Una notte più tormentata che mai stava per finire. La luna, dopo le stelle, era l’ultima a sbiadire, mentre un timido chiarore s’affacciava ai primi respiri del giorno.
Le lenzuola erano intrise di sangue non ancora del tutto rappreso. Quando aprì gli occhi non se ne accorse subito così come non si rese conto di avere i capelli bagnati e la testa pesante che affondava nel cuscino. Chiuse gli occhi, si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore freddo, si sfiorò il petto nudo e incrociò le braccia. Toccandosi la parte superiore del braccio destro lo sentì umido e provò un leggero dolore come se avesse un taglio o una bruciatura. Fece per grattarsi e il dolore divenne acuto. Le dita non scorrevano ma erano rallentate da qualcosa di viscoso. Senza aprire gli occhi annusò l’aria e un profumo ferroso invase le sue narici.
Di scatto, nella penombra della stanza, si diresse verso il bagno. La luce bianca delle lampadine sullo specchio l’accecò per un momento. Vide il braccio destro coperto di sangue. La ferita sembrava essere ovunque. Con acqua gelida lavò via lo strato di rosso che sembrava una patina e ciò che apparve ai suoi occhi lo lasciò a bocca aperta. Aveva la parte superiore del braccio completamente tatuata. Sembrava che il disegno fosse stato fatto da poco poiché sanguinava ancora in alcuni punti. Com’era possibile?
Il vortice di domande lo distrasse per un momento dal soggetto del tatuaggio: un corpo di donna, seminuda e sdraiata supina, con la bocca e gli occhi spalancati in un’espressione di terrore, le guance rigate da lacrime di sangue.
Si buttò sotto la doccia, gelida come il suo cuore, sperando che riuscisse a risvegliarsi dall’incubo nel quale era caduto. In effetti, l’azione dell’acqua fredda sulle ferite del tatuaggio ancora fresco, gli fecero pensare per un attivo di aver sognato. Inutile illusione, il tatuaggio era ancora al suo posto più vivo e pulsante che mai.
Un caffè amaro poteva essere un buon antidoto al veleno dei ricordi: mentre il giornale radio parlava dell’omicidio di una donna occorso nella notte in città, lui cercava di ricordare qualcosa, anche se non sapeva bene cosa stesse cercando nei meandri della sua mente.
Quella strana situazione lo convinse a non uscire da casa, almeno per quel giorno. Aveva chiamato in ufficio per darsi malato, anche se non era convinto di andare dal medico poiché avrebbe visto quell’insolito tatuaggio. Raccontagli come se l’era ritrovato sarebbe equivalso a darsi del matto. Il deserto infinito del suo frigorifero non lo turbò più degli altri pensieri.
Pensò di impazzire davvero. In pratica trascorse la sua giornata disteso sul divano a guardare il soffitto e il tatuaggio che continuava a sanguinare. La mente, così carica dal susseguirsi di pensieri, fu come un interruttore che si spense e verso sera si addormentò profondamente.
Quella notte ci fu un violento temporale che scaricò fulmini e un sacco di acqua sulla quiete della città. Nonostante i tuoni, lo scroscio della pioggia e i sibili del vento, lui non si svegliò mai.
Lo fece qualche ora dopo, quando il primo raggio di sole filtrò tra le imposte del salotto: era rimasto tutta la notte sul divano. Si mise seduto e fu in quel momento che una manciata di aghi lo punse all’altezza del fegato. Un urlo ruppe il silenzio della stanza: aveva un altro tatuaggio, sanguinante, cha rappresentava una donna in posizione fetale su una pozza di sangue, con le braccia a coprirsi il viso, come se volesse difendersi da qualcosa o qualcuno. Anche lei era seminuda e immobile nella morte.
Senza pensarci un momento, corse in bagno a sciacquarsi la faccia e asciugarsi le goccioline di sangue che affioravano dalla ferita del tatuaggio. Pensò nuovamente di andare dal medico e raccontagli tutto, pazienza se l’avesse preso per matto, comunque lo avrebbe aiutato. Fece per infilarsi i jeans ma subito si fermò: erano bagnati fradici.
I vestiti bagnati lo fecero desistere dal proposito di rivolgersi al dottore. Dal giornale radio apprese del grande temporale occorso nottetempo nonché del secondo omicidio in città a distanza di una notte dal precedente. Coincidenze, pensò. Spense il cellulare.
La notte successiva si ritrovò sulla scapola il tatuaggio di una donna strangolata con il suo stesso foulard seduta su una sedia con le mani legate dietro la schiena. Non se ne sarebbe accorto non fosse stato per essersi grattato e aver percepito al tatto come delle croste. Infatti quel tatuaggio sembrava essere stato fatto da tempo, poiché presentava le croste tipiche della cicatrizzazione delle ferite che provoca l’ago penetrando sottopelle. Il giornale radio confermò ogni dubbio: una donna assassinata era stata ritrovata in avanzato stato di decomposizione nella sua abitazione, strangolata, e il suo omicidio risaliva presumibilmente a molti giorni prima.
