1989 - estate
Non l’aveva vista arrivare, dannazione.
Era già di spalle, quando Mauro la scorse; si arrampicava, zaino in spalla, verso il bosco di San Cataldo. Nuvola non aveva abbaiato: era diventato vecchio e inutile, anche lui.
“Una donna sola! Ci vuole una certa dose di coraggio, o d’incoscienza”, pensò.
“Sarà certamente una forestiera, giovane, da come si arrampica veloce.”
Da quanto tempo lui non saliva fino al bosco?
Ci andava sempre meno, l’età aumentava e le forze diminuivano. Per non parlare dell’artrosi: le ginocchia si facevamo dolenti sentire, quando scendeva, più che quando saliva. Ma era il cuore a soffrire di più. Neanche la grappa che preparava in casa, riusciva più a lenire quel dolore che si faceva più sordo col passare degli anni ma sempre più resiliente.
L’amato bosco maledetto aveva distrutto la sua vita.
Silvana aveva visto la casa, duecento metri dal paese, al confine fra pianura e collina. Un uomo era nella resede posteriore, intento a nutrire gli animali. Accelerò il passo; al momento, non voleva vedere nessuno. Un cane nero meticcio, dalle dimensioni di un labrador, le corse incontrò, prima minaccioso, poi amichevole e festoso. La ragazza lo accarezzò, poi prese velocemente il tratturo che circondando la casa, saliva verso la cima del monte; il cane tornò indietro.
Se le indicazioni ricevute si fossero rivelate corrette, e non aveva ragione di pensare il contrario, alla fine della salita, aspra ma non impossibile, si sarebbe aperto l’altopiano di San Cataldo. Le era stato promesso uno spettacolo eccezionale. Il bosco, non più di un paio d’ettari, si estendeva fino alla fine dell’altopiano. E lì la vista era stupenda. All’improvviso appariva la costa che si mostrava in tutta la sua selvaggia bellezza. L’algida collina spiava di nascosto il mare sensuale. Sembrava di stare su un aeroplano, ma con i piedi ben piantati sul terreno. Poco sotto, si intravedeva una terrazza a strapiombo sul mare.
“Lì ti senti padrona del mondo”, erano state le sue parole.
“Per regalarci questi spettacoli, Dio ha perso tempo a creare la terra”, pensò Silvana, quando finalmente raggiunse il limite del promontorio. Era stato tutto come lei aveva raccontato: il piacere dopo la fatica. Per aspera ad astra, diceva la sua insegnante di Latino e Greco al Palmieri. Solo aspri e difficili sentieri portano a godere delle gioie più grandi.
Un senso di avvento e beatitudine le inondò il cuore. Era uno di quei rari momenti di piacere intenso e sereno che lei chiamava i miei orgasmi bianchi.
Era tornata nel luogo dove tutto era cominciato. Ed era un posto bellissimo.
Mauro si chiese quando sarebbe scesa. Non poteva che passare da lì. Era curioso di vedere chi fosse e non vedeva l’ora di rimproverala.
“Non lo sapeva che quel bosco era maledetto, non le avevano raccontato quel che era successo? “
Certo erano passati tanti anni, ventidue per la precisione. Ma in montagna il tempo scorre molto più lento.
“Voi cittadini non conoscete le leggi del bosco e della natura. Andatevene al mare, affittate sdraio e ombrellone. Non risvegliate il demone del bosco.”
Questo era il mantra che Mauro ripeteva ai pochi visitatori che, sebbene sconsigliati dai paesani, osavano sfidare il vecchio pazzo che si considerava il guardiano del bosco di San Cataldo e prendevano l’unica strada che portava in cima.
Si sedette su una sedia a dondolo, nella veranda davanti al sentiero che scendeva dal bosco. Mangiò formaggio e salame, bevve un po’ di vino e, alla fine, un sorso della sua grappa. Si mise in attesa. Il sole del tardo pomeriggio scaldava le sue membra non riuscendo, tuttavia, a farsi spazio fino al cuore.
“Nuvola, mi raccomando. Fammi sapere se viene qualcuno”, disse al cane che sembrò assentire col muso. Si sarebbe detto aver perfettamente compreso l’ordine impartitogli.
Chiuse gli occhi, solo per farli un po’ riposare.
