Succede sempre che all’improvviso mi rendo conto di essere sola.
È difficile da spiegare.
Gli altri sono nati soli. Gli altri erano uno, alla loro nascita. Quell’uno irripetibile che dà all’essere umano la percezione dell’immortalità. La sensazione di essere Dio. Anche se io non lo so, che cosa si prova.
Siamo pari, in un certo senso. Io non comprendo questa impressione di onnipotenza, gli altri non possono comprendere la sensazione del doppio. Della perfezione del numero due. Dell’essere in due, sempre.
O almeno il sempre è quello a cui si aspira.
E io invece sono sola.
Quella storia della metà della mela, be’, solo se avete un gemello la potete capire davvero. Altrimenti si è una mela intera già da soli. Non serve cercare altrove.
Non serve, quindi, fare quello che sono obbligata a fare io. Ogni fottuto giorno.
Dove la trovi una persona che possa diventare la tua metà, quando la tua vera metà è morta?
Io, per non dover fare troppa fatica, la cerco in alcuni bar di infima categoria, dove posso scambiare qualche prestazione sessuale e avere il ritorno di qualche birra, due risate, il potere del fascino.
Ma di metà, manco l’ombra.
Tendi a sfoltire la tua vita, quando resti così sola. Tendi a dividere il mondo da te con fossati, coccodrilli e perfidi incantesimi.
Via i conoscenti, prima. Poi gli amici che non vedi molto spesso. Poi a cerchi concentrici arrivi agli affetti più cari, per allontanarli.
E chi ti parla, chi ti chiede, che cazzo capisce? Nulla, nulla di nulla di nulla.
Allora vado per bar e aspetto. Come una mascherata che si ripete ogni sera, aspetto che arrivi qualcosa che posso sentire dentro come una costola.
Ma sono sola, anche stasera.
Appoggiata al bancone del bar, un piede nudo che dondola, disegno ghirigori su un tovagliolo stropicciato.
Lo faccio tutte le sere. Ci passo il tempo, un tempo che non fa altro che rotolare nell’eco della mia solitudine. I ghirigori, a dirla tutta, mi fanno sentire ancora più sola.
Sento il suo profumo appena entra.
Come di mela, ecco. Di mela verde e croccante.
Mi è già capitato, un paio di volte. Falsi allarmi, solo i miei fratelli venuti a recuperarmi in qualche posto più squallido degli altri.
Non mi volto neanche, quindi. Non ha senso. Basta illusioni.
Ordino un altro whisky, tiro fuori le sigarette, me ne accendo una. Mi stupisco di quanto siano ferme le mie mani.
«Cosa succederebbe se una di noi due morisse?» mi chiedevi.
E io lo chiedevo a te. Non c’era risposta, no. Non le avevamo, noi, le risposte.
«Non succederà nulla. A noi la morte non ci può dividere. Se tu morissi, morirei anche io. E viceversa, direi».
«Io no, Sara. Io, se tu morissi, non morirei. Continuerei a vivere per tutte e due».
Che sciocca che sono stata, a crederti. Me lo dicevi solo per convincermi, per essere certa di strapparmi quella promessa: «Se tu muori, io non muoio. Io continuo a vivere per tutte e due».
Una promessa fatta a diciotto anni. Una promessa da mantenere a venti. Sono dieci anni che provo a mantenerla.
Ma io non vivo per tutte e due. Io sopravvivo a stento per l’ombra di me.
Sorrido al ghirigoro che mi ricambia, sorseggio il whisky.
Risento quel profumo, accanto a me.
«Ciao».
Ho pensato sempre che se non rispondi a un ciao, chiunque lo abbia pronunciato prima o poi deciderà di andare via. Quindi sto zitta, e aspetto. Ricordo di avere una voce solo quando devo ordinare da bere.
Una mano si allunga verso il mio tovagliolo. È una mano banale, una mano qualunque.
Stringo gli occhi. Sono proprio una stupida.
Lo pronuncio a voce abbastanza alta e lei, questo donna che profuma di mela, si sente in dovere di intervenire in questo dialogo interiore.
Lo fa nel modo giusto, ecco.
«In effetti non rispondere a un mio ciao non è stata una mossa intelligente».
«Scusa, il tuo odore… ecco, pensavo fossi un’altra persona…» forse dovrei dirglielo senza tentennare, a costo di passare per squilibrata: Pensavo fossi la mia gemella morta 10 anni fa. Sai, avete lo stesso odore.
«Lo pensavo anche io. Pensavo che tu fossi un’altra persona. Ma invece io sono io e tu sei tu, e io devo proprio andare, adesso».
Alzo gli occhi.
Succede qualcosa che non succedeva da talmente tanto tempo che non lo ricordavo neanche più, quello che si prova. La sensazione di non essere soli. Di non essere a metà.
«Ma forse tutto sommato, sei proprio tu» sussurra.
Si siede meglio sullo sgabello, posa la borsa a terra e ordina una birra.
«Ti avviso - mi dice, raccogliendosi i capelli tra le mani e trasformandoli in un nido - non so bene che succede, ma io ora mi siedo qui. Perché ne ho bisogno. Mi basta solo stare qui».
Avvicino un po’ il mio sgabello al suo, brindiamo.
Respiro, piano piano.
Nessuno lo può capire.
Questo bar è l’alternativa alla bara. Solo una lettera li divide. E io una A la porto sempre, in borsa.
Il cimitero è buio, vicino alla tomba di Rebecca. Vicino alla tomba di Rebecca non riesco più a sentire il suo odore, ormai. Non riesco più a sentire lei, non riesco più a sentire me. Tocco il mio corpo ma è come se non avessi il tatto. Non lo sento mai intero.
Ma adesso sì. Stasera sì.
Mi avvicino di più a lei, mi sento calda. Riesco a toccarmi le braccia, a sentirmi intera. Sono tutta, ecco.
Ci rimaniamo per ore, in quel bar.
Scambiamo poche parole, brindiamo, alle volte ci sorridiamo piano.
Spalla a spalla ci godiamo questo piccolo tempo perfetto che sta attraversando, di nuovo, le nostre vite.
Alla chiusura ci alziamo e usciamo, entrambe malferme sulle gambe.
«Se lo facessimo almeno una volta alla settimana – mi dice, alzando gli occhi – riuscirei finalmente a vivacchiare, invece di sopravvivere».
«Se lo facessimo almeno due volte, la vita comincerebbe di nuovo ad avere un senso» aggiungo.
«E dalle tre volte in su, ho la sensazione che andrebbe tutto dannatamente meglio» termina, facendomi l’occhiolino.
Ridiamo. Ci stringiamo le mani.
Dopo, poi, ascolto il rumore dei miei passi mentre torno verso casa. Respiro, annusando gli odori del mondo, di nuovo.
Domani comprerò delle scarpe rosse. Rebecca le adorava, le scarpe rosse.