Quando sono nato doveva esserci una strana congiunzione astrale.
Qualcuno deve essersi divertito a mescolare le carte, scombinare il mazzo. Capovolgere il cielo e scambiarlo con la terra.
Altrimenti non potrei spiegarmi come mai certe volte mi sento colore, altre pennello, altre ancora una tela bianca. Un bambino curioso che gioca a catturare le stelle, un ciottolo in balìa della risacca davanti a un mare sconfinato di possibilità.
Vorrei proprio incontrarlo quel genio del male. Dovrebbe spiegarmi come mai proprio oggi, tutto sembri esattamente come dovrebbe essere. Nell’ordine stabilito delle cose.
Assolutamente normale. Come se fossi stato vittima di un incantesimo e mi fossi svegliato all’improvviso.
Il bambino ha lasciato il posto al vecchio e la malinconia si è infiltrata a tradimento nei pensieri e non vuole abbandonarmi. I sogni? Svaniti.
Dovrei rifugiarmi nel giardino, sdraiarmi per terra, prendere in mano il pennello, intriderlo di colore e chiudermi nel mio mondo. Forse così riuscirei a mettere a posto le cose.
E invece non posso farlo.
Se solo non avessi accettato questo maledetto appuntamento. Mi hanno detto che è per un motivo molto importante, una questione di interesse nazionale. Niente meno. E io non ho saputo dire di no. Mi sono troppo ammorbidito.
Dovrei disdire, comunicare che non mi sento bene, trovare una scusa qualsiasi per rimandare.
Si vede che sono proprio diventato vecchio. Del resto, ho quasi novanta anni suonati, inutile negarlo.
Quando ero giovane nessuno si sarebbe mai sognato di venirmi a cercare. Anzi, ero considerato un soggetto da evitare.
Miró il contestatore, il nemico del regime, il surrealista, il visionario. Un imbrattatele allucinato convinto di essere un pittore.
Eh… ma le cose cambiano.
Adesso che il regime è caduto e il mostro non fa più paura, si può anche fare una dichiarazione d’amore a Miró e andarlo a cercare con tante riverenze.
Intellettuali del cazzo, gente marcia.
Quando ho risposto di sì, avevo già in mente di fare in modo che la visita fosse breve.
Avere la fama di essere misantropo deve pur servire a qualcosa.
Quel manichino in doppio petto è puntuale.
Mi chiama Maestro e fa tutta una sequela interminabile di cerimonie per dirmi quanto la mia arte sia apprezzata in tutto il mondo e quanto la Spagna sia orgogliosa di me.
Quel coglione pensa di lisciarmi le piume, non sa quanto certi stupidi convenevoli mi facciano irritare.
Gli dico di fare in fretta, andare subito al punto e spiegarmi il motivo dell’incontro.
E qual è la questione di Stato? Chiedermi di disegnare la locandina ufficiale dei mondiali di calcio… e mi offre anche un sacco di soldi per farlo...
Per tutta la vita, cazzo per tutta la vita, dico io, ho combattuto contro chi considera l’arte solo un mezzo per fare denaro e questo bellimbusto mi offre dei quattrini per “dare al mondo una nuova immagine della Spagna”. Roba da provocarmi un travaso di bile.
Non so come possa resistere alla tentazione di rispondergli per le rime.
Se c’è una cosa che non sopporto sono le costrizioni. Non potrei mai creare a comando e per soldi, poi.
E come mi fissa le mani…Sarà perché ho i polpastrelli sempre neri.
D’altra parte mi piace troppo spremere il tubo e sentire la consistenza cremosa del colore, e poi dipingere con le dita. Non esiste un solvente che possa smacchiarle a dovere.
Sono proprio diventato un vecchio rimbambito.
Mi riesce perfino di abbozzare un sorriso mentre gli indico la strada per uscire.
Gli farò sapere.
Certo, se avessi immaginato quello che aveva da dirmi, l’avrei lasciato fuori dalla porta.
Adesso devo andare in camera, sedermi sulla vecchia sedia a dondolo. Mi serve per guardare le cose da un’altra prospettiva.
La cantilena del giunco è simile al cullare materno. Una nenia che mi rassicura e infonde la calma necessaria.
Non sono mai stato un tipo impulsivo, ho sempre ponderato le scelte e, soprattutto, rifiutato qualsiasi imposizione.
Pilar è rimasta ad attendere in giardino.
Mi piace osservarla dalla finestra. Vestita di bianco, sotto le palme da dattero, sembra una piccola stella che riluce.
I passi lenti, la testa china sul libro di poesie. Se non accettassi questo lavoro, sono certo che lei capirebbe. Ha sempre rispettato le mie idee e fatto il possibile per lasciarmi lavorare tranquillo; non credo che avrei mai potuto desiderare una compagna migliore.
Sono un vecchio maledettamente fortunato.
Una volta, la portai con me da Picasso, ma lei preferì non accompagnarmi fino allo studio.
Con quella discrezione che adoro, mi disse che avrei potuto raggiungerla per la cena.