Silvana, decise di montare la tenda sul piccolo manto erboso fra il limite del bosco e le rocce che rapidamente sprofondavano verso il basso, verso il mare lontano. Temeva che, dentro il bosco, la notte fosse troppo buia e umida e voleva essere vicino al ceppo che ricordava quello che ventidue anni prima non era accaduto.
Man mano che il sole scendeva all’orizzonte e cercava rinfresco nel mare, il buio prendeva il sopravvento e il coraggio entrava in riserva. Le era sembrata un’ottima idea passare la notte lì. E sapeva di doverlo fare da sola, altrimenti sarebbe stata una scampagnata e non un rito di transizione. Ma ora la paura intimoriva tutti gli altri sentimenti e conquistava prepotente l’egemonia del suo stato d’animo.
“Quanto vorrei tu fossi qui”, disse ad alta voce. E gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Maledetto Nuvola: allora è vero che sei un vecchio bastardo!” gridò Mauro. Il cane guaì e assunse una aria colpevole, almeno così pensò il vecchio.
Si era fatto buio e sembrava non esser passato nessuno. Nuvola non aveva lanciato alcun avvertimento. Il vecchio andò verso il sentiero dove aveva preparato una piccola trappola. Un sottilissimo filo di cotone fra due alberi. Chi passava di là non poteva che romperlo. Era intatto. Guardò preoccupato verso il monte e fece una carezza a Nuvola che, ancora una volta, sembrò aver capito, accettando, con affetto, le implicite scuse del padrone.
“Domani mattina andremo a vedere.” Disse a sé e al cane.
La notte passò. Silvana dormì poco e male. Si aspettava di essere nella quiete più totale. Ma vicino a un bosco in buona salute non c’è mai vero silenzio. Tante volte sentì – o se li era immaginati? – animali camminare vicino alla tenda e gli uccelli notturni non smettevano di emettere i loro versi. Si alzò alle primissime luci dell’alba, radunò le sue cose e si preparò a fare quello che doveva.
La notte di Mauro era stata parimenti agitata: i dolori alle articolazioni erano meno forti durante l’estate ma non scomparivano mai. Un senso di inquietudine corrodeva il suo animo. Temeva che la storia si fosse ripetuta dopo vent’anni e che il bosco avesse inghiottito un’altra vittima.
Salire non fu facile. Camminava lentamente aiutandosi con il suo bastone da montagna e il fedele Nuvola alle calcagna. Si chiese chi glielo facesse fare. Si rispose che lui era il guardiano del bosco, era suo dovere. Ci mise il doppio della volta precedente e doveva ancora discendere.
In cima non c’era nessuno. Chiamò a gran voce, nessuno rispose. Aveva facilmente individuato il luogo dove la ragazza si era distesa per riposare, ma di lei nessuna traccia. Oramai era certo che tutto si fosse ripetuto come vent’anni prima. E lui, di nuovo, aveva fallito. Non meritava il titolo di guardiano del bosco. Non meritava più nulla. Avrebbe pianto, se avesse avuto ancora lacrime da versare.
La discesa si rivelò ancora più pesante dell’ascesa. L’animo cupo e nero, la paura di mettere un piede in fallo e rotolare giù resero tutto più complicato. Nel frattempo, la temperatura era salita e faceva caldo. L’estate è estate anche in montagna.
Giunto nei pressi della casa, era sfinito. Decise che, guardiano o non guardiano, quella sarebbe stata l’ultima volta che saliva al bosco. Rimandò al giorno successivo l’ulteriore discesa in paese per avvertire che la viaggiatrice del giorno prima era scomparsa. Tanto, probabilmente, non gli avrebbero creduto. Avrebbero scrollato le spalle e garbatamente sorriso.
A una decina di metri dalla porta, Nuvola partì al galoppo ed entrò scodinzolando in casa.
Cinque minuti dopo entrò anche Mauro.
La ragazza era seduta al tavolo da pranzo.
“Ciao Nonno”, disse.
Oggi
Il racconto potrebbe finire qui e io potrei affidare ai lettori l’onere o il privilegio, dipende dalla loro fantasia, di colmare i buchi narrativi. Ho accarezzato a lungo l’ipotesi di lasciare tutto nella penombra del bosco, appunto.
