Appena entro nel parco smetto di correre, getto il portafoglio in mezzo a un cespuglio e infilo i soldi nella tasca dei jeans.
Duecentosessanta dollari, davvero niente male per una giornata del cazzo come questa. Mi avvicino al fiume e appoggio i gomiti sulla balaustra, l’acqua limacciosa che contrasta in modo assurdo con lo skyline della città che risplende all’orizzonte. Le acque fangose hanno la stessa tonalità del completo indossato dal grassone che ho derubato.
Rido, non posso farne a meno; il tipo ha provato a rincorrermi, ma dopo pochi metri è stramazzato a terra come un cavallo zoppo.
Non c’è che dire, l’inseguimento più veloce della storia.
So già come spendere un po' di grana: una bella mangiata, una puttana e del crack. Devo solo decidere in che ordine farlo.
Il rombo di un aereo mi distoglie dai miei ragionamenti: guardo in alto, il cielo soffocato da un esercito disordinato di nuvole. Dicono che pioverà.
L’umidità è opprimente, sembra come se la città sia avvolta in un sudario mortifero. Mi asciugo il sudore dalla fronte col palmo di una mano e tiro fuori il pacchetto di Old Gold.
«Prima o poi queste mi uccideranno» dico accendendo una sigaretta.
Eppure non sono mai stato bene come in quest’ultimo periodo.
Ricordo che quando lavoravo in quell’autofficina scalcagnata nei pressi di River Ridge ero sempre triste e di cattivo umore. Tenevo un po' di contabilità e rispondevo al telefono, in pratica una gran rottura di coglioni. Scrollo la cenere nel Mississippi.
C’è ancora troppa gente che crede che un lavoro onesto sia l’unica alternativa: peggio per loro. Anch’io la pensavo così una volta e mi sentivo più inutile di un paralitico a una gara di ballo.
Onestà, rettitudine, a che pro? La mia vita non aveva un senso, ogni giorno in più passato in quel cesso accresceva in me un orrido senso di oppressione. Molto meglio vivere così, alla giornata, affidandosi a truffe, furti ed espedienti vari.
Tiro l’ultima boccata dalla sigaretta e getto la cicca nel fiume.
«È tutta tua, amico» gli dico, allontanandomi da lì.
Allo Snake sembra di essere all’inferno. L’umidità, il fumo di sigaretta e le luci rossastre donano al locale una perfetta aurea demoniaca.
Ordino a Chris un altro bicchiere di tequila.
«Ehi, vacci piano che la notte è ancora lunga» mi dice, esibendo uno sgraziato sorriso che mette in mostra una bocca precocemente sdentata.
Il barista è un po' ritardato, lo sanno tutti, ma non sarò di certo io a prendermi la briga di farglielo notare. Chris è alto più di un metro e novanta, pesa centodieci chili e come se non bastasse ha un pessimo carattere. La sua non è quella che si direbbe una bella faccia, oltre alla bocca senza denti ha i lobi delle orecchie deformati dai piercing e un tatuaggio tribale gli occupa metà della fronte. Quando ti fissa con la sua tipica espressione idiota non sai mai se metterti a ridere o cagarti nelle mutande per la paura. Nello sgabello vicino al mio è seduto Parker, il rottweiler di Chris: ha la bocca talmente grande che potrebbe staccare la testa a un cristiano con un morso solo.
Per fortuna gli sto simpatico. Prendo una manciata di noccioline dalla ciotola e gliele metto sotto al muso; non so se le arachidi facciano male ai cani, ma a lui piacciono molto.
I cani non sono come le persone, sono meglio. Si comprano con poco.
Mi pulisco la bava di Parker sui calzoni, poi controllo la tasca della mia giacca. Soppeso i cristalli di crack, pregustando già il momento. Ancora un bicchierino di tequila e poi uscirò a fumare.
«Che c’è?»
Ritorno nella realtà e mi ritrovo il faccione di Chris a pochi centimetri dal mio.
«Che c’è cosa?»
Lui batte una mano sul tavolo e ride ancora con quella bocca degli orrori che mi fa venire voglia di vomitare.
«La tua faccia Ted, sembravi in preda a una visione» mi dice, sganasciandosi.
«Allucinazioni a sfondo mistico? No, non ancora.»
Sorrido e penso che quella è proprio una gran bella serata. Prima la scorpacciata di aragoste e gamberi al Pelican e subito dopo la miglior scopata della mia vita con una creola dalle tette giganti.
Sorrido di nuovo e gratto Parker dietro all’orecchio, proprio nel punto in cui fa fatica ad arrivare: gli piace da matti, infatti tira fuori la lingua e mi guarda estasiato, come se gli stessi facendo una sega.
«Bravo cagnolone» dico, mentre faccio segno a Chris di darmi ancora da bere.
L’effetto del crack è durato poco, così come l’euforia posticcia che genera. Sono rientrato nel bar incazzato e depresso, con la voglia di prendermi a sberle da solo. Consegno a Chris due banconote da venti dollari e gli chiedo un whisky doppio, giusto per vedere se sarò in grado di vomitare anche l’anima.