Ancora una donna sgozzata con la faccia dipinta da clown sull’avambraccio, un’altra all’altezza dello sterno con il petto squarciato alla quale era stato asportato il cuore. Che cosa sarebbe successo domani? Quando sarebbe finito quell’incubo? Erano passati soltanto quattro giorni dall’apparizione del primo tatuaggio. Eppure gli sembrava fosse passata un’eternità. Quell’esilio volontario cominciava a pesare tanto da fargli pensare che prima o poi sarebbe diventato matto. Che non lo fosse già? Impossibile, tuttavia quella situazione doveva inevitabilmente essere l’anticamera della pazzia. O dell’inferno.
Chissà se qualcuno l’aveva cercato al cellulare ormai spento da giorni. Di certo e per fortuna, nessuno l’aveva cercato a casa. In quello stato meglio che non lo vedessero.
Si decise ad andare dal medico per mostrargli quei disegni che apparivano sul corpo. Si fece una doccia calda, si rase quella barba che gli sporcava il viso, lui che era abituato a farsela tutti i giorni, si sistemò i capelli con il gel. Prese i vestiti sporchi per metterli in lavatrice. Si sorprese nel constatare che era già piena. Aprì l’oblò e fu investito da un intenso odore ferroso di sangue, un miasma che per un attimo gli fece mancare il respiro. Cadde all’indietro alla vista di tutti quei vestiti macchiati di bordeaux poiché soltanto dopo qualche istante comprese ciò che aveva davanti. Richiuse l’oblò e azionò la macchina con il programma lungo. Rimase qualche istante a guardare il cestello girare, lo seguiva con ampi movimenti rotatori del capo: sperava che la centrifuga potesse lavare via i tatuaggi disegnati sul suo corpo.
«Dottore, cosa ne pensa?» chiese il giudice per le indagini preliminari.
«Il paziente è chiaramente schizofrenico, con un disturbo bipolare gravissimo» rispose il medico.
«Mi orienterò verso una richiesta di infermità mentale…» sospirò amaro il giudice.
«È un assassino, ha ucciso e violentato cinque donne!» urlò il commissario di polizia.
«Lo guardi!» disse il dottore al poliziotto indicando il quadratino di vetro della porta blindata che avevano davanti.
Riflessi nello specchio, il commissario vide quegli occhi spiritati, ancora iniettati di sangue, che producevano uno sguardo compiaciuto, accompagnato da un sorriso letale. Si accarezzava le braccia, le spalle, il petto e il ventre, le scapole. Contemplava e ammirava la sua pelle bianca e quei tatuaggi che soltanto lui sapeva di avere.
Le lenzuola erano intrise di sangue non ancora del tutto rappreso. Quando aprì gli occhi non se ne accorse subito così come non si rese conto di avere i capelli bagnati e la testa pesante che affondava nel cuscino. Chiuse gli occhi, si passò la mano sulla fronte imperlata di sudore freddo, si sfiorò il petto nudo e incrociò le braccia. Toccandosi la parte superiore del braccio destro lo sentì umido e provò un leggero dolore come se avesse un taglio o una bruciatura. Fece per grattarsi e il dolore divenne acuto. Le dita non scorrevano ma erano rallentate da qualcosa di viscoso. Senza aprire gli occhi annusò l’aria e un profumo ferroso invase le sue narici.
Di scatto, nella penombra della stanza, si diresse verso il bagno. La luce bianca delle lampadine sullo specchio l’accecò per un momento. Vide il braccio destro coperto di sangue. La ferita sembrava essere ovunque. Con acqua gelida lavò via lo strato di rosso che sembrava una patina e ciò che apparve ai suoi occhi lo lasciò a bocca aperta. Aveva la parte superiore del braccio completamente tatuata. Sembrava che il disegno fosse stato fatto da poco poiché sanguinava ancora in alcuni punti. Com’era possibile?
Il vortice di domande lo distrasse per un momento dal soggetto del tatuaggio: un corpo di donna, seminuda e sdraiata supina, con la bocca e gli occhi spalancati in un’espressione di terrore, le guance rigate da lacrime di sangue.
Si buttò sotto la doccia, gelida come il suo cuore, sperando che riuscisse a risvegliarsi dall’incubo nel quale era caduto. In effetti, l’azione dell’acqua fredda sulle ferite del tatuaggio ancora fresco, gli fecero pensare per un attivo di aver sognato. Inutile illusione, il tatuaggio era ancora al suo posto più vivo e pulsante che mai.
Un caffè amaro poteva essere un buon antidoto al veleno dei ricordi: mentre il giornale radio parlava dell’omicidio di una donna occorso nella notte in città, lui cercava di ricordare qualcosa, anche se non sapeva bene cosa stesse cercando nei meandri della sua mente.
Quella strana situazione lo convinse a non uscire da casa, almeno per quel giorno. Aveva chiamato in ufficio per darsi malato, anche se non era convinto di andare dal medico poiché avrebbe visto quell’insolito tatuaggio. Raccontagli come se l’era ritrovato sarebbe equivalso a darsi del matto. Il deserto infinito del suo frigorifero non lo turbò più degli altri pensieri.