Lì, dove dominano i chiaroscuri, a che scopo accendere la luce?
Ma ho conosciuto, e amato, Mauro e Silvana. Il primo non c’è più da tanto, e vi assicuro che, nei pochi anni in cui l’ho frequentato, mi ha insegnato molto sul bosco e sulla vita. Silvana è stato l’unico grande amore della mia vita. Disgraziatamente, io non ero il suo. Ci sono voluti tre anni di fidanzamento e cinque di matrimonio, perché entrambi accettassimo questa verità.
Ora insegna Filosofia Politica alla Columbia, New York, e io non la vedo più. Giusto qualche messaggino a capodanno e ai compleanni.
Solo oggi mi decido a raccontare questa storia a voi. Non sono mai diventato un vero scrittore, ma avevo fatto una promessa, diversi anni fa. E una promessa è una promessa.
1965-1967
Il giorno delle nozze, Rosa era luminosa e felice come quasi tutte le spose. Suo padre l’accompagnò all’altare e la consegnò fiducioso nelle mani di Antonio. Non poteva essere più fortunata di cosi. Lui era giovane e bello. Aveva diversi ettari di buona terra e le avrebbe garantito una vita tranquilla e relativamente agiata. E pensare che ne era anche innamorata! Molte delle sue amiche si sposavano solo per non rimanere zitelle. Peccato che sua madre, morta pochi anni prima, non potesse vederla.
Il giorno che Rosa scopri d’essere incinta, era disperata. Quel bimbo l’avrebbe inesorabilmente legata a lui. Antonio non era l’uomo che le era sembrato durante il fidanzamento. Spaventato, forse, dalla sua bellezza e personalità, era patologicamente geloso e possessivo. La teneva rinchiusa in casa. Lei gli apparteneva, diceva. La picchiava quando beveva tanto, quando beveva poco e le rare volte nelle quali non beveva affatto. E quando non la picchiava, la umiliava continuamente. Nulla di ciò che lei faceva, era ben fatto. Se le sue amiche avessero potuto vedere i suoi lividi, quelli del corpo e quelli dell’anima, avrebbero smesso di invidiare la sua bella casa e il frigorifero appena comprato.
In quel periodo, certe cose andavano molto peggio di adesso; non che oggi, in vero, siano tutte rose e fiori. A quei tempi, non esisteva il telefono rosa, lo stupro era un reato contro la morale ed era ancora in vigore il delitto d’onore. Il ’68, col suo portato di liberazione sociale e culturale, sarebbe scoppiato solo un anno dopo, nel mondo e in Italia.
Se Rosa fosse tornata alla casa paterna, suo padre l’avrebbe riportata al marito, perché l’uomo era, per la legge e per la chiesa, il capofamiglia. Oltre alla dote, una moglie doveva portare anche infinita pazienza.
“Quando torni a casa, picchia tua moglie. Sa tua moglie perché!” Questo era il proverbio più recitato al bar del paese.
Rosa non vide alternative. Se suo figlio fosse stato maschio, sarebbe stato come Antonio? Più che probabile, se fosse cresciuto in quell’ambiente tossico e se avesse ricevuto quell’esempio. Se fosse stata femmina, come sperava, avrebbe invece appreso, sulla pelle della mamma, la dura legge della moglie: servire, obbedire e avere paura del marito. Non poteva permettere né l’uno, né l’altro.
Salì fino al bosco di San Cataldo decisa a togliersi la vita.
Ma uccidersi non è poi così facile. Arrivata al limite dell’altopiano, Rosa cominciò a scendere verso il mare, cercando il punto giusto per buttarsi giù e il coraggio per farlo. Scivolò un paio di volte, meravigliandosi di cercare mille appigli per non cadere. Un’aspirante suicida che si aggrappa alla vita, che contraddizione!
Finché non intravide fra i rovi e gli arbusti, l’ingresso di una grotta. Entrò per riposarsi e riflettere. La tensione e la stanchezza la portarono ad assopirsi.
Quando Mauro andò ad aprire la porta, trovò il figlio che brandiva agitato una lettera.
“È andata a uccidersi, quella pazza. Si vuole buttare dal bosco.”
