La carrozza si fermò davanti al portone di un palazzo dalla sobria facciata, con un alto portale sormontato da un balcone in ferro battuto.
Ne scese un uomo non troppo giovane, elegante e di bell’aspetto, il conte Anselmo Aldrovandi. Era uno stimato dottore, conosciuto nell’alta borghesia e non solo. Salì con passo veloce i tre scalini che immettevano nel vano, ma fu subito fermato.
– Conte, dove andate?
A parlare era stato Pasquale, il guardaportone. Era arrivato a Milano da un paese del sud, di cui conservava ancora uno spiccato accento. Si occupava delle faccende, sbrigava commissioni, teneva in ordine, oltre a provvedere alla pulizia delle scale.
– Sono atteso da mademoiselle Paoline.
– Mi dispiace, ma la signorina non può ricevervi.
– Pasquale ma che dici? La carrozza ci aspetta per condurci al Duomo. Lo sai che giorno è? Oggi è una giornata speciale! Una folla enorme attende il corteo imperiale e l’arrivo di Napoleone, per …
– Ah sì, ho sentito. Quello fa tutto da solo…
Zotico impertinente, pensò il conte mentre imboccava le scale.
Dalla portineria si accedeva alla corte minore e da questa, per uno scalone a due rampe, ai piani superiori.
Il palazzo era stato di proprietà di un nobile spagnolo decaduto, che ne aveva ricavato tre sontuosi appartamenti.
Il primo era abitato da mademoiselle Paoline, giovane parigina arrivata in Italia al seguito di un sottotenente Napoleonico. Con i suoi modi per niente equivoci e grazie alla sua sfrontata bellezza, nel giro di breve tempo, era diventata una prostituta di alto borgo, corteggiata da tutto il mondo aristocratico. Viveva con la sua cagnetta, Nenè, una pechinese di tre anni.
L’altro appartamento era occupato dal marchese Del Fiore e da sua figlia.
Tollerava appena la vicinanza della meretrice e tutto il viavai che comportava, solo perché la giovane era entrata nelle grazie del conte Aldrovandi.
Fernanda era la domestica tuttofare, una ragazzotta dai tratti del viso gentili, con i fianchi troppo larghi e le braccia robuste.
Il secondo piano era interamente occupato dal barone Giulio Bellingeri, rampollo di una famiglia nobile e potente, invaghito della francesina, ma per i suoi modi pretenziosi e per il suo aspetto fisico, il corpo deforme e una faccia da topo, era stato più volte rifiutato.
– Conte, per carità, aspettate. Prima dovete sapere, è successa una cosa terribile, la signorina Paoline è morta.
– Morta? Ma come può essere!?
Un’ improvvisa vertigine sbiancò il bel viso del conte, che per non cadere si poggiò al corrimano.
– Perché non me l’hai detto subito! Ma come è stato?
– L’hanno ammazzata. Ma già, voi siete pure un dottore! Vi accompagno, così vedete voi stesso e poi vado a trovare le guardie.
– Non sarà facile, proprio oggi!
Davanti al pianerottolo provenivano voci concitate.
Erano di Fernanda, la domestica dei marchesi Del Fiore, del barone Giulio e dell’arcivescovo Luigi Sforza, membro della compagnia dei Gesuiti di S. Fedele.
– E voi che ci fate qui?
– Abbiamo sentito abbaiare la cagnetta della signorina e siamo accorsi.
Risposero, quasi a un’unica voce, i tre interrogati.
La porta dell’appartamento era spalancata e il conte stava per entrare, quando cercarono di seguirlo.
– Signori, la vostra presenza qui è d’ostacolo alle indagini. Devo prima accertare la morte della signorina. Vi prego, aspettatemi di sotto e non abbandonate il palazzo, per nessun motivo.
– Ma io devo correre alla cerimonia dell’incoronazione. – Protestò il barone.
– Anch’io, – disse il prelato, – devo tornare in canonica.
– Io ho tutte le faccende da sbrigare, prima che il marchese e la marchesina tornino da Piazza Duomo, – sbuffò Fernanda.
– Nessuno si deve allontanare. Pasquale, accompagnali in portineria, – disse, con tono autoritario, il conte.
Quindi attraversò l’ingresso dell’abitazione con il cuore che gli batteva forte ed entrò nel salottino adiacente alla camera da letto.
