L’ARIETE NELLO STEMMA
Bernar sollevò gli occhi dal manoscritto e lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Guardò, oltre i vetri della finestra, le cime degli olmi affioranti dalla bruma; la campagna lombarda ne era immersa. Sembrava sprofondata nell’ovatta. A ricordare le passeggiate con Agnese fu preso dall’angoscia.
Da pochi giorni sepolta nella cappella di san Nabore, sua moglie gli aveva lasciato un vuoto incolmabile. Da allora Bernar non aveva cessato di pensare alla morte.
Dopo aver bussato con discrezione, Malvina entrò nella sala: “Signore, posso servire in tavola?”
“È ancora presto; ma sì, scenderò tra qualche minuto.”
La cuoca tornò in cucina e tolse la pentola dal fuoco. Sapeva per esperienza che qualche minuto poteva significare mezz’ora e anche oltre.
L’atmosfera pesante che la circondava aveva finito per incupire pure lei, infatti non aveva appetito. L’unico a mostrare voglia di mangiare era il gatto e tale ansia manifestava a suo modo, standosene immobile davanti ai fornelli, dritto come un fuso con gli occhi spiritati fissi sulla pentola.
“Allora?” domandò la sguattera.
“No, Marta. Non scende subito, sta scrivendo.” rispose Malvina.
Marta prese a borbottare. Non finiva di rigovernare, se non col buio.
Nella sala s’udiva solo il crepitio della fiamma; Bernar lo percepiva come un lamento ossessivo. Lo stemma sul camino presentava una gemella nera su campo argento. In capo tre stelle e in punta un ariete rampante. Stelle e ariete in oro.
Da piccolo aveva chiesto: “Padre, cosa significa quella doppia striscia nera?”
“Significa fedeltà al signore fino alla morte.” Aveva risposto il nobiluomo. Da adulto però, Bernar pensava che la gemella rappresentasse un segno di lutto. Una sorta di destino di famiglia.
Un concetto astratto, la morte, finché non si era concretizzato sul volto della persona più cara. Sua madre se n’era andata lasciandolo ancora bambino, così la sua adolescenza era stata amareggiata dalla presenza della matrigna e dei fratellastri. Poi era stato il turno di suo padre e infine era toccato ad Agnese. L’ultima ondata di peste non era stata così grave come quella precedente, che nel 1485 aveva mietuto nel milanese cinquantamila vittime, ma cinque anni dopo l’epidemia era tornata per portarsi via Agnese e lui, Bernar, non aveva potuto starle vicino fino all’ultimo.
“Fatti coraggio.” Gli avevano detto parenti e amici.
“Come fosse facile, e col cruccio che mi porto di non esserle stato accanto nel momento estremo!” Aveva confidato Bernar al suo amico Fragorius “Quando ti lascia la persona più amata, con la quale hai condiviso gli anni migliori, davvero ti sembra che non abbia senso continuare a vivere. Per fortuna devo completare la mia opera. Altrimenti, potrei uscire di senno.”
“Caro Bernar, le opere migliori sono spesso concepite nel dolore e talora ne sono il risultato. Al tuo lavoro attendi ormai da quindici anni; è venuto il momento di mettere a frutto tante ore di ricerche e di studio. Dovrai però tenere conto del mutare degli eventi.”
Luca Fragorius, da uomo pratico qual era, voleva dissuadere Bernar dal continuare un’opera che era stata concepita per elogiare un principe e una casata ormai in rovina.
“Quale vantaggio ne trarresti, amico mio? Non sarebbe più utile convogliare le tue energie in altra direzione?”
“Proprio tu, che hai condiviso tante volte le mie fatiche, mi dici questo? Hai dimenticato quanto abbiamo brigato e atteso per poter consultare biblioteche e archivi?”
“No, di certo. Ricordo con quale entusiasmo finalmente vi accedemmo, grazie agli incarichi diplomatici e alla tua posizione a corte.”
“Ore e ore di studio; che ne farei di tutto il materiale raccolto?”
“Non ti dico di buttare le tue ricerche alle ortiche, ma di utilizzarle in modo differente; di cambiare il disegno dell’opera. Non più la lode di una casata, ma un progetto più ampio.”
Così Bernar si era deciso a seguire il consiglio dell’amico e stava lavorando a un’opera storica diversa e originale; un’analisi oggettiva dei fatti di cui era stato testimone, degli errori che avevano determinato la caduta del principato e delle strategie vincenti. Un’opera di grande respiro: il suo capolavoro di storico, amico della verità.
I passi di Bernar giù per la scala misero subbuglio in cucina. In un attimo Marta sparì nella saletta attigua, con due scodelle fumanti che pose sul tavolo, dove lei e la cuoca consumavano i pasti. Il gatto le venne dietro e si accoccolò sotto la finestra, in attesa dei resti. Intanto Malvina, amministrata la minestra per il signore, la portò in tavola.
A Bernar non piaceva mangiare da solo. Non poteva fare a meno di pensare ad Agnese che non c’era più. Un giorno, forse non troppo lontano, lui stesso si sarebbe trovato faccia a faccia con la morte. Lei avrebbe avuto amate sembianze, forse il volto della madre, forse quello di Agnese. Quasi l’attendeva. Di certo sarebbe giunta con un sorriso gentile, di incoraggiamento.
Terminato il pranzo, uscì per camminare un poco. Un’abitudine acquisita grazie ad Agnese che alla passeggiata igienica non rinunciava con qualunque tempo, buono o cattivo che fosse: “Fa bene camminare un po’ dopo pranzo”, diceva “aiuta a digerire.”