Aveva bevuto. Non era la prima volta che Mauro lo vedeva così.
“Puttana. Se la trovo, la uccido.”
E non si rese conto della comica assurdità della frase.
Rosa fu svegliata dalle grida di uomini che la chiamavano: riconobbe la voce di Antonio e di suo suocero. Non aveva alcuna intenzione di esser trovata. Istintivamente si addentrò nella grotta. La luce si faceva sempre più tenue, la paura aumentava. Dovette accovacciarsi per passare dove il soffitto della grotta era basso. Poi vide un bagliore lontano.
Esiste veramente la luce alla fine di un tunnel? A volte sì, a quanto pare.
Non la trovarono mai. Tutti pensarono che si fosse uccisa. Il corpo, finito in mare, sarebbe ricomparso, prima o poi.
Il poi fu tragico. Antonio beveva sempre di più, trascurava la campagna, diventando ogni giorno più nervoso e attaccabrighe. Non voleva accettare l’idea che alla fine, in un modo o nell’altro, Rosa l’avesse lasciato. Una sera, in un’osteria, litigò con un tipo meno raccomandabile di lui. Lo trovarono con uno squarcio da arma da taglio nella pancia, in un vicolo buio. Morì prima di giungere in ospedale.
Nel giro di pochi anni, se ne andarono anche il papà di Rosa e la mamma di Antonio. Non erano stati in grado di superare quell’ultimo drammatico tornante della loro esistenza, dopo il quale, avevano trovato ad attenderli solo dolore.
Mauro conviveva, invece, con il senso di colpa. Aveva avuto sotto gli occhi tutti i segnali: la nuora ogni giorno più triste e chiusa, il figlio spesso ubriaco e litigioso. Dire che non fossero felici insieme, sarebbe stato un eufemismo. Un giorno, era la vigilia di Natale, la sciarpa che Rosa indossava, rimase impigliata nella maniglia della porta, scoprendone il collo. Mauro immediatamente distolse gli occhi dall’enorme livido che la sciarpa nascondeva. Si ripropose di parlarne al figlio, ma non lo fece mai. Come spesso capita a molti, preferì, per pigrizia, viltà o quieto vivere, voltarsi dall’altra parte. Mai se lo perdonò.
Divenne isolato e scorbutico anche lui. L’unico modo che immaginò per ripagare il suo debito fu quello di diventare il guardiano del bosco e di impedire che un'altra tragedia del genere si potesse ripetere.
Il bosco era diventato il bosco della tragedia, il bosco maledetto e Mauro il suo custode.
1989 - inverno
“La storia di mia mamma è un romanzo. Tu che sei uno scrittore, dovresti raccontarla”.
Silvana mi prendeva in giro, io non ero uno scrittore, ma mi sarebbe tanto piaciuto diventarlo, e lei lo sapeva. All’epoca frequentavo Filosofia alla Sapienza. Lei era una mia compagna di corso e io innamorato perso. Bella, anzi, che dico, bellissima, coi capelli neri, un sorriso dolce e malizioso allo stesso tempo. Occhi scuri e grandi che ci potevi fare il bagno dentro. Occhi dai quali non riuscivo a uscire.
“Scappò rocambolescamente da un marito violento, quando seppe che io sarei venuta al mondo. Pensa, utilizzò una grotta sotterranea di cui tutti ignoravano l’esistenza e che la condusse dall’altra parte del promontorio. Incontrò delle donne dell’UDI che si trovavano per caso da quelli parti e che l’aiutarono a rifarsi una vita a Roma.”
“È morta l’anno scorso”.
Posai, più delicatamente che potessi, la mia mano sul dorso della sua.
Non dissi nulla e la guardai con tenerezza infinita.
Poi decisi di giocare le mie carte.
“Vieni a cena da me, stasera, così mi racconti tutto? E se mai diventassi uno scrittore, ci scrivo un racconto.”
Sollevò la testa, piantò gli occhi nei miei, sorrise.
E dopo un tempo che a me parse infinito, disse: “Promessa?”
“Promessa!”, risposi.
“Vengo. Così ti racconto anche quello che voglio fare, appena arriva l’estate.”
Socchiuse leggermente gli occhi, aggrottando la fronte.
“È arrivato il momento di chiudere il cerchio.”
