Ray aveva le mani fredde.
La giornata sarebbe stata mite e soleggiata, ma lui le sentiva ugualmente intorpidite. Ci soffiò sopra. Le sfregò lungo i fianchi. Ogni tentativo risultò vano: quella mattina non avrebbe disegnato.
Andò in direzione dell’acqua e si lasciò abbagliare dal riflesso della luce. Con la vista annebbiata e le mani fuori uso si concentrò sugli altri sensi.
Inspirò tutta l’aria che i polmoni riuscivano a contenere e l’impulso che arrivò dal naso al cervello gli diceva una sola cosa: era in arrivo l’autunno.
La sua stagione preferita.
Quella in cui si preparava all’inverno e, come la natura, si sarebbe spogliato di ogni orpello, riducendo tutto all’essenziale. Niente più viaggi, niente più piante, niente più scalate: nulla. Solo le matite, i fogli e gli appunti.
Quell'anno avrebbe segnato il punto più basso della sua carriera di illustratore botanico, poiché sarebbe riuscito a completare solo un libro, mentre in media ne terminava tre.
Ancora immerso in quel particolare stato, udì degli strani sbuffi provenire dalla boscaglia. Non volse lo sguardo, ma riuscì a intravedere l'animale solo con la vista periferica: era imponente. Ma, nonostante la tensione palpabile, non vi era alcun segno di minaccia. Con coraggio, Ray si voltò. Un cervo lo fissava con occhi liquidi. Poi abbassò la testa, mostrando i suoi maestosi palchi, come se volesse presentarsi o inviare un segnale d’allerta.
Non durò che pochi secondi, perché l’animale si girò verso il lago e iniziò a bere.
Ray era ancora rivolto nella stessa direzione, anche dopo che il cervo se ne era andato. Il peso del suo corpo, irrigidito dall'immobilità, lo terrorizzò. Quell'attimo intimo e intenso vissuto con il cervo sembrava essere stato cancellato, e ora sentiva le lacrime sgorgare dagli occhi senza un motivo apparente. Istintivamente, cercò il riflesso nell’acqua e, quando il suo sguardo fu catturato da una macchia gialla, qualcosa dentro di lui tornò al suo posto: Pando era ancora lì.
Da lontano sembrava solo una foresta ordinaria, ma in realtà era l'essere vivente più grande al mondo, un insieme di pioppi tremuli americani che tutti ormai chiamavano Pando. Ogni albero, geneticamente identico al vicino, era connesso da un'unica rete di radici.
Grazie al suo lavoro, Ray aveva avuto il privilegio di immergersi tra quegli alberi per gran parte dell’estate, dedicandosi allo studio meticoloso di ogni dettaglio.
Accarezzò la liscia corteccia di un colore bianco-argenteo, che creava un contrasto affascinante con il verde brillante delle foglie. Esaminò attentamente i rami, slanciati e flessuosi, per comprendere come si adattassero al movimento del vento. Trascorse ore con gli occhi chiusi, ascoltando il suono delle foglie a forma di cuore che tremolavano al vento.
Così, in poche settimane, quei pioppi avevano trasmesso a Ray un’energia vitale tangibile che lui percepì intensamente. Si era sentito parte di qualcosa di più grande, eppure, al tempo stesso, isolato e solo.
Guardare Pando lo acquietò, e vide le prime pennellate d’autunno sulle fronde degli alberi che presto si sarebbero trasformati in una tavolozza di colori dorati.
Qualcosa stava per cambiare.
Nelle giornate seguenti, Ray continuò a tornare in riva al lago. L'ultima illustrazione, la più complessa, era ciò che gli mancava.
Avrebbe dovuto rappresentare Pando nella sua duplice essenza: la foresta maestosa sopra il suolo e sotto, nel terreno, l’intreccio della radice che li univa tutti.
C'era qualcosa di creativo in quella rappresentazione che Ray non amava. Era preciso e realista, non voleva inventare nulla; sentiva che rubare alla realtà per donare alla fantasia fosse un tradimento. Eppure, il concetto di Pando era reale e non poter visualizzare la sua vera forma lo turbava. Avrebbe preferito strappare Pando dalla terra e raffigurare ogni singolo rizoma e l’intricato intreccio della radice, piuttosto che dover immaginare tali connessioni.
