La luce della luna sorprese gli ultimi tetti.
I tre uomini lasciarono le rispettive case, incamminandosi verso il luogo d’incontro, al Passo del Salice.
U ciuncu fu il primo ad arrivare. Per lui, che abitava da solo, era più facile uscire a quell’ora senza destare sospetti. Si guardò attorno con circospezione, sedette dove era impossibile farsi vedere, e aspettò.
Don Galdino lo raggiunse dopo pochi minuti. Giovane ed energico, era a capo della Parrocchia della Madonna dell’Albero soltanto da tre mesi, ma aveva da subito dimostrato la sua indole filantropica. Soltanto un cenno di saluto tra i due, in attesa del terzo.
Melo u sapunaru tardò mezz’ora. Padre di tre bambini, per lui non era mai facile trovare un buon pretesto con la moglie per allontanarsi a quell’ora, visto che alle sette del mattino apriva il negozio e quindi una sua passeggiata notturna era quantomeno sospetta.
Raggiunse i due che lo aspettavano e venne subito al dunque: “S’abbinirica. Ci sono novità?”
“La novità è che, se non ci fossi io, il paese non sopravvivrebbe una settimana. Non si trova più niente, capite? Niente”.
“Da quando radio Algeri ci ha dato la bella notizia, quelli se ne stanno approfittando sempre di più. Lei con le sue conoscenze sta facendo molto, ma prima o poi qualcuno se ne accorgerà, padre…” intervenne u ciuncu.
“E pensare che erano qua dietro, a Cassibile. Che se ce lo dicevano prima, ci andavo io stesso ad ammazzarli” assicurò Melo u sapunaru.
“Di questi discorsi io non voglio sapere niente. – sbottò il reverendo – A me basta che voi due mi diciate a quanto vanno pane e pasta, poi i soldi li trovo io”.
“Ma con che soldi paga, padre? Dove li trova? Da quando ci sono in giro quelle minchia di lire americane…”
“Ahu, risgraziatu, non dire male parole quando c’è padre Dino” s’affrettò a dire u sapunaru, redarguendo l’altro per il suo linguaggio scurrile.
“Scusasse, è che io a questi non li sopporto più a nessuno. Abbiamo mandato i nostri figli a fare la guerra per poi perderla con una firma? E poi uno diventa vastaso per forza, se mi fanno dire quello che penso”.
Il reverendo non sembrava interessato allo sfogo del ciuncu, quindi ripeté: “Quanto chiedete al chilo per pane e pasta?”
“Sei lire per un chilo di pane, otto per la pasta” annunciò u sapunaru.
“Minchiuni – scappò a don Galdino – Ma ci volete a tutti morti? È tre volte il prezzo che mi avete sempre chiesto. Questo non è un piccolo aumento, è approfittarsi di chi ha fame. Ma come potete…”
“Senta, padre, - tagliò corto u sapunaru – qui si rischia la galera ogni giorno per dare da mangiare a voi e alle vostre pecorelle. Se volete continuare gli affari bene, annunga se ne tornasse nella sua bella canonica e lasci che ci pensi lo Stato a sfamare gli Italiani”.
“Lo Stato. Bella questa. Lo stato pensa alle requisizioni, non al razionamento. Ma Dio vi punirà! Ah, se vi punirà. E la sua vendetta sarà feroce!”
“Bbi, bedda matri, non dicesse così che mi ci vuole il Vescovo per levarmi questa maledizione di dosso. Dio ci deve ringraziare, che stiamo sfamando il suo popolo, altro che vendetta e vendetta” argomentò u sapunaru, mentre u ciuncu ascoltava senza proferire parola.
Cassiopea non si vedeva già più quando i tre uomini fecero ritorno alle rispettive abitazioni.
“Pane, trenta chili. Pasta cinquanta chili. Ricotta salata e pecorino pepato” annunciò u sapunaru, accompagnato da altri due uomini in un furgone.
“Qui ci sono i pomodori e i cavoli della schiettazza e di Pinuccia a babba, da barattare con ricotta e pecorino. Per pane e pasta dovrebbero bastare queste” disse don Galdino, tirando fuori dalla tasca seicento lire”.
“Padre, lei è una sicurezza per i suoi fedeli. S’abbinirica” concluse u sapunaru, e stava per andarsene quando venne abbarbagliato da una torcia.
“Buonasera a lor signori. Dove si deposita tutta questa bella merce” chiese il Maresciallo Condorelli, conosciuto in paese con l’appellativo di Tonio u cunnutu per via di un matrimonio alquanto fallimentare.
Ai presenti si gelò il sangue nelle vene. Il primo a riprendersi fu il ministro di Dio, che esclamò: “Questa bella merce va a finire nelle pance dei ragazzini che hanno giocato con te nel cortile della parrocchia, che ora hanno bambini da sfamare e genitori anziani da accudire. Non tutti hanno uno stipendio statale a salvargli il culo”.