Pensò di impazzire davvero. In pratica trascorse la sua giornata disteso sul divano a guardare il soffitto e il tatuaggio che continuava a sanguinare. La mente, così carica dal susseguirsi di pensieri, fu come un interruttore che si spense e verso sera si addormentò profondamente.
Quella notte ci fu un violento temporale che scaricò fulmini e un sacco di acqua sulla quiete della città. Nonostante i tuoni, lo scroscio della pioggia e i sibili del vento, lui non si svegliò mai.
Lo fece qualche ora dopo, quando il primo raggio di sole filtrò tra le imposte del salotto: era rimasto tutta la notte sul divano. Si mise seduto e fu in quel momento che una manciata di aghi lo punse all’altezza del fegato. Un urlo ruppe il silenzio della stanza: aveva un altro tatuaggio, sanguinante, cha rappresentava una donna in posizione fetale su una pozza di sangue, con le braccia a coprirsi il viso, come se volesse difendersi da qualcosa o qualcuno. Anche lei era seminuda e immobile nella morte.
Senza pensarci un momento, corse in bagno a sciacquarsi la faccia e asciugarsi le goccioline di sangue che affioravano dalla ferita del tatuaggio. Pensò nuovamente di andare dal medico e raccontagli tutto, pazienza se l’avesse preso per matto, comunque lo avrebbe aiutato. Fece per infilarsi i jeans ma subito si fermò: erano bagnati fradici.
I vestiti bagnati lo fecero desistere dal proposito di rivolgersi al dottore. Dal giornale radio apprese del grande temporale occorso nottetempo nonché del secondo omicidio in città a distanza di una notte dal precedente. Coincidenze, pensò. Spense il cellulare.
La notte successiva si ritrovò sulla scapola il tatuaggio di una donna strangolata con il suo stesso foulard seduta su una sedia con le mani legate dietro la schiena. Non se ne sarebbe accorto non fosse stato per essersi grattato e aver percepito al tatto come delle croste. Infatti quel tatuaggio sembrava essere stato fatto da tempo, poiché presentava le croste tipiche della cicatrizzazione delle ferite che provoca l’ago penetrando sottopelle. Il giornale radio confermò ogni dubbio: una donna assassinata era stata ritrovata in avanzato stato di decomposizione nella sua abitazione, strangolata, e il suo omicidio risaliva presumibilmente a molti giorni prima.
Ancora una donna sgozzata con la faccia dipinta da clown sull’avambraccio, un’altra all’altezza dello sterno con il petto squarciato alla quale era stato asportato il cuore. Che cosa sarebbe successo domani? Quando sarebbe finito quell’incubo? Erano passati soltanto quattro giorni dall’apparizione del primo tatuaggio. Eppure gli sembrava fosse passata un’eternità. Quell’esilio volontario cominciava a pesare tanto da fargli pensare che prima o poi sarebbe diventato matto. Che non lo fosse già? Impossibile, tuttavia quella situazione doveva inevitabilmente essere l’anticamera della pazzia. O dell’inferno.
Chissà se qualcuno l’aveva cercato al cellulare ormai spento da giorni. Di certo e per fortuna, nessuno l’aveva cercato a casa. In quello stato meglio che non lo vedessero.
Si decise ad andare dal medico per mostrargli quei disegni che apparivano sul corpo. Si fece una doccia calda, si rase quella barba che gli sporcava il viso, lui che era abituato a farsela tutti i giorni, si sistemò i capelli con il gel. Prese i vestiti sporchi per metterli in lavatrice. Si sorprese nel constatare che era già piena. Aprì l’oblò e fu investito da un intenso odore ferroso di sangue, un miasma che per un attimo gli fece mancare il respiro. Cadde all’indietro alla vista di tutti quei vestiti macchiati di bordeaux poiché soltanto dopo qualche istante comprese ciò che aveva davanti. Richiuse l’oblò e azionò la macchina con il programma lungo. Rimase qualche istante a guardare il cestello girare, lo seguiva con ampi movimenti rotatori del capo: sperava che la centrifuga potesse lavare via i tatuaggi disegnati sul suo corpo.
«Dottore, cosa ne pensa?» chiese il giudice per le indagini preliminari.
«Il paziente è chiaramente schizofrenico, con un disturbo bipolare gravissimo» rispose il medico.
«Mi orienterò verso una richiesta di infermità mentale…» sospirò amaro il giudice.
«È un assassino, ha ucciso e violentato cinque donne!» urlò il commissario di polizia.
«Lo guardi!» disse il dottore al poliziotto indicando il quadratino di vetro della porta blindata che avevano davanti.
Riflessi nello specchio, il commissario vide quegli occhi spiritati, ancora iniettati di sangue, che producevano uno sguardo compiaciuto, accompagnato da un sorriso letale. Si accarezzava le braccia, le spalle, il petto e il ventre, le scapole. Contemplava e ammirava la sua pelle bianca e quei tatuaggi che soltanto lui sapeva di avere.