Tre anni trascorsero in fretta per Bernar, impegnato nella revisione del suo lavoro. Al termine lo fece stampare a sue spese, ma l’opera non ottenne il successo desiderato, anzi provocò la rovina economica del suo autore che, gravato dai debiti, fu costretto a vendere buona parte dei suoi beni.
Luca Fragorius lo aveva invitato a desistere dall’impresa, ma Bernar non aveva voluto saperne perché “è bello, oltre il morir, vivere ancora.” Da quell’opera si aspettava gloria e proventi.
Ma intanto viveva in ristrettezze, come al tempo della prima ondata di peste, quando i fittavoli non avevano più pagato gli affitti. Aveva perfino dovuto rinunciare alla cuoca, ora a servizio presso i Fragorius, così la povera Marta non aveva con chi lamentarsi.
Quel pomeriggio d’autunno la nebbia era così fitta che non si vedeva a un palmo, il torrente in piena rumoreggiava.
“Non vorrete uscire con questo tempo?” Disse Marta che si apprestava a rigovernare, “sembra già notte.”
“Fa bene camminare un po’ dopo pranzo.” rispose Bernar e uscì.
Da quel momento scomparve nella bruma e nessuno lo vide più.
Lucilla Monti e Floriana Aleardi si fermarono davanti al n.16 di via Passerini. Lì un tempo, quando Niguarda non era ancora un quartiere periferico di Milano, era stata costruita la residenza di campagna dei Pervanger. L’attenzione delle due giovani fu attirata dallo stemma inciso nel muro di cinta. Dell’antica costruzione rimanevano solo frammenti e parte del muro; il resto era andato distrutto.
“È questo lo stemma che devi blasonare per la rivista di araldica?” Chiese Floriana.
“Sì, Flo. L’emblema dei Pervanger. Uno degli ultimi discendenti della casata è stato uno storico umanista. Vuole la leggenda che di lui si “persero le tracce” durante una piena del Seveso.”
La giovane si sedette su un muro basso e invitò l’amica a fare altrettanto. Poi prese dalla cartella una fotocopia a colori del blasone e la mostrò a Floriana confrontandola con l’originale inciso nella pietra. “Questo qui, guarda.”
“Ma non sono uguali!” esclamò Floriana “quello della fotocopia ha l’ariete in campo, ma quello là sul muro ha un leone.”
“Caspita, hai ragione. Forse allora non è questo lo stemma che cerco, forse è stato modificato; a volte i blasoni subiscono delle variazioni. Gli studiosi parlano di dinamismo araldico o forse la residenza dei Pervanger non è questa.”
“Be’, ariete o leone fa tanta differenza?”
“Certo. Sono simboli diversi.”
“Qual è il significato dell’ariete nello stemma?”
“Indica perseveranza, capacità di affrontare le difficoltà nel perseguire uno scopo, prolificità. Ma l’immagine va coniugata con gli altri elementi presenti nel blasone, in questo caso per esempio le stelle, che indicano aspirazione verso cose superiori e con i colori. Come l’argento, indice di purezza, o l’oro che significa potenza e ricchezza.
C’è da dire poi, volendo banalizzare, che lo stemma di una famiglia è una specie di riassunto; si riferisce a un arco di tempo che abbraccia secoli, quindi la ricchezza e la potenza magari riguardano le origini, forse periodi. O forse no. In questo caso poi il blasone sembra quasi configurare, per la presenza dell’ariete, una sorta di oroscopo del personaggio.”
“Sempre che si tratti di un ariete.” fece Floriana, piuttosto scettica.
L’uomo anziano, che osservava da un po’ le due giovani, si avvicinò: “Scusatemi, senza volere ho sentito i vostri discorsi, mi avete incuriosito” e rivolgendosi a Lucilla “le piacciono gli stemmi?”
“Sì mi interessano; raccontano delle storie.” L’uomo era arrivato senza scalpiccio di passi; era molto alto, elegante nel suo vestito di lino, come se l’afa e il caldo non lo sfiorassero. Portava un panama beige e un bastone con pomello in avorio. Parlava con un accento duro: “Ho l’impressione che le interessano certe storie particolari, non quelle qualsiasi. Le piace affondare le mani nella bisaccia del passato, signorina. Mi sbaglio forse?”
“Non sbaglia. Lei è di qui?”
“Già. Sono un vecchio niguardese. Uno dei più anziani, di quelli che dicono ancora di andare a Milano, quando vanno verso la Madonnina. Prendono il 4, che sfiora Ca’ Grande e in dieci minuti sono alla fermata Maciachini della linea gialla.”
“Allora avrà sentito parlare della misteriosa casata patrizia dei Pervanger? Di Bernar Pervanger?”
“Conosco la leggenda, come molti qui. È questa che l’attrae, vero?”
“Sì. L’enigma, la scomparsa, il mistero sulla data della morte.” L’uomo sembrò ridacchiare sotto i baffi; la barba fitta mascherò il tremito leggero delle labbra: “Ogni uomo è mistero, la vita stessa lo è. Il tempo mescola le carte, la memoria fa il resto col suo gioco di svelamento e oblio.”
“Oh, lei è un filosofo!”
“No, ragazza mia, sono solo un vecchio molto stanco. I vecchi hanno familiarità col tempo e lottano con la memoria”, disse l’uomo volgendo in giro lo sguardo, come se gli occhi scurissimi cercassero intorno immagini perdute.
“Che mi dice della leggenda; secondo lei che fine ha fatto, in realtà, quel Pervanger?”