Tonio si avvicinò al prelato con aria di sfida, si accarezzò la pistola e chiese: “Devo forse ricordare a un reverendo sacerdote che contravvenire alle leggi è un peccato, condannato da Dio in persona? Date a Cesare quel che è di Cesare, nevvero…?”
“Non si può adorare Dio se il corpo non riceve nutrimento. E sa cosa, anche? Che non si può far morire di fame un intero paese, rifugiandosi dietro il settimo comandamento. Non avete più che cosa darci da mangiare. Fatevi ognuno i fatti vostri, e noi ci arrangiamo come possiamo”.
“Padre, padre. Lei non parla da ministro di Dio. Lei parla da ribelle, da sovversivo. Come posso fare finta di non sapere di questo vostro mercato nero? Torneranno mai quei bellissimi quadri che lei dice di aver mandato al restauro? E perché durante la messa non si vedono più quei bellissimi ostensori in oro e in argento? I parrocchiani non sono mica scemi”.
“Maresciallo, nessuno di noi lo è. Lei non mi arresterebbe mai, né a me né a questo branco di disgraziati. Che cosa vuole? Pane, pasta?”.
“Padre, apra questa porta o le sfondiamo la canonica, quant’è vero Iddio!”.
U ciuncu e u sapunaru non avevano affatto intenzioni pacifiche.
“Che cosa volete? – s’affacciò dalla finestra il prete – Non vi ho chiesto nulla”.
“Ah no, vero? Ora ti racconto una bella storiella. Stavo bevendo un po’ di vino alla Locanda du Rizzu quando arrivò Gina a tappinara a dirmi che suo marito stava venendo ad arrestarci tutti pari. Io ci dissi a lei che era impossibile, che quel gran cornuto di suo marito sapeva tutte cose, e invece no. Mi disse: «Talìa che quello ha una carta firmata che siete voi a gestire il mercato nero». Una carta firmata ci dissi io? Impossibile. E quella mi fa: «Sì, sì. E lo sai di chi è quella firma? Chi vi ha tradito?». No, ci rissi, non lo so. Lo sai di chi è quella firma?”
Aspettava che il prete dicesse qualcosa. Don Galdino, a sua volta, attendeva un epilogo che non arrivava. Accelerò i tempi: “Dimmi che cosa volete e lasciatemi dormire, malandrini che non siete altro”.
“E tu niente devi dirci, parrinu?” chiese u sapunaru.
“No. Niente devo dirvi. Sto pregando per tutti quei morti sul treno per Potenza, non avete sentito che disastro? Lasciatemi parlare con Dio”.
“Di chi era quella firma? Di chi era quella firma?”
“Ma che ne so io, santa Madre. Di chi era quella firma?”
“La tua, maledetto. Gina mi disse: «Quella firma è di don Dino»!”
“Di don dà. Buonanotte” concluse il sacerdote, chiudendo la finestra.
“Scinni, bastaddu” urlavano i due malviventi, ma il sacerdote era già tornato a letto.
Non aveva visto né Tonio u cunnutu né Gina a tappinara in quei giorni, e non capiva perché si fosse sparsa una tal voce sulla sua condotta.
‘Che motivo avrei mai – pensava – di tradire quei due mascalzoni che mi procurano il pane e la pasta per questi poveri disgraziati dei miei parrocchiani? Chi può avere interesse a diffondere simili mendacie?’.
La risposta alle sue domande arrivò puntuale col suono delle campane delle sette del mattino.
Mentre apriva le porte della chiesa della Madonna dell’Albero, non fece fatica a riconoscere i corpi del ciuncu e del sapunaru che giacevano sul sagrato.
Probabilmente a Tonio u cunnutu e a Gina a tappinara era stato riservato lo stesso trattamento da qualche altra parte.
‘Lo sapevo – cominciò a pensare tra sé e sé il sacerdote – lo sapevo che quei disgraziati, con la loro brama di espandere il giro d’affari, sarebbero finiti a parlare coi fascisti’.
Rientrò di corsa in chiesa, scappò in sacrestia e in poco tempo raggiunse la canonica. Aprì la sacra Bibbia che teneva sul comodino e, dalla fodera in pelle, tirò fuori qualche centinaio di lire. Se li mise in tasca e tornò cauto in sacrestia.
Si guardò attorno. Non era ancora arrivato nessuno a cercarlo.
‘Rosetta, Rosetta cara, ministro straordinario della nostra amata parrocchia. Porta la comunione agli infermi come tutti i lunedì, mia cara Rosetta’ pensava con forza, quasi a volerle mandare un messaggio telepatico.
Poi ripose le lire insieme alle ostie consacrate, chiudendole dentro al cassetto di un pesante mobile in legno.
Si fece il segno della croce ed entrò in chiesa. Sedette su una panca guardando l’Eucarestia, poi si inginocchiò con le mani giunte e andò sereno incontro al suo destino, pregando.