Non sapendo in che stato d’animo avrei trovato il mio amico, non mi dispiacque affatto l’idea di poterlo incontrare da solo.
Quando dissi a Pablo che non mi sarei potuto trattenere a lungo perché Pilar mi stava aspettando, lui non perse l’occasione di prendermi in giro. Non riusciva a capire come potessi stare ancora insieme alla stessa donna dopo tanti anni.
Pilar deve essersi accorta che la sto guardando e mi fa cenno cenno di raggiungerla.
È più forte di me. Quando cammino nel giardino non posso evitare di soffermarmi.
C’è sempre qualcosa che attira la mia attenzione. Può essere una foglia, un tronco d’albero, un fiore, un insetto. I giochi di luce che filtrano dai rami.
Un raggio che rimbalza sullo specchio d’acqua mi sembra una linea dritta che attraversa la tela verde e illumina di rosa acceso un grappolo di bouganville.
Questo giardino è una parte fondamentale della casa. Non potrei mai mettermi a lavorare in un luogo qualsiasi. Intorno a me devo avere degli oggetti che facciano scoccare la scintilla.
Le cose che ho raccolto in giro, il muro di cinta con le sue pietre tozze e irregolari: tutto mi suggerisce idee, mi dà la carica.
Adagiata alla palizzata c’è una ruota di legno che apparteneva a un mulino per l’olio.
Quando chiesi al vecchio Arnau se fosse disposto a vendermela, mi guardò straniato. Non capiva cosa avrei potuto farmene di quel pezzo di legno fradicio.
Non poteva immaginare quanto mi affascinassero le sue cavità e tutte quelle linee che sembravano tagliare il cerchio in tante figure geometriche diverse. Quanto fossero preziosi per me quei piccoli chiodi, le imperfezioni, la ruvidità del legno marcito.
Come il vecchio aratro che ho scovato nella cascina di Bartolomeu. Trovo che abbia una forma sensuale, mi ricorda le fattezze di una donna.
Quando glielo dissi, vidi traballare l’unico dente che gli era rimasto in bocca, non aveva mai riso così tanto.
Mi diede una pacca sulla spalla e mi offrì un bicchiere di rosso per sigillare l’accordo. Dopo aver bevuto, aveva gli occhi lucidi e brillanti.
Due mezze lune che, di tanto in tanto, riaffiorano nei miei dipinti.
La vera fortuna è che in questa isola tutti hanno dei tesori da offrire: oggetti di arte popolare pura e commovente. Senza inganno né trucco.
Questo è ciò che cerco: piccole meraviglie in grado di sorprendermi ogni volta.
Jordi, nella vecchia baracca vicino al mare, aveva una giara in terracotta usata dai pescatori secoli fa. Un oggetto incredibilmente moderno.
Da una parte piatta e dell’altra panciuta; ai lati dei bellissimi manici simili a braccia appoggiate con grazia sui fianchi di una donna. Ora anche quella fa parte del giardino.
Ogni volta che la sfioro, posso sentire le tracce lasciate dalla punta dello strumento con cui l’artigiano ha eseguito le incisioni. L’argilla non doveva essere ancora completamente asciutta, proprio la stessa tecnica che uso ancora oggi.
Quei piccoli segni assomigliano ai solchi sui campi appena lavorati. Il motivo ricorda una capigliatura, un’immagine che mi ossessiona sempre nelle mie tele.
Il vento di mare agita le piante di salvia e rosmarino. Mi piace respirare quegli aromi.
Che calma... Barcellona è diventata troppo caotica; non riuscirei più a neppure a pensare in tutto quel frastuono.
Godo di questa quiete carica di profumi.
Il silenzio contiene infinite melodie. È una sorta di musica muta di cui riesco a visualizzare le note. Le immagino adagiarsi con eleganza sulla tela e prendere vita.
Infinito e immobilità mi attirano come un vortice.
Un sasso, nella sua apparente staticità, racchiude infiniti movimenti. Potrei rappresentarli come scintille, scie che volano fuori dalla cornice o come lapilli che schizzano da un vulcano.
Quando inizio un lavoro, obbedisco a una pulsione irrefrenabile. È come se ricevessi una scarica o un insetto mi pungesse sul naso.
Mi sento irresponsabile di tutto ciò che faccio. Sono totalmente in balìa di una sorta di allucinazione.
È una lotta tra me e la tela, tra me e l’angoscia.
Devo continuare a lavorare finché l’ansia non si placa.
Può succedere che una tela rimanga in lavorazione per anni, una volta che ho esaurito il primo impulso. Ma questo non mi preoccupa affatto.
Il laboratorio è come un grande giardino. I miei lavori sono fiori, alberi da frutto, ortaggi.
Mi capita di lavorare a molte opere contemporaneamente: ce ne sono a decine che attendono il loro momento appoggiate alle pareti.
Sono come un giardiniere che deve prendersi cura delle proprie piante.
Dopo averle seminate devo annaffiarle, innestarle, concimarle e poi lasciare che le immagini maturino nella mente.
Senza alcuna fretta.
