«Facciamo un gioco?»
Eri sempre tu a proporlo.
Io sbuffavo perché quei cinque anni che hai meno di me non mi permettevano di trovarti interessante.
«Che gioco?» chiedevo infastidito.
«Un gioco…» insistevi.
Rimanevi lì con una bustina di figurine in mano, o una palla sottobraccio, o dei sassi da tirare: negli occhi grandi e spalancati la fiducia in un sì che raramente arrivava.
Io, con la crudeltà che solo i bambini hanno, ti mandavo via, perché avevo cose da fare più importanti di te.
Cose che non hanno lasciato nessuna traccia, cose che nemmeno ricordo.
Mentre te…
Dio mio!
Te.