Sì, anch’io sbaglio.
Ora più che in passato, e sì che ora di esperienza dovrei averne per non ricadere negli stessi errori.
Eppure, sono secoli che accetto che l’uomo, l’ultimo essere creato, il prediletto da Dio, mi sfrutti, mi sevizi, abusi di me a suo piacimento. Dovrei intervenire con più veemenza per colpire quell’arrogante animale, bloccargli ogni nuova iniziativa con ogni mezzo, scatenando terremoti, eruzioni e altre catastrofi naturali.
Tanto, cosa si merita? Da che è stato plasmato ha fatto solo casini, trascinando me e tutti gli esseri viventi in una spirale da cui è ora impossibile uscire. No, mi è stato detto, non è compito tuo! Il libero arbitrio regolerà il mondo e la vita sulla Terra.
Io assisto, assisto impotente allo scempio. Il libero arbitrio è diventato solo una scusa per giustificare la brama di ricchezze, inutili comodità, falso progresso.
Avrei potuto fare qualcosa? Forse all’inizio dei tempi, al primo giorno, quando il Signore mi ha creato, ma ero troppo giovane, non potevo ancora capire. E anche allora di errori ne ho fatti, anche se forse non così gravi.
Era solo il quinto giorno; era già il quinto giorno! Dio disse: “Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo”. Creò tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
Allora venne da me: “Ora devi distribuire le varie specie su ogni angolo del pianeta, secondo le caratteristiche e le inclinazioni di ciascuno. Inizierai con i pesci e gli altri animali che popolano le acque, indirizzandoli negli oceani, nei fiumi, nei laghi, come più riterrai consono e idoneo”.
E così feci, ma non fu un compito difficile. C’era da separare i pesci d’acqua dolce da quelli d’acqua di mare, le creature che si adattavano al gelo dei ghiacci da quelle abituate alle temperature tropicali e infine i misteriosi abitanti delle oscure profondità.
Fu il turno degli uccelli: il compito mi sembrava assai più impegnativo, ma tant’è! Era quanto il Signore mi aveva chiesto e dovevo cercare di svolgerlo al meglio.
Ho iniziato dalle aquile. Ah, che animali, eleganti e rapaci. Aprivano le ali maestose e, immobili, volteggiavano nel cielo, mutando direzione con impercettibili movimenti di singole piume, per poi gettarsi in picchiata a folli velocità. La scelta era ovvia e naturale! Il loro ambiente erano gli spazi immensi, le alte vette rocciose o innevate, i canyon tortuosi.
Che dire poi dei pappagalli? Con quei colori sgargianti e quel vociare sguaiato, avrebbero portato allegria nelle foreste più inaccessibili, mimetizzandosi tra le verdi foglie o confondendosi col rosso e giallo dei frutti più succosi e prelibati.
I gabbiani avrebbero sorvegliato le spiagge e le scogliere che separavano il mondo terrestre da quello marino, governando le altezze, planando con dolcezza a sfiorare le onde increspate, fino a riposarsi galleggiando tra la spuma bianca.
Su stagni e acquitrini, le lunghe gambe, sottili come grissini, avrebbero garantito un appoggio sicuro ai fenicotteri, pronti ad accendersi di rosa ad ogni tramonto, pronti a cercare altri lidi su cui atterrare al primo sentore del freddo dell’inverno.
Cormorani, cigni, pavoni, ma anche civette, rondini, cicogne e pellicani: per tutti ho dovuto scegliere, secondo coscienza e secondo conoscenza. Fino al piccolo colibrì, destinato a passare di fiore in fiore, sbattendo forsennatamente le ali per cercare di rimanere sospeso a mezz’aria.
Ne mancavano ancora pochi, e già le tenebre della notte, create solo qualche giorno prima, cercavano di scacciare la luce del giorno.
E questi? Li guardai perplessa. Erano gli ultimi due, ma dove potevo metterli? Non erano brutti di per sé, ma particolari sì: perlomeno buffi, quello era il termine esatto. Li ho esaminati con attenzione; erano così diversi, tra di loro e da tutti gli altri uccelli: ma una cosa l’avevano in comune: non sapevano volare. Ma che razza di uccelli erano?
Sicuri fossero uccelli? Non si poteva sbagliare, non al quinto giorno. O erano pesci o erano uccelli, ma pesci che facessero un uovo alla volta, e di quelle dimensioni, non ne avevo visti. Sì, dovevano essere uccelli.
“Apri le ali!”, chiesi al primo, forse in maniera troppo brusca. Si guardò in giro per capire da chi arrivasse il perentorio ordine, arretrò un paio di passi: uno sguardo di terrore lampeggiò negli occhi, tondi e lucenti. Fulmineo allungò il lungo collo verso il suolo e vi nascose dentro la testa, rimanendo immobile in attesa di non si sa bene cosa.
Aspettai un poco. “Apri le ali”, richiesi con gentilezza. Rincuorato, lo fece.
Erano grandi, ma invece di essere rivestite delle normali penne come gli altri volatili, aveva piume lunghe, flosce e pendenti, che arrivavano identiche nell'abbondante coda. Anche il resto del corpo era coperto da un piumaggio soffice, floscio e arricciato.
“Belle, ma del tutto inutili per il volo”, dissi tra me: “E che gran caldo gli terranno!”
Mi rivolsi di nuovo al malcapitato: “Ti chiamerai struzzo, e il tuo regno saranno i ghiacci del polo, in modo che tu non abbia a soffrire del caldo della savana e con il tuo collo lungo possa cibarti dei pesci sporgendoti dalla crosta di ghiaccio”.
Lo struzzo non si allontanò subito per prendere possesso del suo nuovo bianco regno: attese, forse curioso di sapere dove ponessi l’ultimo uccello, sicuramente il più strambo.