Questo era il motivo per cui impiegava più tempo del previsto.
Inoltre, non sopportava di stare così lontano dal soggetto. La forza vitale di Pando era diventata una droga per lui.
Continuava a sprecare fogli e matite. Le giornate si facevano sempre più fredde e, se non si fosse affrettato, sarebbe stato sempre più difficile completare l'opera.
Il cervo era l’unica ragione che lo spingeva a non cambiare postazione o lavorare al chiuso.
Si recava al lago ogni giorno, e questo aveva creato un legame viscerale tra di loro. Alcune volte si era avvicinato così tanto che Ray era riuscito a sentire il suo forte odore muschiato. In quei momenti, aveva impiegato tutta la sua forza di volontà per non cedere all'istinto di avventarsi sul corpo dell'animale e aspirare quell'odore così intenso.
Era la fine di ottobre quando successe qualcosa di insolito.
Ray stava tratteggiando i contorni nella collina su cui avrebbe dovuto disegnare Pando quando, invece del passo del cervo, sentì come il crepitare di un grande falò.
Il cervo non era solo. Una dozzina di esemplari, maschi, femmine addirittura cerbiatti. Tutti si stavano recando al lago per bere.
Ray, sbalordito e ammaliato dalla scena, si inorgoglì per la fiducia che il cervo aveva riposto in lui. Appena il branco ebbe finito di bere, si mosse lungo la riva anziché tornare da dove era venuto. Ray, ormai completamente rapito da quello che stava succedendo, decise di seguirli.
I cervi si diressero verso Pando e, quando l’uomo riuscì a raggiungerli, si fermò di colpo; il cuore gli batté furiosamente nel petto mentre un senso di orrore gli si diffuse nello stomaco, facendogli salire l'acido alla gola.
Placidi ma inesorabili, gli animali stavano divorando ogni pollone che sbucava dal suolo.
Recisero ogni connessione che l’enorme organismo cercava di stabilire con l’universo e questo sconvolse Ray.
Iniziò a sbracciarsi e a fare rumore. La sua reazione fu quasi spropositata, una furia primitiva che si impossessò di lui. Spaventò i cervi e li mise in fuga, mentre la rabbia gli ribolliva dentro.
Tornato al suo alloggio, era ancora pervaso da un senso di sgomento e rabbia per l'attacco gentile ma implacabile dei cervi. Con una febbre interiore che lo spingeva all'azione, si immerse nel lavoro al computer. Era notte fonda, ma era determinato a trovare una soluzione per proteggere Pando.
Navigando tra le numerose pagine aperte sul PC, Ray scoprì che la riserva forestale, istituita dall'uomo per preservare la foresta di pioppi tremuli, aveva permesso la proliferazione dei cervi perché, per motivi di sicurezza, erano stati ridotti i loro predatori. Questo spiegava la loro natura apparentemente amichevole, che aveva ingannato Ray e lo aveva portato ad affezionarsi.
Deciso ad agire come se fosse parte di quella foresta, si mise all’opera con il cuore pieno di determinazione. Non chiese permessi; senza aiuto e con la sola forza delle sue mani, costruì intorno all’area devastata quel giorno dai cervi un semplice recinto. L’idea di concedere a Pando uno spazio sicuro in cui crescere indisturbato placò le sue ansie e partì con il cuore quietato ma con la testa piena di pensieri.
Questi resero l’inverno breve, instabile e poco produttivo. Ray continuò a lavorare con accuratezza, ma si sentiva rallentato e, per la prima volta da quando lavorava come illustratore, era in ritardo.
La casa editrice di libri divulgativi era una di quelle realtà hipster in cui si preferivano illustrazioni fatte a mano, come nei libri dell’Ottocento, piuttosto che l'uso di foto o stampe digitali. Nei primi anni di lavoro, questo era stato un vero colpo di fortuna per Ray. Sembrava un impiego sicuro e di nicchia che gli permetteva di mantenere un equilibrio tra vita lavorativa e personale.
Tuttavia, ciò che inizialmente sembrava essere una moda esclusiva esplose improvvisamente diventando di massa. Il pubblico divenne bulimico di nuovi libri, e il successo spinse i dirigenti a esercitare una pressione sempre maggiore sui dipendenti.