Ormai non c’è più molta gente nel bar, la maggior parte ha raggiunto i club privati o se n’è andata a scopare. Il vecchio juke box espande per il locale le note di una vecchia hit dei Creedence Clearwater Revival, mentre Parker è sceso dallo sgabello e si è accucciato ai piedi del bancone. Il suo padrone dal nulla sbatte le mani sul banco, poi indica il televisore che ammicca muto da una mensola in alto.
«Dicono che è bello grosso e che farà un casino del cazzo.»
Guardo lo schermo che riproduce una cartina geografica del sud-est degli Stati Uniti con un gigantesco vortice giallo e verde in avvicinamento. Alla tempesta è già stato assegnato un nome grazioso.
«Katrina» dico, «chissà come mai gli uragani hanno quasi sempre nomi di donne.»
Il barista mi guarda con un’espressione vacua e delusa confessandomi che una volta è uscito con una Katrina, ma a parte palpargli le tette non ha combinato granché.
«È già qualcosa» faccio io, poi scolo il bicchiere ed esco.
Il Centro Nazionale Uragani ha diramato un’allerta meteo per la giornata di domani. Il cielo di New Orleans è completamente oscurato da nubi grigiastre e un vento insistente batte la città da diverse ore.
Sono uscito per fare un po' di provviste, perché dicono che la situazione potrebbe essere davvero pesante. Addirittura ho sentito qualcuno che ipotizzava di prendere in seria considerazione l’evacuazione della città.
I soliti allarmisti, cazzo, neanche fosse la prima volta che ci troviamo a fronteggiare una situazione del genere.
Nel parcheggio del supermercato ho fumato un altro po' di crack e mi sento davvero bene. Sorrido, tengo il tempo delle canzoni che escono dall’autoradio battendo una mano sul volante e di tanto in tanto suono il clacson per onorare il traffico di Canal Street.
Poi lo vedo. All’inizio penso sia un effetto della droga, anche se gli effetti oramai dovrebbero essere già passati. Mi guardo attorno per testare l’eventuale presenza di altri sintomi allucinatori, ma non c’è niente che non vada: le palme, i palazzi, i grattacieli, i guidatori dentro le loro macchine, ogni cosa è ammantata di una semplice normalità.
Allora guardo di nuovo verso il tram e lui è ancora lì: inginocchiato sopra il tetto del mezzo, un angelo spiega e ripone le ali a un ritmo forsennato. Le piume non sono candide, ma sporche, color caffelatte e il suo viso fa davvero paura. La pelle è rugosa come quella di un vecchio o di un ustionato e lo sguardo dalle iridi arancioni pare vibrare di crudeltà. La bocca è una linea sottile, arcigna e inespugnabile. Quando punta il dito verso di me comincio a sudare, ma è solo un attimo, perché si alza in volo e sparisce tra le nuvole scure. Faccio in tempo ad arrivare a casa che mi sono convinto che ciò che ho visto non può essere reale.
La notte passata ho sognato l’angelo. Non rammento bene il sogno, anzi, non lo ricordo per niente, so soltanto che una sensazione sgradevole mi si è appiccicata addosso da quando mi sono alzato dal letto. Non so se sia solo suggestione ma sento la casa scuotersi, i vetri tremare. Guardo fuori dalla finestra: un muro di pioggia si sta rovesciando al suolo e gli alberi ondeggiano nel vento in una danza spettrale.
Il canale del meteo è disturbato (come tutti gli altri canali d’altronde) ma tra un’interruzione e l’altra vedo che l’uragano si sta avvicinando a gran velocità su New Orleans. Penso a un sacco di cose: che non ho rinforzato né porta né finestre, che molto probabilmente ho sottovalutato il problema e che gli allarmi del dipartimento meteo non erano poi così infondati. Penso anche a mia madre dopo non so quanto tempo e soprattutto penso che se voglio sperare di uscire indenne da questa situazione devo dirigermi il più velocemente possibile al Superdome. La mia vecchia Plymouth del ’69 avanza a fatica, rallentata dalle sferzanti raffiche di vento. All’improvviso nei recessi della mente visualizzo l’immagine di Chris all’opera con lo shaker argentato, perché è proprio così che mi sento adesso, una mistura di sensazioni, paure, speranze e forti emozioni, racchiuse in una scatola di metallo e agitate da mani crudeli. Una marea di pensieri sconnessi e di domande senza risposta giocano a rimpiattino nel mio cervello: perché non ho dato gli ultimi esami all’università? I Saints riusciranno mai a vincere un Superbowl? Mia madre non è stata una buona madre, ma in fondo neppure la peggiore che potessi avere. Ho sempre pensato che fare la puttana fosse la vocazione più alta per mia sorella. Io stesso se fossi nato donna sarei stato una gran troia. Mi sarebbe tanto piaciuto avere un cane, o anche un gatto al limite. La solitudine non è poi così brutta come la dipingono. Ho paura, ma non devo averne, tra neppure mezz’ora sarò al riparo nello stadio.