“Mah, che vuole che le dica, ognuno ha diritto di finire come vuole; non le pare?” Lucilla restò perplessa, ma non volle insistere e passò a chiedere altro: “Ha visto la villa quando era ancora in piedi?”
“Oh no, da secoli è andata distrutta; ma ne conosco le forme. Da giovane, all’università ero in architettura. Attraverso disegni e xilografie, ne ho studiato lo stile, molto interessante perché rappresentava un ultimo esempio di quel gotico lombardo tutto nostro, diverso dalle forme rinascimentali toscane, allora in voga, del Filarete. Per intenderci, l’architetto dell’ospedale.”
“Ma l’ospedale non fu costruito nel ’39?” domandò Floriana, che fino a quel momento era rimasta ad ascoltare.
“Parlavo di Ca’Grande”, rispose l’uomo “l’antico ospedale, attuale sede dell’Università.”
“Ma è una fortuna incontrarla!” esclamò Floriana. “La mia amica si interessa di stemmi, io invece mi occupo di architettura e lei potrà di sicuro darmi un suggerimento su come affrontare lo studio del cinquecento lombardo.”
“Ma certo. Perché non prova a limitare l’ambito della ricerca alle ville niguardesi? Non può affrontare in blocco il Cinquecento; sarebbe gravoso e lunghissimo… ascolti, io abito qui vicino. Vede quella casa grigia laggiù? Lì dietro, al numero 6, c’è la mia modesta dimora. Se mi aspettate, vado a prendere un libro che può interessarle. Devo averlo a portata di mano. Torno subito.”
L’uomo si allontanò con passo leggero, senza appoggiare a terra il bastone. Le due ragazze rimasero a guardarlo. “Che tipo strano!” disse Floriana.
“Cammina in modo curioso. Che se ne fa del bastone, se non lo usa? Ma quanto è alto!”
“E quanto è magro! Ma torniamo al mio blasone, Floriana, e al mio Bernar.”
La vita di Bernar – riprese a dire Lucilla – è un percorso altalenante di ascese, cadute, risalite. L’uomo mi affascina perché è uno che non demorde. Come un ariete rampante non si lascia impressionare dalle difficoltà, quando la sua strada è in salita. Senza perdersi d’animo, persegue il suo sogno: la pubblicazione di una grande opera.
La sua situazione economica già florida – ma al tempo della peste minacciata dalla mancata corresponsione degli affitti – migliora grazie agli incarichi ottenuti col favore della signoria dominante, al punto di poter acquistare altri poderi in Brianza. Intanto si sposa; dall’unione nascono cinque figli; lo stemma dice il vero: i Pervanger erano prolifici.
Poi alla gloria succede la disgrazia. Il crollo della dinastia dominante coinvolge i cortigiani del duca. E il futuro si tinge ancora di nero. La moglie di Bernar muore, mentre lui viene privato delle sue cariche, e quindi degli emolumenti a esse connessi. Tornano tempi duri ma nonostante tutto Bernar, ritiratosi in campagna, porta a compimento il suo lavoro. Del resto, chi avrebbe potuto dubitare che l’opera non giungesse a vedere la luce. Non era forse, Bernar, un Pervanger? Non apparteneva a una famiglia che aveva come emblema l’ariete, simbolo di perseveranza?
“Già l’ariete.” fece Floriana ancora dubbiosa.
Questo particolare – riprese Lucilla – mi ha dato da pensare, perché la presenza dell’ariete nei blasoni è molto rara, e in genere si trova negli stemmi di comunità montane. Così cercando e ricercando ho trovato lo stemma di Coira, città del cantone dei Grigioni. Pare infatti che in tempi lontanissimi i Pervanger, originari del cantone, si fossero trasferiti dalla Svizzera in Lombardia.
Lucilla continuò a scartabellare nella sua carpetta e a mostrare all’amica altre fotocopie a colori: “Vedi, questo è lo stemma di Coira; comprende i tre stemmi della Repubblica delle tre leghe. Il primo quarto, in nero e argento è l’emblema della lega grigia, il secondo è della lega delle dieci giurisdizioni, mentre lo stambecco è l’emblema della ca ‘ di Dio e, nel duecento, l’emblema del vescovo di Coira. Perciò ho azzardato l’ipotesi che l’argento e l’oro, presenti nel blasone dei Pervanger, derivino dallo stemma della lega grigia, mentre l’ariete potrebbe essere una variante dello stambecco saliente. Del resto ariete o capro negli stemmi spesso hanno la stessa valenza simbolica. Quindi anche lo stambecco, perché appartiene alla sottofamiglia dei caprini.”
“Uh, che lavoro! Ma se lo stemma è quello là sul muro, col leone, tutte le tue ipotesi crollano.” Commentò Floriana. Lucilla non le badò.
“Comunque sia, Bernar, degno discendente dei Pervanger era un uomo perseverante di sicuro. E forse scrivere lo aiutò a dimenticare, almeno in parte, le dolorose vicende della sua vita. Volle quindi pubblicare l’opera, ma la gloria giungerà postuma; al momento l’impresa gli causò solo la rovina economica. Dopo di che, di lui si persero le tracce. Altro non è dato sapere.” La ragazza tacque, pensosa.
“Lucilla, ma quel signore non è tornato più. È già trascorso più di un quarto d’ora.”
“Hai ragione, Flo. Parlando, non me ne sono accorta. Perché non gli andiamo incontro?”
“Sì. Intanto chiacchieriamo. Stavi dicendo “si persero le tracce”?”
