signore e anelò di patire la stessa sofferenza. La sua mano tremava quando impugnò il gatto a nove code, ma s’immobilizzò in una saldissima presa appena invocò: «Dio, dammi la forza».
La prima sferzata non fu particolarmente dolorosa, non è facile colpire con forza la propria stessa schiena, ma gli uncini si conficcarono nella carne e la strapparono quando la sferza fu ritratta. Il dolore era sufficientemente intenso, il suo peccato sarebbe stato senz’altro rimesso al venticinquesimo colpo. Arrivato al settimo, dovette fare una sosta. «Mio Dio» pregò «la carne è così debole che non riesco ad andare avanti?» Ed ebbe la visione dell’inquisita, nuda, appesa alla corda per le braccia dietro la schiena. Si agitava scompostamente, urlava e chiedeva pietà. «Sono quindi come lei, la peccatrice eretica, strega, debole di fronte al dolore?» Si frustò furiosamente per altre dieci volte, urlando come la suppliziata, con la visione di quel corpo rotondo e morbido, di quei seni danzanti ad ogni strattone.
«Non bisogna dimenticare il peccato, bisogna confessarlo» urlò.
Lo straccio che avevano messo all’inguine della suppliziata per nasconderne le intimità era scivolato giù e ora il suo sesso era completamente esposto. Fra Girolamo ne ricordava bene tutti i particolari, il pelo folto che lo nascondeva, poi l’apparizione improvvisa, in mezzo a quella selva nera, del rosa delle labbra a seguito di uno scomposto allargamento delle gambe. S’inflisse furiosamente le ultime otto frustate piangendo e chiedendo pietà al Signore per l’orrendo peccato commesso: una polluzione spontanea.
Con un urlo si inflisse con tutta la forza possibile il venticinquesimo colpo e si accorse, con orrore, di avere avuto, anche adesso, erezione e polluzione.
«Sono il Male, non avrò redenzione».
Crollò al suolo. La setticemia fece il resto.
Poi si preparò: si denudò e s’inginocchiò dinanzi al Crocefisso. S’inebriò nel contemplare le cinque piaghe del Signore e anelò di patire la stessa sofferenza. La sua mano tremava quando impugnò il gatto a nove code, ma s’immobilizzò in una saldissima presa appena invocò: «Dio, dammi la forza».
La prima sferzata non fu particolarmente dolorosa, non è facile colpire con forza la propria stessa schiena, ma gli uncini si conficcarono nella carne e la strapparono quando la sferza fu ritratta. Il dolore era sufficientemente intenso, il suo peccato sarebbe stato senz’altro rimesso al venticinquesimo colpo. Arrivato al settimo, dovette fare una sosta. «Mio Dio» pregò «la carne è così debole che non riesco ad andare avanti?» Ed ebbe la visione dell’inquisita, nuda, appesa alla corda per le braccia dietro la schiena. Si agitava scompostamente, urlava e chiedeva pietà. «Sono quindi come lei, la peccatrice eretica, strega, debole di fronte al dolore?» Si frustò furiosamente per altre dieci volte, urlando come la suppliziata, con la visione di quel corpo rotondo e morbido, di quei seni danzanti ad ogni strattone.
«Non bisogna dimenticare il peccato, bisogna confessarlo» urlò.
Lo straccio che avevano messo all’inguine della suppliziata per nasconderne le intimità era scivolato giù e ora il suo sesso era completamente esposto. Fra Girolamo ne ricordava bene tutti i particolari, il pelo folto che lo nascondeva, poi l’apparizione improvvisa, in mezzo a quella selva nera, del rosa delle labbra a seguito di uno scomposto allargamento delle gambe. S’inflisse furiosamente le ultime otto frustate piangendo e chiedendo pietà al Signore per l’orrendo peccato commesso: una polluzione spontanea.
Con un urlo si inflisse con tutta la forza possibile il venticinquesimo colpo e si accorse, con orrore, di avere avuto, anche adesso, erezione e polluzione.
«Sono il Male, non avrò redenzione».
Crollò al suolo. La setticemia fece il resto.