“Non gli chiederò di mostrarmi le ali, non vorrei metterlo in imbarazzo”, pensai accogliendo il nuovo venuto. “Con quei due moncherini, cosa si può pretendere!”
“Avvicinati un po’: ma le piume le hai?”
Lo scrutai da vicino e in effetti, il corpo era coperto da piccole piume, attaccate fitte fitte una all’altra, fini e dure da sembrare migliaia di piccoli aculei.
Le tenebre mi avevano ormai avvolta, la stanchezza mi aveva sopraffatto e ahimè feci il secondo errore. Il becco mi sembrava idoneo a permettergli di mangiare frutti e semi, cosa che non avrebbe richiesto non solo di volare, avendo dato per assodato non ne fosse capace, ma neanche di raggiungere dignitose velocità, ondeggiando buffamente da una zampa all’altra. La savana sarebbe stata il suo regno: non vedevo pericoli per lui, ignaro, a mia parziale discolpa, di ciò che il Signore avrebbe fatto il giorno successivo.
Ora so che quella non fu la scelta ideale, eppure, che ci crediate o no, i primi tempi le cose non andarono neanche così male; ogni animale viveva nel suo piccolo mondo in tranquillità e armonia. Finché quei due ci misero lo zampino, decidendo di mangiare l’unico frutto che il Signore aveva proibito. Maledetto il libero arbitrio, maledetto l’uomo, e ovviamente maledetta anche la donna: da quel giorno tutto è cambiato.
Gli animali, tutti quanti, iniziarono ad aggirarsi nervosi e aggressivi gli uni verso gli altri, dalla savana fino ai poli, dove non si sapeva neanche cosa fosse quella stupida mela. Ogni specie si guardava intorno guardinga e sospettosa, pronta a scappare o ad attaccare, secondo la propria indole, scatenatasi improvvisamente in seguito all’ira del Signore.
I pinguini, con la loro andatura claudicante, divennero facile preda di rettili e felini. Nascondersi tra gli arbusti e le rocce, con il corpo nero come il peccato e la pancia bianca come la neve sembrava davvero impossibile.
Neanche gli struzzi se la passarono meglio: sulle bianche distese scivolose, leoni di mare ed elefanti marini vi si avvicinavano, agili nonostante la mole, mentre le lunghe gambe dei piumati, nel tentativo di scappare, causavano buffe cadute, rendendoli facili prede di quei cacciatori.
I pinguini furono i primi a prendere l’iniziativa: “Qui siamo carne da macello. Dobbiamo cercare un posto dove sopravvivere. Non sappiamo dov’è, ma deve esserci. Ci sposteremo di notte, nella speranza che le tenebre nascondano la nostra fuga. Staremo vicini, mettendo i nostri pinguini più forti agli estremi del gruppo, per proteggere gli altri”.
Iniziarono la sera stessa e fu la prima di una serie interminabile di notti: un esodo biblico, per rimanere in tema!
Avevano perso il conto delle notti trascorse nel loro bizzarro incedere, quando la distesa delle acque si presentò in fronte a loro, immensa di blu. Che fare ora? Come proseguire oltre?
La calca degli ultimi, curiosi anch’essi di vedere questo inatteso spettacolo, spinse alcuni volatili giù dalla scarpata, fino a raggiungere le onde increspate. Con grande sorpresa, scoprirono di muoversi con naturalezza in quell’ambiente fino allora sconosciuto, usando le minuscole ali per effettuare mirabolanti evoluzioni. Fu allora che l’aria si riempì di assordanti garriti e una miriade di pinguini si riversò in mare, fino a farlo ribollire. Non avrebbero mai volteggiato nel cielo, ma quei goffi volatili si erano trasformati in eleganti creature, di terra e di mare.
“Non possiamo stare a mollo per sempre”.
A terra, felini di ogni genere e grado, alligatori e altri predatori, attendevano il rientro di quelle facili prede, una volta fosse finita l’euforia.
“Andate a sud”, suggerì un cormorano che si era gustato la scena volteggiando sopra la colonia di simpatici pennuti. “Arriverete dove la terra lascia spazio ai ghiacci; i vostri nemici non si spingeranno fino là”.
Dovete vedere lo sguardo degli struzzi quando videro saltare fuori dalle acque questa miriade di animali mai visti prima, per poi dirigersi rapidi verso di loro scivolando sulle bianche pance.
Appiattirono la testa sulla neve, lasciando scoperto il culetto indirizzato verso il celo, come centinaia di buffi cespugli capitati sui ghiacci non si sa bene perché.
Finché uno di loro si ricordò che un pinguino l’aveva già visto, proprio il quinto giorno, al mio cospetto e rassicurò tutti che non c’era nulla da temere; ne seguì un lungo conciliabolo.
“Dovete aspettare l’inverno, quando i ghiacci si estenderanno fino a raggiungere la terra.”
“L’idea di stare qui ancora per mesi, non mi piace affatto. E non si può dire faccia caldo nemmeno adesso che è estate, ma faremo come dite.”
“Raggiunta la terra, camminate verso nord, anzi correte verso nord, vista la velocità che le vostre sottili gambe possono sviluppare.”
“Fino a…”
“Fino a raggiungere la savana, o altro posto che vi possa aggradare.”
E così fu.
Infine, hanno scelto loro dove vivere.
Libero arbitrio: l’istinto, la natura, forse il caso hanno riparato a un mio errore.
Ma chi riparerà gli errori di oggi, gli abusi?
Solo l’uomo può salvare sé stesso, e me con lui… se è ancora in tempo… se ne ha realmente la volontà.
Io non posso, non ne ho l’autorità.
Il libero arbitrio, ahimè!