Fermo la macchina. Sono impietrito dalla paura. La marea d’acqua si avvicina e sbatte con violenza la Plymout contro un pilone del cavalcavia. Dovrei scendere dall’auto ma per andare dove? L’acqua impetuosa scroscia contro le lamiere, sballottando l’auto che pare essersi incagliata contro qualcosa. Con mani tremanti apro il cruscotto, afferro la pipetta di vetro e scaldo gli ultimi cristalli rimasti.
Aspiro il fumo, cerco di calmarmi. Credo che aspetterò lì, sotto al ponte.
Magari arriverà qualcuno per aiutarmi. E se non dovesse arrivare nessuno beh, allora vaffanculo, Theodore Bruwster sa badare a sé stesso. Ted Bruwster non ha paura di niente.
Faccio ancora qualche tirata, mentre la marea scura si sta alzando.
Sento un botto sul tettuccio dell’auto e mi lascio sfuggire la pipa sul pianale. Un braccio si protende dall’alto verso il mio finestrino: non mi muovo, cerco di non fare rumore. Impaziente la cosa alata atterra sul cofano. Avvicina il viso bruciato al vetro, gli occhi arancioni da gufo che mi squadrano con impazienza ma senza cattiveria. Le ali marroncine fremono dietro le spalle, in un rumore che riesce quasi a sovrastare quello della furia dell’acqua. Allunga di nuovo il braccio e con un colpo secco frantuma il parabrezza della macchina. Coriandoli di vetro planano all’interno dell’abitacolo.
Guardo quegli occhi, faccio cenno di sì con la testa e afferro il braccio.
Quando il presentatore rientra in studio dopo la pubblicità sento la gola chiudersi in una morsa. Ora tocca a me, ma non sono abituata a parlare in pubblico. In televisione poi!
Accarezzo il tessuto della gonna e cerco una posizione più comoda sulla poltroncina in finta pelle. È passato qualche anno, ma ciò che è successo a mio figlio ha dell’incredibile.
«Bentornati con noi. Adesso voglio affrontare una storia davvero bizzarra, mi verrebbe da dire inspiegabile. A raccontarcela sarà la qui presente signora Nicole Bruwster. La storia ha a che fare coi terribili avvenimenti di due anni fa: l’agosto 2005 vi ricorda qualcosa? Già, so che quelle scene sono ancora vive nella nostra memoria, il disastro provocato dall’uragano Katrina. Ma non voglio dilungarmi oltre, lascio la parola alla signora Bruwster. Nicole, quando se la sente può cominciare, io non la interromperò, le farò solo delle domande quando avrà terminato. Prego.»
Mi schiarisco la voce e liscio ancora una volta la gonna.
«Buongiorno a tutti, mi chiamo Nicole Bruwster e sono la mamma di Theodore Bruwster.»
Metto una mano davanti alla bocca, sento il cuore che batte all’impazzata. Bevo un sorso d’acqua e mi lascio andare in un sospiro.
Devo solo raccontare, pochi minuti e tutto sarà finito.
«Ted è sempre stato un ragazzo problematico, intelligente ma problematico. A scuola eccelleva nelle materie che amava e aveva voti bassissimi in quelle che odiava. Tra di noi c’è sempre stato un rapporto di amore e odio…Forse sono stata troppo rigida, ma crescere due figli senza un uomo vicino non è facile. Ho dovuto fare da padre e da madre.
Spesso per ferirmi mi diceva che non ero una buona madre, ma che in fondo poteva andargli anche peggio. Sì, litigavamo spesso, finché un giorno ho trovato un biglietto di addio sul tavolo della cucina. Non mi ha scritto dove fosse diretto, solo che intendeva lasciare la città. All’inizio la cosa mi ha fatto arrabbiare, ma poi ho accettato la cosa, a diciotto anni aveva tutto il diritto a farsi una propria vita. Negli anni ogni tanto mi telefonava, per Natale, a maggio per il mio compleanno, ma non mi ha mai detto dove si fosse trasferito. Questo l’ho scoperto soltanto nel dicembre del 2005, proprio a ridosso del Natale.
Ero uscita di casa per fare delle commissioni. Pioveva a dirotto, non so se questo può significare qualcosa. Comunque quando sono tornata, ho trovato in giardino un corpo. Ho riconosciuto subito il cadavere di mio figlio. Il viso era stranamente integro, riconoscibile, mentre il corpo aveva assunto una consistenza molle, quasi gelatinosa. Questa è la sensazione che ho avuto quando mi sono chinata a terra per abbracciarlo.
Le autorità che si sono occupate del caso hanno detto che è normale quando un corpo rimane per troppo tempo in acqua…Ted risultava nella lista dei dispersi di New Orleans. Ma quel viso, come poteva essere così integro, così perfetto? Questo a detta di tutti rimane un mistero. E poi…»
Guardo il presentatore che mi sorride e mi fa cenno di continuare.
«E poi come faceva il corpo di mio figlio a trovarsi nel mio giardino? Come ha fatto a percorrere tutta quella distanza?»
«Perché, dove abita lei, signora Bruwster?»
«Abito al nord, nello stato del Montana.»