“Già non si conosce la data di morte, né come avvenne. C’è chi lo dice scomparso nel torrente a causa della piena; altri fanno intendere che non sia stato un incidente, ma la vendetta di alcuni nemici personali. Alcuni affermano che fu seppellito. Ma di uno che sparisce non si trova il corpo. Insomma è una vicenda molto ingarbugliata.”
“Vedo che questa storia ti affascina più dello stemma.”
“Ma sì, perché l’araldica si limita a descrivere i blasoni. Dietro quegli stemmi però ci sono vite, persone.”
Intanto le due studentesse erano arrivate alla casa grigia. Girarono l’angolo e si trovarono su una strada senza sbocco, dove sorgeva una palazzina a due piani proprio di fronte ad alcune case basse. Usciva, da uno di quegli usci, una donna dal portamento fiero che teneva per mano un bimbo.
“Ecco il numero 6. È qui.” disse Lucilla.
“Ma… sembra una casa abbandonata. Non c’è nemmeno il campanello”, fece Floriana “dai, lasciamo perdere. Andiamocene.”
“No, aspetta Flo, domandiamo a quella donna. Ehi, guarda lo stemma sul cancello: quello è un ariete! La casa potrebbe essere questa. Sullo stemma non mi sono sbagliata.”
“Scusi signora”, chiese Lucilla indicando la palazzina, “non c’è campanello. Forse c’è un altro ingresso?” La donna si fermò per soffiare il naso al piccolo e a sua volta domandò: “Parla di quella?” disse, accennandovi con un gesto del mento.
“Già al numero 6.”
“Ma lì non ci abita nessuno. Da sempre, per quanto ne so io.” Rispose la donna, prendendo in braccio il bimbo che cominciava a frignare.
“Non ci abita un signore anziano alto e magro che porta un bastone? Forse un architetto… lo abbiamo incontrato poco fa e ha detto che abitava proprio qui.”
La donna, sul punto di allontanarsi, rispose: “ No, no. Non lo conosco proprio; non so di che state parlando.
“Ma a chi appartiene quella casa o a chi apparteneva, lo sa?”
“Si diceva a una famiglia con un nome tedesco, credo. Non ricordo. Ma non parlo di ora, molti secoli fa. Erano i nobili del paese”
“Pervanger?” chiese con ansia Lucilla.
“Ecco, sì: Pervanger.” Rispose la donna allontanandosi e lasciando le due ragazze interdette davanti al cancello chiuso.
“Andiamocene subito da qui” fece Floriana “troppi misteri in questo posto. Quella donna sembrava aver paura di parlare.”
“Ma tu non dovevi andare in biblioteca?”
“Quasi, quasi ci rinuncio.”
“Via, abbiamo tempo. Andiamo.”
“Sì, ma solo per vedere se hanno un libro che mi interessa; non devo leggerlo adesso”, disse Floriana.
“Va bene; io intanto ne approfitto per consultare una raccolta di xilografie.”
In biblioteca Lucilla trovò subito il suo volume e si mise seduta a sfogliarlo. Dopo qualche minuto Floriana la raggiunse e si sedette accanto a lei. Non aveva trovato il testo che cercava, ma le piaceva l’atmosfera che regnava nella sala, il silenzio, l’odore della carta, lunghi tavoli antichi e librerie in noce. Stava osservando la sua amica, intenta nella lettura, quando a un tratto la vide sobbalzare.
“Che ti succede?” sussurrò.
“Guarda qui.” fece lei di rimando e le passò il libro.
“Omammamia!”
La xilografia rappresentava un uomo del tutto simile al signore anziano incontrato nella mattinata. Gli occhi, vivacissimi, erano identici. Soltanto la barba e i capelli erano bruni. Sotto l’immagine la didascalia: Bernar Pervanger.
“Lucilla torniamo a casa. Io mi sento quasi male.”
“Ma dai, mica vorrai credere ai fantasmi? È solo una coincidenza.”
“E il signore di stamattina?”
“Soltanto un vecchio burlone.”
In metro le due amiche non dissero una parola. Lucilla non riusciva a togliersi di mente il vecchio così stranamente somigliante a Bernar Pervanger sparito, proprio come lo storico del cinquecento, nell’afa della mattinata.
“Ognuno ha il diritto di finire come vuole.” Quella frase l’aveva colpita, ma non ne aveva capito il senso. Lucilla ci pensava e ripensava… a un tratto esclamò: “Ci sono!”
“Che? Dove sei, che vuoi dire?”
“Forse ho trovato una risposta al mistero che circonda la fine di Pervanger.”
“Ah, ma allora è proprio una fissazione!”
“No, Flo. È una ricerca che mi appassiona. Prima o poi troverò in qualche libro la soluzione dell’enigma, ma intanto mi lascio andare alle mie romanzesche congetture. Chi mi assicura che Bernar sia caduto nel torrente in piena?
Mi piace pensare che non si trattò di una malaugurata disgrazia, né di una vendetta. Una volta pubblicata l’opera, il compito dello storico era stato assolto. Quali ragioni gli restavano per vivere, privo dell’affetto della moglie e per giunta in ristrettezze economiche?
Ma Bernar era un signore e come tale avrà deciso di andarsene con eleganza. Forse, approfittando della piena del Seveso, volle simulare il fatale incidente che avrebbe conferito alla sua fine l’alone della leggenda.”
“Be’, e perché ora ti viene in mente il suicidio?”