Era fine Novembre quando Ray, ancora nel pieno della sua crisi, si accorse che il logo della casa editrice era la testa di un cervo con i palchi fioriti. Si trovò a ridere nervosamente e da quel momento non riuscì più a vedere i suoi capi senza immaginarli come un branco di cervi il cui unico scopo era recidere ogni nuovo germoglio di vita privata che lui cercava di creare.
Ray, inspirato da quello che aveva fatto per Pando, provò a creare un recinto intorno al suo io, ma presto si rese conto che era più difficile di quanto avesse immaginato.
Nel corso degli anni, si era trovato costretto a viaggiare per tutto il paese alla ricerca del materiale necessario per il suo lavoro, il che aveva inevitabilmente ridotto la sua vita a un incessante movimento. Questo stile di vita lo aveva portato a vivere il contatto con la natura come un compito piuttosto che un’esperienza gratificante, mentre si era illuso di essere felice solo quando era a casa a rimodellare, attraverso le sue illustrazioni, quello che aveva vissuto sul campo. In definitiva, Ray si accorse di avere poco da preservare in una vita così frenetica e lontana dalla sua autentica essenza.
Analizzare quello che era successo quell’estate lo aveva svegliato e aveva mostrato la realtà. Per la prima volta aveva percepito una foresta come qualcosa di vivo, qualcosa di paragonabile a lui.
Questi erano i pensieri che lo rallentarono. Poi a gennaio, nel pieno dell’inverno, iniziarono gli incubi.
Cervi con denti aguzzi, occhi fiammeggianti e palchi appuntiti che brucavano ogni cosa; uomini tutti uguali alti e bianchi senza luce negli occhi; sognava di cadere dall’alto senza riuscire ad aggrapparsi ai rami.
Dopo ogni incubo, Ray si svegliava sempre di cattivo umore e non riusciva a disegnare nulla di nuovo. Terminò solo un progetto che necessitava di pochi ritocchi e, per il resto del tempo, si aggirava frustrato per casa.
Il suo terapista continuava a dire che con l’arrivo della bella stagione i pensieri si sarebbero quietati: doveva solo rilassarsi e concentrarsi su qualcosa di positivo. E infatti, dopo una primavera instabile e piovosa, si scrollò dal manto di pensieri invernali e partì per nuovi lavori. Per la prima volta da molto tempo, non fu traumatico.
Prese in carico una commissione che gli avrebbe permesso di lavorare sui fiori. Per questo viaggiò verso sud e visitò le foreste tropicali.
Era la fine di giugno quando, mentre disegnava il fiore di un banano, vide una scimmia lanciarsi da una pianta vicina, afferrare il fiore e portarselo alla bocca.
Bastò quella scena per farlo precipitare di nuovo in uno stato di inquietudine, nonostante avesse creduto che sommergere la mente con una cascata di fiori fosse sufficiente a sopprimere il pensiero di Pando.
Ma fu tutto inutile: aveva provato a far sbocciare dal profondo un nuovo pollone libero da quei pensieri, ma non aveva tenuto conto della connessione che lo univa al gigante tremulo. Nulla poteva essere disconnesso con così poco.
Quindi, pur avendo deciso di passare le sue vacanze in Florida, con la scusa dell’umidità asfissiante, cambiò programma e tornò nello Utah.
Arrivò in una giornata torrida ma con il cielo limpido e una lieve brezza. La vista della foresta di nuovo verde e rigogliosa lo rasserenò. Aspirò quegli odori che gli erano ormai familiari.
Con l’idea di lasciar crescere la voglia di andare a vedere l’effetto che aveva ottenuto con la costruzione del recinto, rimase in zona per giorni. Visitò il lago, l’entroterra, eseguì dei bozzetti di esemplari di alberi particolari che gli sarebbero serviti in seguito, ma non vide mai i cervi. Ne percepiva la presenza ma non li vedeva. Si tenevano alla larga.
La mattina di fine Luglio impiegò più tempo del solito a partire, come se quell’incontro fosse importante; e in fondo lo era.
Salì verso il recinto, ma già si vedeva che quella porzione di foresta era più rigogliosa.
