- Il giardino di pietra :
- Ma che storia, Mirella!
Leggendo mi pareva che tu avessi fatto la traduzione da una fiaba giapponese: ritmo, costruzione delle frasi, scelta delle parole restituiscono un’ambientazione e suoni che mi hanno consentito di calarmi alla perfezione nel racconto. Anche il contenuto della storia è pieno di rimandi alla cultura nipponica.
Ho amato la descrizione del giardino zen, tutto appare in una dimensione onirica molto simile a quel “dormiveglia” che si sperimenta durante la meditazione (per chi riesce a ottenere quel magico stato”.
Nei tuoi scritti così ricchi di dettagli e curati ci sono sempre verità e magia e tutto diventa credibile.
Il tuo patto finzionale con il lettore è rispettato fino alla fine.
Bravissima Mirellasan.
L’ultimo gruppo di turisti è appena uscito e io finalmente mi posso godere il silenzio di queste antiche sale. I passi rimbombano nei corridoi vuoti, gli sguardi dei ritratti appesi alle pareti sembrano seguirmi con affetto. In fondo, anche io come loro vivo in questo castello di Malmö da più di duecento anni e dunque è da parecchio tempo che ci facciamo compagnia.
Se vi state chiedendo se io sia un fantasma, vi libero immediatamente dal dubbio: sono vivo, in carne e ossa proprio come voi.
Come ogni sera scendo nei sotterranei, mi chiudo nella mia stanza e mi preparo un buon caffè. Mi piace annusare l’aroma che si sprigiona dal barattolo in cui conservo i chicchi. Anja, la tenutaria del castello, riesce sempre a procurarmi la mia miscela preferita, una giusta proporzione tra varietà arabica e robusta.
I chicchi hanno una loro bellezza che mi affascina: difficile resistergli. Per questo ho istituito un mio personale rituale: li osservo e con estrema cura ne scelgo tre dal barattolo per assaporarli nel silenzio. Lucidi e croccanti quei piccoli scrigni tostati, scrocchiano sotto i denti e io mi lascio conquistare dal loro gusto amaro e ricco di profumi. Infine, inserisco una piccola quantità di quei grani nel macinacaffè. Detesto le moderne diavolerie elettriche che, frantumando velocemente i chicchi li scaldano rovinando gran parte del loro aroma. Anja mi ha procurato un vecchio macinino a mano. Sembra un piccolo mulino. In alto ci sono gli ingranaggi e una finestrella attraverso la quale si inseriscono i grani, in basso c’è un cassettino per raccogliere la polvere del caffè macinato.
Procedo con lentezza godendomi ogni scricchiolio. Il macinino produce lo stesso rumore di una pioggia battente, dei sassi accarezzati da un torrente dopo il disgelo, del crepitare del fuoco sul camino. I ricordi affiorano nella mente e io li lascio invadere la stanza insieme all’aroma che si sprigiona dalla caffettiera.
Il mio nome è Olaf Bergen e la mia storia ha avuto inizio molti anni fa.
Sono nato a Orebro un incantevole villaggio nel cuore della Svezia sulle rive del lago Hjalmaren, tra foreste di conifere sempreverdi e idilliache casette di legno.
La mia famiglia viveva proprio in una di queste casette nei pressi del fiume Svartan che attraversa il centro di quella che oggi mi dicono essere diventata una grande città. Mio padre era un falegname e mia madre accudiva la casa e si preoccupava di crescere me e mio fratello gemello Bjorn.
La nostra vita fluiva lenta e senza scosse proprio come un fiume in pianura, ma io e il mio gemello capimmo presto che tutta quella serenità non faceva per noi. Il sangue vichingo che scorreva nelle nostre vene reclamava viaggi avventurosi, terre da conquistare, nemici da piegare.
Fu così che un giorno, abbandonata la nostra casa, prendemmo in mano le redini del nostro destino.