Non l’aveva vista arrivare, dannazione.
Era già di spalle, quando Mauro la scorse; si arrampicava, zaino in spalla, verso il bosco di San Cataldo. Nuvola non aveva abbaiato: era diventato vecchio e inutile, anche lui.
“Una donna sola! Ci vuole una certa dose di coraggio, o d’incoscienza”, pensò.
“Sarà certamente una forestiera, giovane, da come si arrampica veloce.”
Da quanto tempo lui non saliva fino al bosco?
Ci andava sempre meno, l’età aumentava e le forze diminuivano. Per non parlare dell’artrosi: le ginocchia si facevamo dolenti sentire, quando scendeva, più che quando saliva. Ma era il cuore a soffrire di più. Neanche la grappa che preparava in casa, riusciva più a lenire quel dolore che si faceva più sordo col passare degli anni ma sempre più resiliente.
L’amato bosco maledetto aveva distrutto la sua vita.
Silvana aveva visto la casa, duecento metri dal paese, al confine fra pianura e collina. Un uomo era nella resede posteriore, intento a nutrire gli animali. Accelerò il passo; al momento, non voleva vedere nessuno. Un cane nero meticcio, dalle dimensioni di un labrador, le corse incontrò, prima minaccioso, poi amichevole e festoso. La ragazza lo accarezzò, poi prese velocemente il tratturo che circondando la casa, saliva verso la cima del monte; il cane tornò indietro.
Se le indicazioni ricevute si fossero rivelate corrette, e non aveva ragione di pensare il contrario, alla fine della salita, aspra ma non impossibile, si sarebbe aperto l’altopiano di San Cataldo. Le era stato promesso uno spettacolo eccezionale. Il bosco, non più di un paio d’ettari, si estendeva fino alla fine dell’altopiano. E lì la vista era stupenda. All’improvviso appariva la costa che si mostrava in tutta la sua selvaggia bellezza. L’algida collina spiava di nascosto il mare sensuale. Sembrava di stare su un aeroplano, ma con i piedi ben piantati sul terreno. Poco sotto, si intravedeva una terrazza a strapiombo sul mare.
“Lì ti senti padrona del mondo”, erano state le sue parole.
“Per regalarci questi spettacoli, Dio ha perso tempo a creare la terra”, pensò Silvana, quando finalmente raggiunse il limite del promontorio. Era stato tutto come lei aveva raccontato: il piacere dopo la fatica. Per aspera ad astra, diceva la sua insegnante di Latino e Greco al Palmieri. Solo aspri e difficili sentieri portano a godere delle gioie più grandi.
Un senso di avvento e beatitudine le inondò il cuore. Era uno di quei rari momenti di piacere intenso e sereno che lei chiamava i miei orgasmi bianchi.
Era tornata nel luogo dove tutto era cominciato. Ed era un posto bellissimo.
Mauro si chiese quando sarebbe scesa. Non poteva che passare da lì. Era curioso di vedere chi fosse e non vedeva l’ora di rimproverala.
“Non lo sapeva che quel bosco era maledetto, non le avevano raccontato quel che era successo? “
Certo erano passati tanti anni, ventidue per la precisione. Ma in montagna il tempo scorre molto più lento.
“Voi cittadini non conoscete le leggi del bosco e della natura. Andatevene al mare, affittate sdraio e ombrellone. Non risvegliate il demone del bosco.”
Questo era il mantra che Mauro ripeteva ai pochi visitatori che, sebbene sconsigliati dai paesani, osavano sfidare il vecchio pazzo che si considerava il guardiano del bosco di San Cataldo e prendevano l’unica strada che portava in cima.
Si sedette su una sedia a dondolo, nella veranda davanti al sentiero che scendeva dal bosco. Mangiò formaggio e salame, bevve un po’ di vino e, alla fine, un sorso della sua grappa. Si mise in attesa. Il sole del tardo pomeriggio scaldava le sue membra non riuscendo, tuttavia, a farsi spazio fino al cuore.
“Nuvola, mi raccomando. Fammi sapere se viene qualcuno”, disse al cane che sembrò assentire col muso. Si sarebbe detto aver perfettamente compreso l’ordine impartitogli.
Chiuse gli occhi, solo per farli un po’ riposare.