“Perché ognuno ha diritto di finire come vuole, Floriana.”
commento a "Numero 39587" di Byron
Bernar sollevò gli occhi dal manoscritto e lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Guardò, oltre i vetri della finestra, le cime degli olmi affioranti dalla bruma; la campagna lombarda ne era immersa. Sembrava sprofondata nell’ovatta. A ricordare le passeggiate con Agnese fu preso dall’angoscia.
Da pochi giorni sepolta nella cappella di san Nabore, sua moglie gli aveva lasciato un vuoto incolmabile. Da allora Bernar non aveva cessato di pensare alla morte.
Dopo aver bussato con discrezione, Malvina entrò nella sala: “Signore, posso servire in tavola?”
“È ancora presto; ma sì, scenderò tra qualche minuto.”
La cuoca tornò in cucina e tolse la pentola dal fuoco. Sapeva per esperienza che qualche minuto poteva significare mezz’ora e anche oltre.
L’atmosfera pesante che la circondava aveva finito per incupire pure lei, infatti non aveva appetito. L’unico a mostrare voglia di mangiare era il gatto e tale ansia manifestava a suo modo, standosene immobile davanti ai fornelli, dritto come un fuso con gli occhi spiritati fissi sulla pentola.
“Allora?” domandò la sguattera.
“No, Marta. Non scende subito, sta scrivendo.” rispose Malvina.
Marta prese a borbottare. Non finiva di rigovernare, se non col buio.
Nella sala s’udiva solo il crepitio della fiamma; Bernar lo percepiva come un lamento ossessivo. Lo stemma sul camino presentava una gemella nera su campo argento. In capo tre stelle e in punta un ariete rampante. Stelle e ariete in oro.
Da piccolo aveva chiesto: “Padre, cosa significa quella doppia striscia nera?”
“Significa fedeltà al signore fino alla morte.” Aveva risposto il nobiluomo. Da adulto però, Bernar pensava che la gemella rappresentasse un segno di lutto. Una sorta di destino di famiglia.
Un concetto astratto, la morte, finché non si era concretizzato sul volto della persona più cara. Sua madre se n’era andata lasciandolo ancora bambino, così la sua adolescenza era stata amareggiata dalla presenza della matrigna e dei fratellastri. Poi era stato il turno di suo padre e infine era toccato ad Agnese. L’ultima ondata di peste non era stata così grave come quella precedente, che nel 1485 aveva mietuto nel milanese cinquantamila vittime, ma cinque anni dopo l’epidemia era tornata per portarsi via Agnese e lui, Bernar, non aveva potuto starle vicino fino all’ultimo.
“Fatti coraggio.” Gli avevano detto parenti e amici.
“Come fosse facile, e col cruccio che mi porto di non esserle stato accanto nel momento estremo!” Aveva confidato Bernar al suo amico Fragorius “Quando ti lascia la persona più amata, con la quale hai condiviso gli anni migliori, davvero ti sembra che non abbia senso continuare a vivere. Per fortuna devo completare la mia opera. Altrimenti, potrei uscire di senno.”
“Caro Bernar, le opere migliori sono spesso concepite nel dolore e talora ne sono il risultato. Al tuo lavoro attendi ormai da quindici anni; è venuto il momento di mettere a frutto tante ore di ricerche e di studio. Dovrai però tenere conto del mutare degli eventi.”
Luca Fragorius, da uomo pratico qual era, voleva dissuadere Bernar dal continuare un’opera che era stata concepita per elogiare un principe e una casata ormai in rovina.
“Quale vantaggio ne trarresti, amico mio? Non sarebbe più utile convogliare le tue energie in altra direzione?”
“Proprio tu, che hai condiviso tante volte le mie fatiche, mi dici questo? Hai dimenticato quanto abbiamo brigato e atteso per poter consultare biblioteche e archivi?”
“No, di certo. Ricordo con quale entusiasmo finalmente vi accedemmo, grazie agli incarichi diplomatici e alla tua posizione a corte.”
“Ore e ore di studio; che ne farei di tutto il materiale raccolto?”
“Non ti dico di buttare le tue ricerche alle ortiche, ma di utilizzarle in modo differente; di cambiare il disegno dell’opera. Non più la lode di una casata, ma un progetto più ampio.”
Così Bernar si era deciso a seguire il consiglio dell’amico e stava lavorando a un’opera storica diversa e originale; un’analisi oggettiva dei fatti di cui era stato testimone, degli errori che avevano determinato la caduta del principato e delle strategie vincenti. Un’opera di grande respiro: il suo capolavoro di storico, amico della verità.
I passi di Bernar giù per la scala misero subbuglio in cucina. In un attimo Marta sparì nella saletta attigua, con due scodelle fumanti che pose sul tavolo, dove lei e la cuoca consumavano i pasti. Il gatto le venne dietro e si accoccolò sotto la finestra, in attesa dei resti. Intanto Malvina, amministrata la minestra per il signore, la portò in tavola.
A Bernar non piaceva mangiare da solo. Non poteva fare a meno di pensare ad Agnese che non c’era più. Un giorno, forse non troppo lontano, lui stesso si sarebbe trovato faccia a faccia con la morte. Lei avrebbe avuto amate sembianze, forse il volto della madre, forse quello di Agnese. Quasi l’attendeva. Di certo sarebbe giunta con un sorriso gentile, di incoraggiamento.
Terminato il pranzo, uscì per camminare un poco. Un’abitudine acquisita grazie ad Agnese che alla passeggiata igienica non rinunciava con qualunque tempo, buono o cattivo che fosse: “Fa bene camminare un po’ dopo pranzo”, diceva “aiuta a digerire.”