Ci sentivamo forti e inebriati dal gusto della libertà. Per sopravvivere cominciammo a eseguire prima piccoli furti giustificati dalla fame poi, ci facemmo sempre più arditi, fino al furto di due cavalli. Del resto, non potevamo certo continuare il nostro viaggio a piedi.
Purtroppo, la figlia del padrone di quegli splendidi animali ci scoprì e cominciò a strillare a più non posso. Bjorn la raggiunse alle spalle e le tappò la bocca, ma quella scalciava come una puledra impazzita e così, servendoci di una grossa pietra, le fracassammo la testa scrivendo la parola fine sulla sua e sulla nostra vita. Non ne vado certamente fiero, ma quello fu l’unico modo che trovammo per zittirla. Non ci fu tempo per provare rimorso, dovemmo scappare il più lontano possibile.
Sebbene fossimo giovani e agili, la nostra fuga fu del tutto inutile: in breve tempo avemmo alle costole tutto il Paese. Cercammo riparo nel fitto della boscaglia, ma fummo raggiunti e imprigionati.
Per quelli come noi il verdetto non poteva che essere funesto: pena di morte per decapitazione.
Fummo rinchiusi nei sotterrai del castello di Malmö per essere consegnati al boia dopo mesi di stenti e di dolore.
I nostri carcerieri, temendo che potessimo approfittare della nostra assoluta somiglianza per giocare loro qualche tiro mancino e tentare la fuga, ci incatenarono insieme e ci condussero nella stessa lurida cella.
Dalla piccola feritoia in alto, filtrava una lama di luce che ci serviva per capire se fosse notte oppure giorno. Il buio ingoiava le nostre misere esistenze. Un po’ di paglia umida costituiva il nostro giaciglio; non venivamo slegati neppure per i nostri bisogni fisiologici. L’aria era una mistura irrespirabile di odori pestilenziali.
Acqua e cibo ci venivano forniti una volta al giorno attraverso una piccola fenditura nella parte bassa della porta da cui passava a malapena una ciotola piena di una brodaglia nauseante. Nostra madre non l’avrebbe mai servita neppure ai porci.
All’inizio non volevamo mangiare e restituivamo la ciotola piena poi, con il tempo, la fame ebbe la meglio e ci adattammo.
Ben presto ci rendemmo conto di non essere soli in quel buco: un giorno sentimmo dei piccoli colpi provenire dalla parete.
«Ehi, fratello chi sei?» Chiedemmo in coro.
Tendemmo le orecchie, ma le mura erano troppo spesse e non riuscimmo a sentire che una specie di risata sgangherata che proseguì senza sosta per tutta la notte.
Il giorno dopo, quando il primo raggio di luce filtrò nella cella, capimmo. Lo sferragliare del mazzo di chiavi ci segnalò la presenza delle guardie. Lo scricchiolio sinistro di una porta e il rumore inconfondibile di catene trascinate da passi stanchi, potevano solo significare che era giunta l’ora della “libertà” per uno dei prigionieri. Il boia avrebbe finalmente posto fine alle sue sofferenze. Le risate scomposte di quell’uomo tra imprecazioni e sputi, risuonarono a lungo nelle nostre teste. Più volte nei mesi successivi arrivammo ad augurarci che arrivasse anche per noi, prima possibile, quel giorno. Dovemmo aspettare a lungo, ma, alla fine, scoccò anche la nostra ora.
Se chiudo gli occhi, ricordo distintamente il cigolio delle chiavi dei carcerieri che vennero a prelevarci. Eravamo sporchi, puzzolenti. I nostri capelli biondi trasformati in una massa informe e pidocchiosa. Relitti umani pronti per la fossa.
«Non possiamo portare questi sacchi di merda davanti al re!» disse il più alto dei due.
«Ma che schifo! Io non li tocco» rispose il piccoletto che evidentemente era quello destinato a fare il lavoro sporco.