I polloni tremavano leggermente, mossi dal soffio del vento, erano già cresciuti in altezza e coperti di foglie. Dall'alto, i fusti e le chiome degli alberi più maturi osservavano silenziosamente, come guardiani vigili.
Tutto intorno la scena era splendida: un'armonia perfetta che non conosceva interruzioni. Ogni elemento sembrava essere connesso all'altro in un intricato intreccio di vita e movimento. Era come se ogni foglia, ogni ramo, ogni tronco contribuisse al delicato equilibrio di quell'ambiente intimo e privato.
Avrebbe voluto disegnare quello che stava vedendo, ma poi decise di allontanarsi, con passo cauto. Temeva che la sua sola presenza potesse disturbare quella quiete perfetta e spezzare quell'equilibrio così prezioso.
Tornò in stanza e, per la prima volta da un anno, si sentì bene. Non uscì per il resto del fine settimana, spense il cellulare, e disegnò con passione e senza rigore. Questa volta riuscì a terminare l’immagine di Pando, quella che lo aveva bloccato l’autunno prima. L’immagine, piena di linee, puntini, giallo, verde, stretti nodi da cui partivano linee sinuose, era caotica, al limite dell’astratto.
Stava per terminare l’illustrazione aggiungendo dettagli con l’inchiostro nero, per dare drammaticità all’opera, quando il suo naso lo avvertì del pericolo.
La temperatura rovente, le sterpaglie e il vento avevano fatto divampare un incendio.
Dalla finestra, Ray vide il fumo volgere in direzione di Pando. Le lacrime gonfiarono gli occhi e fu costretto a chiudersi in casa, avvolto da un’angoscia febbrile, tormentato dalla paura e dall'incertezza, mentre il fuoco continuava a divampare senza sosta, alimentando le sue ansie. Con il cuore stretto dalla tensione, non sapeva se l'incubo avrebbe mai avuto fine. Tuttavia, nonostante la disperazione, l'intervento tempestivo delle autorità riuscì a contenere l’incendio.
Quando Ray ebbe il coraggio di uscire, vide una parte di Pando cancellata come se un’enorme macchia d’inchiostro ci fosse caduta sopra.
Circondato dalle ceneri, guardava con sgomento le piante carbonizzate, il loro verde vibrante ormai trasformato in nero. Il suo cuore si riempiva di tristezza, come se lo sforzo di connessione e rinnovamento, per aiutare Pando, fosse stato vano. Ogni speranza era stata bruciata.
Immerso nel silenzio rotto solo dal crepitio dei resti carbonizzati, scrutava attentamente il terreno con le dita, sentendo la consistenza ruvida e calda delle ceneri sotto di esse. I suoi occhi, sfocati dalle lacrime e dal fumo, cercavano segni di vita emergere dalle braci. Il vento, leggero e fresco, accarezzava il suo viso, portando con sé il profumo pungente del fumo e il dolce aroma della terra bagnata.
Prima sentì il rumore e poi la vide.
Era una giovane cerva che, silenziosa e mesta, scrutava la terra bruciata con occhi luminosi. Con la zampa scavava tra le ceneri fino a scoprire dei timidi germogli per poi mangiarli.
Ray ebbe l'istinto di scacciarla, ma si trattenne. Pensò che forse anche lei aveva perso il branco nell’incendio e stava semplicemente cercando nutrimento. La vista della cerva, determinata a sopravvivere nonostante la distruzione circostante, sembrò sbloccare il flusso dei suoi pensieri. Ricordò chiaramente il momento durante lo scorso autunno in cui aveva fatto delle ricerche su Pando e aveva scoperto che il fuoco, eliminando gli esemplari vecchi e malati, poteva essere non una fonte di distruzione, ma di rinnovamento e speranza.
Infatti le radici di Pando avrebbero prodotto nuovi polloni che, liberati dalle chiome frondose degli alberi più alti, avrebbero goduto a pieno della luce solare necessaria per la loro crescita. Le nuove identità di Pando sarebbero emerse da quelle ceneri, più robuste e adatte all'ambiente circostante.
L'orizzonte, sfumato dalle colonne di fumo, annunciava un nuovo inizio in mezzo alla desolazione.
Ray, senza proferire parola, e ispirato dall’idea che Pando avrebbe continuato a resistere, si fece coraggio e lasciò divampare nel suo cuore un incendio.