Tre anni trascorsero in fretta per Bernar, impegnato nella revisione del suo lavoro. Al termine lo fece stampare a sue spese, ma l’opera non ottenne il successo desiderato, anzi provocò la rovina economica del suo autore che, gravato dai debiti, fu costretto a vendere buona parte dei suoi beni.
Luca Fragorius lo aveva invitato a desistere dall’impresa, ma Bernar non aveva voluto saperne perché “è bello, oltre il morir, vivere ancora.” Da quell’opera si aspettava gloria e proventi.
Ma intanto viveva in ristrettezze, come al tempo della prima ondata di peste, quando i fittavoli non avevano più pagato gli affitti. Aveva perfino dovuto rinunciare alla cuoca, ora a servizio presso i Fragorius, così la povera Marta non aveva con chi lamentarsi.
Quel pomeriggio d’autunno la nebbia era così fitta che non si vedeva a un palmo, il torrente in piena rumoreggiava.
“Non vorrete uscire con questo tempo?” Disse Marta che si apprestava a rigovernare, “sembra già notte.”
“Fa bene camminare un po’ dopo pranzo.” rispose Bernar e uscì.
Da quel momento scomparve nella bruma e nessuno lo vide più.
Lucilla Monti e Floriana Aleardi si fermarono davanti al n.16 di via Passerini. Lì un tempo, quando Niguarda non era ancora un quartiere periferico di Milano, era stata costruita la residenza di campagna dei Pervanger. L’attenzione delle due giovani fu attirata dallo stemma inciso nel muro di cinta. Dell’antica costruzione rimanevano solo frammenti e parte del muro; il resto era andato distrutto.
“È questo lo stemma che devi blasonare per la rivista di araldica?” Chiese Floriana.
“Sì, Flo. L’emblema dei Pervanger. Uno degli ultimi discendenti della casata è stato uno storico umanista. Vuole la leggenda che di lui si “persero le tracce” durante una piena del Seveso.”
La giovane si sedette su un muro basso e invitò l’amica a fare altrettanto. Poi prese dalla cartella una fotocopia a colori del blasone e la mostrò a Floriana confrontandola con l’originale inciso nella pietra. “Questo qui, guarda.”
“Ma non sono uguali!” esclamò Floriana “quello della fotocopia ha l’ariete in campo, ma quello là sul muro ha un leone.”
“Caspita, hai ragione. Forse allora non è questo lo stemma che cerco, forse è stato modificato; a volte i blasoni subiscono delle variazioni. Gli studiosi parlano di dinamismo araldico o forse la residenza dei Pervanger non è questa.”
“Be’, ariete o leone fa tanta differenza?”
“Certo. Sono simboli diversi.”
“Qual è il significato dell’ariete nello stemma?”
“Indica perseveranza, capacità di affrontare le difficoltà nel perseguire uno scopo, prolificità. Ma l’immagine va coniugata con gli altri elementi presenti nel blasone, in questo caso per esempio le stelle, che indicano aspirazione verso cose superiori e con i colori. Come l’argento, indice di purezza, o l’oro che significa potenza e ricchezza.
C’è da dire poi, volendo banalizzare, che lo stemma di una famiglia è una specie di riassunto; si riferisce a un arco di tempo che abbraccia secoli, quindi la ricchezza e la potenza magari riguardano le origini, forse periodi. O forse no. In questo caso poi il blasone sembra quasi configurare, per la presenza dell’ariete, una sorta di oroscopo del personaggio.”
“Sempre che si tratti di un ariete.” fece Floriana, piuttosto scettica.
L’uomo anziano, che osservava da un po’ le due giovani, si avvicinò: “Scusatemi, senza volere ho sentito i vostri discorsi, mi avete incuriosito” e rivolgendosi a Lucilla “le piacciono gli stemmi?”
“Sì mi interessano; raccontano delle storie.” L’uomo era arrivato senza scalpiccio di passi; era molto alto, elegante nel suo vestito di lino, come se l’afa e il caldo non lo sfiorassero. Portava un panama beige e un bastone con pomello in avorio. Parlava con un accento duro: “Ho l’impressione che le interessano certe storie particolari, non quelle qualsiasi. Le piace affondare le mani nella bisaccia del passato, signorina. Mi sbaglio forse?”
“Non sbaglia. Lei è di qui?”
“Già. Sono un vecchio niguardese. Uno dei più anziani, di quelli che dicono ancora di andare a Milano, quando vanno verso la Madonnina. Prendono il 4, che sfiora Ca’ Grande e in dieci minuti sono alla fermata Maciachini della linea gialla.”
“Allora avrà sentito parlare della misteriosa casata patrizia dei Pervanger? Di Bernar Pervanger?”
“Conosco la leggenda, come molti qui. È questa che l’attrae, vero?”
“Sì. L’enigma, la scomparsa, il mistero sulla data della morte.” L’uomo sembrò ridacchiare sotto i baffi; la barba fitta mascherò il tremito leggero delle labbra: “Ogni uomo è mistero, la vita stessa lo è. Il tempo mescola le carte, la memoria fa il resto col suo gioco di svelamento e oblio.”
“Oh, lei è un filosofo!”
“No, ragazza mia, sono solo un vecchio molto stanco. I vecchi hanno familiarità col tempo e lottano con la memoria”, disse l’uomo volgendo in giro lo sguardo, come se gli occhi scurissimi cercassero intorno immagini perdute.
“Che mi dice della leggenda; secondo lei che fine ha fatto, in realtà, quel Pervanger?”