Ci fecero alzare in piedi a suon di bastonate, ma le gambe, ormai, non riuscivano a sostenere neppure il peso leggero dei nostri corpi malandati. Così dovemmo proseguire a gattoni, proprio come le bestie che eravamo diventati. Mentre le mani affondavano nel pavimento putrido, una domanda ci martellava nella testa: “Che c’entra a il re?”
Sta di fatto che le guardie ci condussero in una stanza in cui c’era una grande tinozza di legno. Ci ordinarono di spogliarci e, senza troppi complimenti, ci fecero infilare dentro l’acqua gelida.
Poi, ci fornirono dei teli per asciugarci e degli abiti ruvidi. Infine, ci furono rasati i capelli.
Bjorn sembrava una pecora dopo la tosatura, rosa, tutto pelle e ossa. Essendo io il suo gemello, rabbrividii pensando di avere la stessa immagine.
Fummo condotti all’aperto e ricordo nettamente il dolore che provai: gli occhi erano rimasti nell’oscurità troppo a lungo. Dovevo tenerli chiusi per non farli lacrimare e così non mi resi subito conto di cosa stava accadendo. Evitavo accuratamente di parlare con mio fratello temendo le reazioni dei carcerieri, ma, pur restando muti, riuscivamo a capirci al volo.
Ci fecero salire in una specie di carro e con nostro immenso stupore ci condussero nientemeno che al cospetto di re Gustavo III di Svezia.
«Maestà, ecco la feccia che ci avete ordinato.»
Le guardie ci servirono una bastonata nell’incavo dei ginocchi per farci inginocchiare davanti al sovrano.
«Brutti caproni! Inchinatevi come si deve davanti al vostro sovrano e non osate alzare lo sguardo!»
Il re era un uomo elegante e curato, i lineamenti delicati gli donavano un aspetto quasi femminile.
Se ne stava seduto ad almeno cento passi da noi, ma potevamo ugualmente sentire l’odore degli unguenti che profumavano il suo corpo. Non saprei giudicare che età potesse avere, indossava una parrucca bianca, immagino pettinata alla moda del tempo.
«Fateli alzare e avvicinare alla mia persona.»
Eravamo ancora incatenati insieme e dunque facemmo molta fatica a muoverci. Quando fummo abbastanza vicini, con nostra sorpresa, il re venne verso di noi.
Le guardie gli fecero immediatamente da scudo, ma lui le allontanò con un gesto della mano garbato, ma deciso.
Re Gustavo rimase a lungo a fissarci senza parlare. I piccoli occhi saettavano da Bjorn a me e viceversa, come per cogliere ogni più piccola differenza tra noi. Poi, ci chiese di mostrargli le mani e i piedi. Infine, esordì:
«Sembra proprio che la natura si sia divertita con voi. Siete bizzarri, simili come due gocce d’acqua sia nel fisico che nelle attitudini a quanto pare. Entrambi efferati assassini, il che ha dell’incredibile. Molto bene, le nostre fonti ci avevano bene informati al riguardo. Credo che abbiamo trovato le persone giuste per la nostra dimostrazione.»
Quindi, si allontanò da noi e tornò a sedersi sulla sedia regale continuando a rimanere in silenzio per alcuni minuti che ci sembrarono eterni. Eravamo davvero confusi e non sapevamo cosa aspettarci. Non potevamo certo immaginare cosa aveva in serbo per noi il destino.
Eravamo in ginocchio, col capo chino, quando re Gustavo sentenziò:
«Abbiamo preso la nostra decisione. Rallegratevi perché avete incontrato i nostri favori. Noi commuteremo la vostra condanna a morte, in carcere a vita.»
Quella notizia ci sconvolse. Non sapevamo se essere felici o se chiedere al re, la grazia di essere giustiziati. Il pensiero di dover tornare in quella lurida cella ci era più insopportabile di quello della nostra stessa morte.
«Tuttavia, per ottenere questo, dovrete sottoporvi a una prova» proseguì.
All’unisono facemmo un cenno di assenso con la testa.