La stanza era in penombra. Le pareti tappezzate di rosso porpora e le persiane socchiuse lasciavano trafilare stretti raggi di luce, che trafiggevano la stanza come lame di coltello.
La giovane donna era sdraiata sopra la dormeuse in una posizione del tutto naturale. Indossava un abito rosa tenue da giorno, elegante e guanti di seta colore écru.
Sembrava che dormisse se non fosse stato per quel segno rosso intorno al collo. Il generoso decolté era ancora più pallido e gli occhi, dal contorno violaceo, erano spalancati in uno sguardo misto tra lo stupore e la paura.
Il dottore ne accertò la morte per strangolamento, constatando che doveva essere avvenuta da non molto, perché il corpo era ancora caldo.
Ma chi poteva odiarla a tal punto da provocarne la morte?
Se lo chiedeva e intanto cercava segni di lotta, qualche indizio che potesse aiutarlo a comprendere.
Finché timide lacrime offuscarono gli occhi, mentre pensava di aver perso per sempre la sua giovane amica.
Ma era necessario che mettesse da parte i sentimenti.
Si avvicinò al collo, per analizzarlo meglio. Quante volte l’aveva stretta, soffocandola di baci. Perché quello che Paoline faceva non era un mistero per nessuno.
Notò che il rossore era regolare, poco più ampio di una fettuccia come se l’assassino avesse usato un nastro, una stola di seta, pensò, forse di proprietà alla stessa ragazza.
Ma guardandosi intorno non vide niente che potesse somigliare all’arma del delitto.
Il fatto, poi, che indossasse i guanti, impediva di trovare materiale organico sotto le unghie, se mai avesse provato a difendersi.
Del resto, l’appartamento era in ordine, come tante volte ricordava di averlo trovato quando, di notte, gli prendeva l’ardire di andare a farle visita. Dedusse che la sventurata doveva conoscere l’assassino e che lei stessa doveva avergli aperto la porta.
Il fatto che l’omicidio fosse avvenuto da poco restringeva la cerchia degli indiziati.
Immerso nel silenzio, ebbe come una strana sensazione di vuoto, di inspiegabile assenza. Certo non avrebbe più rivisto la sua giovane amante, le sarebbe mancata, ne era certo. Ma qualcos’altro non tornava.
Paoline era pronta per accompagnarlo all’incoronazione di Napoleone. Era elegantissima, ma dal collo mancava la collana di rubini e smeraldi che metteva nelle grandi occasioni. E poi mancava Nenè, l’inseparabile e affettuosa cagnolina. Se fosse stata lì sarebbe stata vicino alla sua padrona o sarebbe venuta ai suoi piedi, pensò il conte.
Allora dove era Nenè?
Diede ancora uno sguardo veloce, mentre pensava che avrebbe perso l’evento più importante del secolo, a cui non avrebbe fatto in tempo a partecipare.
Era meglio ascoltare quello che avevano da dire gli altri, nell’attesa dell’arrivo della Polizia.
A testa bassa e pensieroso, riscese lo scalone fino all’atrio.
Li trovò in portineria, uno spazio ricavato nel cuore del fabbricato. Era simile a una stanza con grandi vetrate, ma poco luminosa, perché prendeva luce solo dalla corte minore.
Li vide attraverso i vetri, la donna seduta sopra una panca con la testa piegata, il barone, con le mani dietro la schiena, passeggiava come un leone in gabbia, e l’arcivescovo intento a leggere il suo breviario.
– Pasquale non è ancora tornato?
– Non ancora. – Gli rispose il barone Giulio. – Allora che ci dite, conte Anselmo?
– È stata strangolata. Il corpo è ancora caldo. Non c’è l’arma del delitto, ma l’assassino non può essere lontano. Chi di voi ha scoperto il cadavere?
– Io, – rispose Fernanda. – Ho sentito prima abbaiare la cagnetta, poi guaire, finché i gemiti si perdevano per le scale. Sono uscita di corsa dall’appartamento e ho visto che la porta di quella era spalancata. Sono entrata e l’ho trovata sdraiata. Sembrava che dormisse. Dopo di me sono arrivati il barone Giulio, seguito dall’arcivescovo e abbiamo capito che era morta.
– Tu eri già lì a trafugare i gioielli della meretrice, non è vero? – L’accusò subito il prelato, alzando lo sguardo dal breviario.