“Mah, che vuole che le dica, ognuno ha diritto di finire come vuole; non le pare?” Lucilla restò perplessa, ma non volle insistere e passò a chiedere altro: “Ha visto la villa quando era ancora in piedi?”
“Oh no, da secoli è andata distrutta; ma ne conosco le forme. Da giovane, all’università ero in architettura. Attraverso disegni e xilografie, ne ho studiato lo stile, molto interessante perché rappresentava un ultimo esempio di quel gotico lombardo tutto nostro, diverso dalle forme rinascimentali toscane, allora in voga, del Filarete. Per intenderci, l’architetto dell’ospedale.”
“Ma l’ospedale non fu costruito nel ’39?” domandò Floriana, che fino a quel momento era rimasta ad ascoltare.
“Parlavo di Ca’Grande”, rispose l’uomo “l’antico ospedale, attuale sede dell’Università.”
“Ma è una fortuna incontrarla!” esclamò Floriana. “La mia amica si interessa di stemmi, io invece mi occupo di architettura e lei potrà di sicuro darmi un suggerimento su come affrontare lo studio del cinquecento lombardo.”
“Ma certo. Perché non prova a limitare l’ambito della ricerca alle ville niguardesi? Non può affrontare in blocco il Cinquecento; sarebbe gravoso e lunghissimo… ascolti, io abito qui vicino. Vede quella casa grigia laggiù? Lì dietro, al numero 6, c’è la mia modesta dimora. Se mi aspettate, vado a prendere un libro che può interessarle. Devo averlo a portata di mano. Torno subito.”
L’uomo si allontanò con passo leggero, senza appoggiare a terra il bastone. Le due ragazze rimasero a guardarlo. “Che tipo strano!” disse Floriana.
“Cammina in modo curioso. Che se ne fa del bastone, se non lo usa? Ma quanto è alto!”
“E quanto è magro! Ma torniamo al mio blasone, Floriana, e al mio Bernar.”
La vita di Bernar – riprese a dire Lucilla – è un percorso altalenante di ascese, cadute, risalite. L’uomo mi affascina perché è uno che non demorde. Come un ariete rampante non si lascia impressionare dalle difficoltà, quando la sua strada è in salita. Senza perdersi d’animo, persegue il suo sogno: la pubblicazione di una grande opera.
La sua situazione economica già florida – ma al tempo della peste minacciata dalla mancata corresponsione degli affitti – migliora grazie agli incarichi ottenuti col favore della signoria dominante, al punto di poter acquistare altri poderi in Brianza. Intanto si sposa; dall’unione nascono cinque figli; lo stemma dice il vero: i Pervanger erano prolifici.
Poi alla gloria succede la disgrazia. Il crollo della dinastia dominante coinvolge i cortigiani del duca. E il futuro si tinge ancora di nero. La moglie di Bernar muore, mentre lui viene privato delle sue cariche, e quindi degli emolumenti a esse connessi. Tornano tempi duri ma nonostante tutto Bernar, ritiratosi in campagna, porta a compimento il suo lavoro. Del resto, chi avrebbe potuto dubitare che l’opera non giungesse a vedere la luce. Non era forse, Bernar, un Pervanger? Non apparteneva a una famiglia che aveva come emblema l’ariete, simbolo di perseveranza?
“Già l’ariete.” fece Floriana ancora dubbiosa.
Questo particolare – riprese Lucilla – mi ha dato da pensare, perché la presenza dell’ariete nei blasoni è molto rara, e in genere si trova negli stemmi di comunità montane. Così cercando e ricercando ho trovato lo stemma di Coira, città del cantone dei Grigioni. Pare infatti che in tempi lontanissimi i Pervanger, originari del cantone, si fossero trasferiti dalla Svizzera in Lombardia.
Lucilla continuò a scartabellare nella sua carpetta e a mostrare all’amica altre fotocopie a colori: “Vedi, questo è lo stemma di Coira; comprende i tre stemmi della Repubblica delle tre leghe. Il primo quarto, in nero e argento è l’emblema della lega grigia, il secondo è della lega delle dieci giurisdizioni, mentre lo stambecco è l’emblema della ca ‘ di Dio e, nel duecento, l’emblema del vescovo di Coira. Perciò ho azzardato l’ipotesi che l’argento e l’oro, presenti nel blasone dei Pervanger, derivino dallo stemma della lega grigia, mentre l’ariete potrebbe essere una variante dello stambecco saliente. Del resto ariete o capro negli stemmi spesso hanno la stessa valenza simbolica. Quindi anche lo stambecco, perché appartiene alla sottofamiglia dei caprini.”
“Uh, che lavoro! Ma se lo stemma è quello là sul muro, col leone, tutte le tue ipotesi crollano.” Commentò Floriana. Lucilla non le badò.
“Comunque sia, Bernar, degno discendente dei Pervanger era un uomo perseverante di sicuro. E forse scrivere lo aiutò a dimenticare, almeno in parte, le dolorose vicende della sua vita. Volle quindi pubblicare l’opera, ma la gloria giungerà postuma; al momento l’impresa gli causò solo la rovina economica. Dopo di che, di lui si persero le tracce. Altro non è dato sapere.” La ragazza tacque, pensosa.
“Lucilla, ma quel signore non è tornato più. È già trascorso più di un quarto d’ora.”
“Hai ragione, Flo. Parlando, non me ne sono accorta. Perché non gli andiamo incontro?”
“Sì. Intanto chiacchieriamo. Stavi dicendo “si persero le tracce”?”