Silvana, decise di montare la tenda sul piccolo manto erboso fra il limite del bosco e le rocce che rapidamente sprofondavano verso il basso, verso il mare lontano. Temeva che, dentro il bosco, la notte fosse troppo buia e umida e voleva essere vicino al ceppo che ricordava quello che ventidue anni prima non era accaduto.
Man mano che il sole scendeva all’orizzonte e cercava rinfresco nel mare, il buio prendeva il sopravvento e il coraggio entrava in riserva. Le era sembrata un’ottima idea passare la notte lì. E sapeva di doverlo fare da sola, altrimenti sarebbe stata una scampagnata e non un rito di transizione. Ma ora la paura intimoriva tutti gli altri sentimenti e conquistava prepotente l’egemonia del suo stato d’animo.
“Quanto vorrei tu fossi qui”, disse ad alta voce. E gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Maledetto Nuvola: allora è vero che sei un vecchio bastardo!” gridò Mauro. Il cane guaì e assunse una aria colpevole, almeno così pensò il vecchio.
Si era fatto buio e sembrava non esser passato nessuno. Nuvola non aveva lanciato alcun avvertimento. Il vecchio andò verso il sentiero dove aveva preparato una piccola trappola. Un sottilissimo filo di cotone fra due alberi. Chi passava di là non poteva che romperlo. Era intatto. Guardò preoccupato verso il monte e fece una carezza a Nuvola che, ancora una volta, sembrò aver capito, accettando, con affetto, le implicite scuse del padrone.
“Domani mattina andremo a vedere.” Disse a sé e al cane.
La notte passò. Silvana dormì poco e male. Si aspettava di essere nella quiete più totale. Ma vicino a un bosco in buona salute non c’è mai vero silenzio. Tante volte sentì – o se li era immaginati? – animali camminare vicino alla tenda e gli uccelli notturni non smettevano di emettere i loro versi. Si alzò alle primissime luci dell’alba, radunò le sue cose e si preparò a fare quello che doveva.
La notte di Mauro era stata parimenti agitata: i dolori alle articolazioni erano meno forti durante l’estate ma non scomparivano mai. Un senso di inquietudine corrodeva il suo animo. Temeva che la storia si fosse ripetuta dopo vent’anni e che il bosco avesse inghiottito un’altra vittima.
Salire non fu facile. Camminava lentamente aiutandosi con il suo bastone da montagna e il fedele Nuvola alle calcagna. Si chiese chi glielo facesse fare. Si rispose che lui era il guardiano del bosco, era suo dovere. Ci mise il doppio della volta precedente e doveva ancora discendere.
In cima non c’era nessuno. Chiamò a gran voce, nessuno rispose. Aveva facilmente individuato il luogo dove la ragazza si era distesa per riposare, ma di lei nessuna traccia. Oramai era certo che tutto si fosse ripetuto come vent’anni prima. E lui, di nuovo, aveva fallito. Non meritava il titolo di guardiano del bosco. Non meritava più nulla. Avrebbe pianto, se avesse avuto ancora lacrime da versare.
La discesa si rivelò ancora più pesante dell’ascesa. L’animo cupo e nero, la paura di mettere un piede in fallo e rotolare giù resero tutto più complicato. Nel frattempo, la temperatura era salita e faceva caldo. L’estate è estate anche in montagna.
Giunto nei pressi della casa, era sfinito. Decise che, guardiano o non guardiano, quella sarebbe stata l’ultima volta che saliva al bosco. Rimandò al giorno successivo l’ulteriore discesa in paese per avvertire che la viaggiatrice del giorno prima era scomparsa. Tanto, probabilmente, non gli avrebbero creduto. Avrebbero scrollato le spalle e garbatamente sorriso.
A una decina di metri dalla porta, Nuvola partì al galoppo ed entrò scodinzolando in casa.
Cinque minuti dopo entrò anche Mauro.
La ragazza era seduta al tavolo da pranzo.
“Ciao Nonno”, disse.
Oggi
Il racconto potrebbe finire qui e io potrei affidare ai lettori l’onere o il privilegio, dipende dalla loro fantasia, di colmare i buchi narrativi. Ho accarezzato a lungo l’ipotesi di lasciare tutto nella penombra del bosco, appunto.