«Al prigioniero alla nostra destra - mio fratello Bjorn - vengano somministrate cinque tazze di tè al giorno per tutta la vita che gli resta. A quello alla nostra sinistra, vengano invece somministrate cinque tazze di caffè al giorno.»
La condizione ci parve davvero singolare. Non avevamo mai assaggiato tali bevande e così accettammo di buon grado la nostra sorte.
Il re non era diventato improvvisamente magnanimo, ma pensava che saremmo ben presto morti avvelenati. Ma questo noi non potevamo saperlo.
Fummo nuovamente condotti in carcere e, come stabilito dal re, ogni giorno ci venivano servite tazze fumanti di tè e caffè. Dovevamo ingurgitarle fino all’ultima goccia, sotto lo sguardo vigile delle guardie di sua maestà.
Man mano che il tempo passava, ci sentivamo sempre più forti, al punto che cominciammo a fare progetti per evadere e riprenderci le nostre vite.
Dopo qualche settimana, apprendemmo che re Gustavo era rimasto vittima di un attentato e dunque lui non riuscì mai a conoscere l’esito della stramba condanna.
Stranamente, dopo la morte del re, la nostra assurda pena continuò e venimmo a sapere che ormai tutto il popolo faceva delle scommesse su quanto saremmo sopravvissuti.
Medici, nobili e intellettuali, venivano ammessi nel carcere per assistere alle nostre bevute e ben presto si convinsero che tè e caffè avessero dei poteri straordinari.
Purtroppo non riuscimmo mai a evadere, ma riuscimmo a vivere per molti anni in buona salute.
Bjorn, mi lasciò che aveva più di ottanta anni. Quando morì, pretesi che fosse sepolto nella nostra cella. Era un modo per averlo sempre vicino a me. Pensai che molto presto lo avrei seguito e giurai di non separarmi mai da lui fino alla fine dei miei giorni.
Sono ancora assorto nei ricordi, quando l’aroma del caffè, mi riporta alla realtà.
È passato così tanto tempo da allora che nessuno si è più ricordato di me. Il castello ha subìto tante trasformazioni, ma sono riuscito a trovare sempre il modo di sopravvivere e lavorare per guadagnarmi un pasto caldo e una buona tazza di caffè. Ho mantenuto fede alla promessa fatta a mio fratello e non sono mai uscito da queste mura.
Oggi, accompagno ignari turisti a visitare le sale del castello di Malmö e le sue antiche prigioni, ma comincio a sentirmi davvero stanco. Uno strano destino il mio, condannato a vivere e incapace di darmi la morte.
La caffettiera borbotta e il vapore che fuoriesce dal beccuccio invade la stanza. Spengo il fuoco e mi avvicino alla credenza.
Ho scelto a caso una data sul calendario per festeggiare il mio compleanno dato che non ricordo più quando sono nato. Per l’occasione Anja mi ha regalato una tazza speciale da una parte c’è inciso il mio nome e dalla parte opposta ho voluto che ci facesse incidere il nome del mio gemello. Non ha capito perché, ma ha esaudito il mio desiderio.
Nessuno ha mai conosciuto la mia storia prima di oggi. Ora mi sento rinato a nuova vita, libero finalmente dal peso del mio segreto.
Verso lentamente il liquido bollente e aromatico. Perché sono vissuto tanto a lungo? Forse è stato proprio il caffè ad allungarmi la vita e... la prigionia. Non ci avevo mai riflettuto. So quello che devo fare: questa sarà la mia ultima bevuta.
Le mani la stringono la tazza in un ultimo caldo abbraccio. Il vapore mi annebbia la vista, l’aroma mi inebria. Chiudo gli occhi e sento forte il richiamo di Bjorn: è tempo che io lo raggiunga, ho scontato fin troppo a lungo la mia condanna.
Ultima modifica di Petunia il Gio Mar 11, 2021 5:53 pm - modificato 2 volte.