“Già non si conosce la data di morte, né come avvenne. C’è chi lo dice scomparso nel torrente a causa della piena; altri fanno intendere che non sia stato un incidente, ma la vendetta di alcuni nemici personali. Alcuni affermano che fu seppellito. Ma di uno che sparisce non si trova il corpo. Insomma è una vicenda molto ingarbugliata.”
“Vedo che questa storia ti affascina più dello stemma.”
“Ma sì, perché l’araldica si limita a descrivere i blasoni. Dietro quegli stemmi però ci sono vite, persone.”
Intanto le due studentesse erano arrivate alla casa grigia. Girarono l’angolo e si trovarono su una strada senza sbocco, dove sorgeva una palazzina a due piani proprio di fronte ad alcune case basse. Usciva, da uno di quegli usci, una donna dal portamento fiero che teneva per mano un bimbo.
“Ecco il numero 6. È qui.” disse Lucilla.
“Ma… sembra una casa abbandonata. Non c’è nemmeno il campanello”, fece Floriana “dai, lasciamo perdere. Andiamocene.”
“No, aspetta Flo, domandiamo a quella donna. Ehi, guarda lo stemma sul cancello: quello è un ariete! La casa potrebbe essere questa. Sullo stemma non mi sono sbagliata.”
“Scusi signora”, chiese Lucilla indicando la palazzina, “non c’è campanello. Forse c’è un altro ingresso?” La donna si fermò per soffiare il naso al piccolo e a sua volta domandò: “Parla di quella?” disse, accennandovi con un gesto del mento.
“Già al numero 6.”
“Ma lì non ci abita nessuno. Da sempre, per quanto ne so io.” Rispose la donna, prendendo in braccio il bimbo che cominciava a frignare.
“Non ci abita un signore anziano alto e magro che porta un bastone? Forse un architetto… lo abbiamo incontrato poco fa e ha detto che abitava proprio qui.”
La donna, sul punto di allontanarsi, rispose: “ No, no. Non lo conosco proprio; non so di che state parlando.
“Ma a chi appartiene quella casa o a chi apparteneva, lo sa?”
“Si diceva a una famiglia con un nome tedesco, credo. Non ricordo. Ma non parlo di ora, molti secoli fa. Erano i nobili del paese”
“Pervanger?” chiese con ansia Lucilla.
“Ecco, sì: Pervanger.” Rispose la donna allontanandosi e lasciando le due ragazze interdette davanti al cancello chiuso.
“Andiamocene subito da qui” fece Floriana “troppi misteri in questo posto. Quella donna sembrava aver paura di parlare.”
“Ma tu non dovevi andare in biblioteca?”
“Quasi, quasi ci rinuncio.”
“Via, abbiamo tempo. Andiamo.”
“Sì, ma solo per vedere se hanno un libro che mi interessa; non devo leggerlo adesso”, disse Floriana.
“Va bene; io intanto ne approfitto per consultare una raccolta di xilografie.”
In biblioteca Lucilla trovò subito il suo volume e si mise seduta a sfogliarlo. Dopo qualche minuto Floriana la raggiunse e si sedette accanto a lei. Non aveva trovato il testo che cercava, ma le piaceva l’atmosfera che regnava nella sala, il silenzio, l’odore della carta, lunghi tavoli antichi e librerie in noce. Stava osservando la sua amica, intenta nella lettura, quando a un tratto la vide sobbalzare.
“Che ti succede?” sussurrò.
“Guarda qui.” fece lei di rimando e le passò il libro.
“Omammamia!”
La xilografia rappresentava un uomo del tutto simile al signore anziano incontrato nella mattinata. Gli occhi, vivacissimi, erano identici. Soltanto la barba e i capelli erano bruni. Sotto l’immagine la didascalia: Bernar Pervanger.
“Lucilla torniamo a casa. Io mi sento quasi male.”
“Ma dai, mica vorrai credere ai fantasmi? È solo una coincidenza.”
“E il signore di stamattina?”
“Soltanto un vecchio burlone.”
In metro le due amiche non dissero una parola. Lucilla non riusciva a togliersi di mente il vecchio così stranamente somigliante a Bernar Pervanger sparito, proprio come lo storico del cinquecento, nell’afa della mattinata.
“Ognuno ha il diritto di finire come vuole.” Quella frase l’aveva colpita, ma non ne aveva capito il senso. Lucilla ci pensava e ripensava… a un tratto esclamò: “Ci sono!”
“Che? Dove sei, che vuoi dire?”
“Forse ho trovato una risposta al mistero che circonda la fine di Pervanger.”
“Ah, ma allora è proprio una fissazione!”
“No, Flo. È una ricerca che mi appassiona. Prima o poi troverò in qualche libro la soluzione dell’enigma, ma intanto mi lascio andare alle mie romanzesche congetture. Chi mi assicura che Bernar sia caduto nel torrente in piena?
Mi piace pensare che non si trattò di una malaugurata disgrazia, né di una vendetta. Una volta pubblicata l’opera, il compito dello storico era stato assolto. Quali ragioni gli restavano per vivere, privo dell’affetto della moglie e per giunta in ristrettezze economiche?
Ma Bernar era un signore e come tale avrà deciso di andarsene con eleganza. Forse, approfittando della piena del Seveso, volle simulare il fatale incidente che avrebbe conferito alla sua fine l’alone della leggenda.”
“Be’, e perché ora ti viene in mente il suicidio?”
“Perché ognuno ha diritto di finire come vuole, Floriana.”
commento a "Numero 39587" di Byron