– Eri invidiosa della sua bellezza, si vedeva come la guardavi e poi il confessionale non mente. Sei robusta di corporatura, hai braccia forti, la vittima ti conosceva, potevi entrare in casa sua in qualsiasi momento e rubare. Lei ti ha scoperta e tu l’hai uccisa, per la tua avidità.
– Ma che dite? – protestò Fernanda. – Ho rubato, è vero, ma non l’ho uccisa io. Era già morta. – E scoppiò in singhiozzi.
Appena riuscì a parlare, continuò: – È stato il barone! Siete stato voi! Tutti i giorni trovo mazzi di rose nella spazzatura. Voi volevate sposarla, ma lei non vi sopportava. Aveva ben altre mire, quella. L’avete finanche seguita, prendendo l’appartamento sopra il suo. Lei vi detestava, provava ribrezzo. Faceva schifo pure a lei baciare un topo! Gioielli, fiori, profumi e quella non vi voleva, nemmeno a pagamento per quanto siete brutto. Vi rifiutava e per questo l’avete uccisa. – accusò la domestica, sputando veleno.
– Io? Io ero già pronto per andare all’incoronazione di Napoleone, figuriamoci! Sono sceso, perché attratto dai lamenti di Nenè. Guaiva forte, la poverina, lei che non abbaia mai. Ma veramente…il nostro gesuita, lui sì che aveva un valido motivo per ucciderla. – Ribatté pronto il barone, sbottando in una risata isterica. – Venivate spesso a fare visita alla francesina, non è vero? Si è venuto a sapere nella canonica di S. Fedele? Che scandalo, per uno che mira a entrare nelle grazie del pontefice…
– Calma, calma. Inutile accusarvi a vicenda. A quanto dite ognuno di voi aveva un movente. Ma veniamo ai fatti. Voi, padre, che ci facevate, a quest’ora del giorno, nel palazzo? – Chiese il Conte.
– Conoscevo la vittima, inutile nasconderlo. Sapevo in che modo si mantenesse, la frequentavo con il solo scopo di redimerla. A noi spetta la cura delle anime e l’amministrazione dei sacramenti, non lo sapete? Ma oggi mi trovavo qui perché il marchese Del Fiore voleva confessarsi, prima di andare all’incoronazione, ma per un contrattempo ho fatto tardi e, la domestica può confermare, quando sono arrivato era già andato via.
– Pasquale vi ha visto entrare, qualcuno vi ha visto uscire? – chiese il conte.
– Non credo. Sono passato dalla corte maggiore, quella delle carrozze quando ho sentito, anch’io, i guaiti del cane e sono tornato indietro.
– Appunto! Nessuno vi ha visto. E così indisturbato avete fatto visita a mademoiselle Paoline. Quella vi ricattava. Un alto prelato come voi, scelto dalla congregazione per riallacciare i rapporti interrotti con il papa…
– Basta così! – intervenne il conte.
All’improvviso aveva notato che dall'abito talare mancavano i primi tre bottoni.
Si disse che, se fosse stato coinvolto nell’omicidio, non sarebbe stato difficile trovarli. Si accorse che la fascia legata alla vita non scendeva, come di solito, dal lato sinistro, ma poggiava sulla gamba destra. Eppure, l’arcivescovo non era mancino, l’aveva notato quando si era fatto il segno della croce, apprendendo che la giovane era stata strangolata. La fretta di rimettere le cose al loro posto aveva fatto fare un errore imperdonabile.
E poi, il bordo della veste nera, in alcuni punti, sembrava lacerato; poteva significare che Nenè aveva cercato di difendere la sua padrona, ma senza riuscirci.
Era stata malmenata, pensò il conte, e un calcio più forte l’aveva fatta scappare.
Era ancora immerso nei suoi pensieri, quando Pasquale rientrò accompagnato da due guardie e con Nenè stretta al petto. La poverina si era nascosta tra le ruote della carrozza del barone. Tremava ancora, quando l’aveva presa, ma, appena vide l’arcivescovo, iniziò ad abbaiare furiosa. Indicava l’assassino, lo condannava più che con le parole.
E così in una tiepida mattina di maggio, sotto un sole splendente, due cortei avanzavano per le vie di Milano. Il primo si allargava festoso per le strade della città, il secondo più corto e triste accompagnava un alto prelato per un breve tragitto. Entrambi andavano incontro al proprio destino.