Lì, dove dominano i chiaroscuri, a che scopo accendere la luce?
Ma ho conosciuto, e amato, Mauro e Silvana. Il primo non c’è più da tanto, e vi assicuro che, nei pochi anni in cui l’ho frequentato, mi ha insegnato molto sul bosco e sulla vita. Silvana è stato l’unico grande amore della mia vita. Disgraziatamente, io non ero il suo. Ci sono voluti tre anni di fidanzamento e cinque di matrimonio, perché entrambi accettassimo questa verità.
Ora insegna Filosofia Politica alla Columbia, New York, e io non la vedo più. Giusto qualche messaggino a capodanno e ai compleanni.
Solo oggi mi decido a raccontare questa storia a voi. Non sono mai diventato un vero scrittore, ma avevo fatto una promessa, diversi anni fa. E una promessa è una promessa.
1965-1967
Il giorno delle nozze, Rosa era luminosa e felice come quasi tutte le spose. Suo padre l’accompagnò all’altare e la consegnò fiducioso nelle mani di Antonio. Non poteva essere più fortunata di cosi. Lui era giovane e bello. Aveva diversi ettari di buona terra e le avrebbe garantito una vita tranquilla e relativamente agiata. E pensare che ne era anche innamorata! Molte delle sue amiche si sposavano solo per non rimanere zitelle. Peccato che sua madre, morta pochi anni prima, non potesse vederla.
Il giorno che Rosa scopri d’essere incinta, era disperata. Quel bimbo l’avrebbe inesorabilmente legata a lui. Antonio non era l’uomo che le era sembrato durante il fidanzamento. Spaventato, forse, dalla sua bellezza e personalità, era patologicamente geloso e possessivo. La teneva rinchiusa in casa. Lei gli apparteneva, diceva. La picchiava quando beveva tanto, quando beveva poco e le rare volte nelle quali non beveva affatto. E quando non la picchiava, la umiliava continuamente. Nulla di ciò che lei faceva, era ben fatto. Se le sue amiche avessero potuto vedere i suoi lividi, quelli del corpo e quelli dell’anima, avrebbero smesso di invidiare la sua bella casa e il frigorifero appena comprato.
In quel periodo, certe cose andavano molto peggio di adesso; non che oggi, in vero, siano tutte rose e fiori. A quei tempi, non esisteva il telefono rosa, lo stupro era un reato contro la morale ed era ancora in vigore il delitto d’onore. Il ’68, col suo portato di liberazione sociale e culturale, sarebbe scoppiato solo un anno dopo, nel mondo e in Italia.
Se Rosa fosse tornata alla casa paterna, suo padre l’avrebbe riportata al marito, perché l’uomo era, per la legge e per la chiesa, il capofamiglia. Oltre alla dote, una moglie doveva portare anche infinita pazienza.
“Quando torni a casa, picchia tua moglie. Sa tua moglie perché!” Questo era il proverbio più recitato al bar del paese.
Rosa non vide alternative. Se suo figlio fosse stato maschio, sarebbe stato come Antonio? Più che probabile, se fosse cresciuto in quell’ambiente tossico e se avesse ricevuto quell’esempio. Se fosse stata femmina, come sperava, avrebbe invece appreso, sulla pelle della mamma, la dura legge della moglie: servire, obbedire e avere paura del marito. Non poteva permettere né l’uno, né l’altro.
Salì fino al bosco di San Cataldo decisa a togliersi la vita.
Ma uccidersi non è poi così facile. Arrivata al limite dell’altopiano, Rosa cominciò a scendere verso il mare, cercando il punto giusto per buttarsi giù e il coraggio per farlo. Scivolò un paio di volte, meravigliandosi di cercare mille appigli per non cadere. Un’aspirante suicida che si aggrappa alla vita, che contraddizione!
Finché non intravide fra i rovi e gli arbusti, l’ingresso di una grotta. Entrò per riposarsi e riflettere. La tensione e la stanchezza la portarono ad assopirsi.
Quando Mauro andò ad aprire la porta, trovò il figlio che brandiva agitato una lettera.
“È andata a uccidersi, quella pazza. Si vuole buttare dal bosco.”
