Nei secoli dei secoli, amen, assorbo ogni cosa che avviene sulla mia superficie, sotto la mia superficie e ovunque esista una superficie.
Io assorbo.
Io. Anche definirmi io è il frutto di questo assorbimento. Assorbo il linguaggio degli esseri viventi che mi popolano, e il linguaggio degli esseri umani è talmente ricco che l’ho adottato per parlarmi, per parlarci, ché io sono una ma composta da moltitudini di altri uno, e comunichiamo così, uno che sono parte di una che sono parte della Terra che poi sono io. Una di moltitudini.
E prima di introiettare il linguaggio degli esseri umani e tutti i suoi risvolti psicologici, manco sapevo né i risvolti psicologici che la mia condizione può portare (e alcuni credo di averli, tanti anzi) né sapevo i nomi che gli esseri umani usano per parlare di me. Che sagome che sono.
In quello che loro definiscono universo, niente ha un nome, non è necessario, non serve. Ci siamo e tanto basta, e quando non ci siamo più, be’, non ci siamo più e tanto basta.
Che meravigliose creature che sono gli esseri umani con questa fissazione dei nomi, davvero. Con questa fissazione del maschile e femminile, delle definizioni, delle classificazioni.
Nella mia classifica personale degli esseri viventi, gli umani sono su quello che loro definirebbero podio, ma sono solo secondi. Peccato, esseri umani cari, qualcuno è andato meglio di voi.
I miei preferiti, il mio primo posto assoluto, restano nei secoli dei secoli gli uccelli, i volatili, i pennuti etc etc… Sì, loro sono ciò che più si avvicina alla mia idea di libertà.
Se dove sei non va bene, fa freddo, si sta scomodi, non c’è cibo: te ne vai.
Ti alzi in volo e te ne vai.
Che cosa spettacolare.
Quando gli uccelli sono in volo, e lasciano la mia superficie e sono in me ma anche un pochino fuori da me, io assorbo qualcosa che sembra un sogno (credo), qualcosa di ovattato, straniante, suggestivo. Leggero. Che lascia una scia che profuma di sole.
Quando loro volano, io sogno.
E poi quelle zampette leggere su di me sono come ticchettii di vecchi orologi, instancabili e spesso fuori tempo; sono così tanti, uno spettacolo di colori, forme, aperture alari, abitudini alimentari, stili di vita.
E volano. E come volano. Sono così leggiadri, nelle mie profondità, quando si librano in volo.
Li invidio molto.
Sono il mio primo posto assoluto ma se sapessi odiare, un po’ li odierei.
Quello che hanno loro io non potrò mai compierlo. Prendermi e spostarmi un po’ più in là, vedere che succede altrove, uscire dalla mia posizione e andarmene a spasso. Poi magari tornare, come fanno loro. Cambiare aria anche io, ché qui le cose mi vanno strette sempre di più.
E invece no.
Io sono come un kiwi, non mi muovo. Sono inadatta al volo.
Che scherzo è, un uccello che non vola? E lo so, lo so molto bene, che ci sono tanti altri animali classificati come uccelli che non volano. Ma il kiwi è quello che mi suscita un rimescolio nel profondo, come una sorta di tenerezza; è dal kiwi che ho assorbito la malinconia. E la sua malinconia è figlia delle parole che vengono usate per definirlo; definirlo un uccello sarà anche corretto scientificamente, credo (che bello sarebbe poter essere come quegli Dei umani che sanno tutto e non devono chiedere nulla), ma a livello psicologico questo animale si deprime. Non potrà mai capire perché non può avere un sua categoria a parte, perché non può essere una cosa diversa, perché la sua particolarità non possa creare una nuova razza.
E invece no, sei inadatto al volo ma fila tra gli uccelli, e muto.
Un po’ mi sento così.
Gli umani mi definiscono pianeta ma io sono oltre, Qui sopra c’è vita, mica ghiacci, fuoco, crateri. Io dovrei essere il Pianeta Supremo, tipo. Ed è quando mi perdo in queste fantasie, quando i miei ragionamenti trascendono dalla mia natura, che comprendo quanto assorbire i sentimenti umani mi abbia cambiata. Di quanta ansia e paura del futuro siano cresciute con me: gli umani scoprivano queste emozioni e io le sentivo germogliare su di me, mettere radici. Quello che si assorbe ti resta dentro, non lo puoi eliminare, forse potrei se avessi un sistema di spurgo ma è ormai evidente che non ne ho. Sarebbe bello se arrivasse un magico terapeuta, come nei film degli umani, di quelli che ti salvano, possibilmente geniale e coinvolgente; saggio, dal passato difficile e dal presente ancora più complicato, ma che riesce sempre ad aiutare il prossimo. Ma chi viene ad aiutare il suo pianeta, l’unico sul quale può crescere la vita, eh? Nessuno.
Certo se mi chiamassi Agata e studiassi la migrazione degli uccelli, sarebbe più facile farsi aiutare. E se fossi un piccione cagherei in testa ai passanti per farmi passare il nervosismo.
Invece sono un pianeta che ragiona come un essere umano e, senza il nome giusto, mi manco.
Mi basterebbe essere chiamata Suprema Madre Terra, per sentirmi meglio.
E allora sì che basta tsunami, basta terremoti, basta eruzioni vulcaniche e tutto il resto. Ripulisco anche l’aria. Sistemo tutti i danni che hanno fatto nei secoli dei secoli gli esseri umani.
Posso farlo, ovvio che posso. Non sarò un Dio, ma ho le mie risorse.
Potrei anche far volare i kiwi, con il nome giusto, certo che potrei.
Basterebbe davvero molto poco, per rendermi felice.
Chissà… io aspetto.