A volte aggiungo un dettaglio e quel particolare mi scatena nuove sensazioni e nuove idee. In altri momenti sento che c’è bisogno di inserire un determinato colore.
È tutto in divenire fino a quando ogni segno, ogni elemento è al proprio posto e coincide esattamente con la mia visione.
Un’opera dovrebbe stimolare sensazioni nuove ogni volta, abbagliare come la bellezza di una donna o di una poesia; essere una pietra focaia in grado di accendere l’ispirazione. Oppure riuscire a influenzarti per la vita intera con solo sguardo.
Camminare in questo giardino è come compiere un viaggio.Vado a rilento, assaporo ogni momento. Pilar mi viene vicino e io le offro il braccio.
Pare che sia io a sostenerla, ma la realtà non è quella che sembra.
È lei il mio equilibrio.
Le chiedo di seguirmi in camera. Mi piace sentire il calore del suo corpo accanto al mio mentre le note tanto amate della sinfonia n. 40 di Mozart invadono ogni interstizio della stanza: linee cerchi, triangoli, uccelli, costellazioni.
Potente, sublime melodia.
Resterei per ore in silenzio sdraiato sul letto a comunicare senza bisogno di troppe parole. Ma devo tirare fuori il rospo se voglio stare meglio.
Sono questi i momenti in cui mi rendo conto di quanto siano importanti i ricordi.
Se penso ai danni della vecchiaia, questa è la mia paura più grande: perdere la capacità di ricordare. Allora ogni tanto li ripasso, ci rimugino sopra, li attizzo come il fuoco nel camino per evitare che si spengano e tutto diventi freddo.
Forse è quella la morte.
Nella parete di lato al letto è appeso un brandello di tela bruciacchiata.
Chiedo a Pilar se rammenta quando ho dato fuoco alle mie opere.
Mi avevano offerto un milione di dollari per quelle tele e io ho preferito distruggerle piuttosto che alimentare quel commercio spregevole.
Meglio ucciderla, l’arte, che darla in pasto a certi sfruttatori.
Pilar mi domanda se mi sia mai pentito di quel gesto, ma è sicura che non sia così.
Quel giorno, mentre le fiamme divoravano i dipinti, ho provato una gioia incontenibile. Mi sono sentito forte, un dio che distrugge e crea.
Io li ho liberati. Resi immortali.
Se non le avessi incendiate, quelle tele, avrei potuto giocarmele ai dadi come feci con il quadro della fattoria di Mont-Roig.
Ma di Hemingway ce n’è uno solo.
Quel pazzo si era invaghito di quel dipinto e aveva girato tutti i bar di Parigi per raccogliere i franchi necessari a pagarmelo. Fu divertente scommettere. Il mio quattro non poté nulla contro il suo sette.
Glielo avrei regalato comunque.
Peccato che poi se lo sia fatto portare via dalla sua ex moglie. Ora che ci penso, i miei amici hanno sempre avuto rapporti sentimentali disastrosi.
Sopra al comodino, c’è la copia di “Fiesta”. La dedica è un po’ sbiadita, ma se chiudo gli occhi posso ancora sentire il graffio leggero della penna di Ernest sulla carta.
Pilar mi stringe la mano come se avesse indovinato i miei pensieri.
Sento che è il momento giusto di liberare la mente dal tarlo che si è conficcato dentro e non mi da pace. Devo confidarle che mi hanno offerto molto denaro per uno strano lavoro e che sono pieno di dubbi.
Tanto io sono a contatto col cielo, tanto lei ha i piedi piantati in terra.
Mi risponde che se proprio la cosa non mi fa piacere posso rifiutare di farla. Semplice, pragmatica, sempre dalla mia parte.
Ho notato che mi ha guardato con l’aria preoccupata.
Qui nell’intimità nostra stanza, non ho mai avuto vergogna di mostrarmi nudo, a mostrare la fragilità. Forse lo ha visto anche lei, il vecchio. Si è sicuramente stupita del fatto che una proposta di lavoro mi avesse causato tanta prostrazione.
E io devo ritrovare la lucidità. Adesso ho capito cosa devo fare.
Che bello stringerla fra le braccia.
Accetterò quel lavoro ma solo a condizione che sia un dono di Joan Miró alla Spagna. Questo vecchio sognatore comunicherà al mondo una nuova immagine del Paese.
Miró e il calcio. Che matrimonio assurdo. In fondo l’idea non è tanto male.
Così, finirò nel grande tritacarne mediatico. Meglio disegnare il manifesto dei mondiali di calcio, piuttosto che firmare i tovaglioli di carta nei bistrot come faceva Pablo negli ultimi anni.
Adesso devo solo lasciare andare le mani dove vogliono, far fluire i pensieri e trasferire i segni sulla carta. Incidere il rame e spalmarlo di vernice.
Il sole, il calore del popolo spagnolo, la rinascita dopo l’oppressione.
Comincia la parte migliore: il bambino sorride, affonda il pennello nel colore e si abbandona al sogno. Forse non sono ancora così vecchio.