Aveva bevuto. Non era la prima volta che Mauro lo vedeva così.
“Puttana. Se la trovo, la uccido.”
E non si rese conto della comica assurdità della frase.
Rosa fu svegliata dalle grida di uomini che la chiamavano: riconobbe la voce di Antonio e di suo suocero. Non aveva alcuna intenzione di esser trovata. Istintivamente si addentrò nella grotta. La luce si faceva sempre più tenue, la paura aumentava. Dovette accovacciarsi per passare dove il soffitto della grotta era basso. Poi vide un bagliore lontano.
Esiste veramente la luce alla fine di un tunnel? A volte sì, a quanto pare.
Non la trovarono mai. Tutti pensarono che si fosse uccisa. Il corpo, finito in mare, sarebbe ricomparso, prima o poi.
Il poi fu tragico. Antonio beveva sempre di più, trascurava la campagna, diventando ogni giorno più nervoso e attaccabrighe. Non voleva accettare l’idea che alla fine, in un modo o nell’altro, Rosa l’avesse lasciato. Una sera, in un’osteria, litigò con un tipo meno raccomandabile di lui. Lo trovarono con uno squarcio da arma da taglio nella pancia, in un vicolo buio. Morì prima di giungere in ospedale.
Nel giro di pochi anni, se ne andarono anche il papà di Rosa e la mamma di Antonio. Non erano stati in grado di superare quell’ultimo drammatico tornante della loro esistenza, dopo il quale, avevano trovato ad attenderli solo dolore.
Mauro conviveva, invece, con il senso di colpa. Aveva avuto sotto gli occhi tutti i segnali: la nuora ogni giorno più triste e chiusa, il figlio spesso ubriaco e litigioso. Dire che non fossero felici insieme, sarebbe stato un eufemismo. Un giorno, era la vigilia di Natale, la sciarpa che Rosa indossava, rimase impigliata nella maniglia della porta, scoprendone il collo. Mauro immediatamente distolse gli occhi dall’enorme livido che la sciarpa nascondeva. Si ripropose di parlarne al figlio, ma non lo fece mai. Come spesso capita a molti, preferì, per pigrizia, viltà o quieto vivere, voltarsi dall’altra parte. Mai se lo perdonò.
Divenne isolato e scorbutico anche lui. L’unico modo che immaginò per ripagare il suo debito fu quello di diventare il guardiano del bosco e di impedire che un'altra tragedia del genere si potesse ripetere.
Il bosco era diventato il bosco della tragedia, il bosco maledetto e Mauro il suo custode.
1989 - inverno
“La storia di mia mamma è un romanzo. Tu che sei uno scrittore, dovresti raccontarla”.
Silvana mi prendeva in giro, io non ero uno scrittore, ma mi sarebbe tanto piaciuto diventarlo, e lei lo sapeva. All’epoca frequentavo Filosofia alla Sapienza. Lei era una mia compagna di corso e io innamorato perso. Bella, anzi, che dico, bellissima, coi capelli neri, un sorriso dolce e malizioso allo stesso tempo. Occhi scuri e grandi che ci potevi fare il bagno dentro. Occhi dai quali non riuscivo a uscire.
“Scappò rocambolescamente da un marito violento, quando seppe che io sarei venuta al mondo. Pensa, utilizzò una grotta sotterranea di cui tutti ignoravano l’esistenza e che la condusse dall’altra parte del promontorio. Incontrò delle donne dell’UDI che si trovavano per caso da quelli parti e che l’aiutarono a rifarsi una vita a Roma.”
“È morta l’anno scorso”.
Posai, più delicatamente che potessi, la mia mano sul dorso della sua.
Non dissi nulla e la guardai con tenerezza infinita.
Poi decisi di giocare le mie carte.
“Vieni a cena da me, stasera, così mi racconti tutto? E se mai diventassi uno scrittore, ci scrivo un racconto.”
Sollevò la testa, piantò gli occhi nei miei, sorrise.
E dopo un tempo che a me parse infinito, disse: “Promessa?”
“Promessa!”, risposi.
“Vengo. Così ti racconto anche quello che voglio fare, appena arriva l’estate.”
Socchiuse leggermente gli occhi, aggrottando la fronte.
“È arrivato il momento di chiudere il cerchio.”