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- Questo racconto è una sorta di divertissement, sicuramente la cosa più strana che io abbia mai scritto ma anche una di quelle a cui sono in qualche modo più legato e affezionato. Ho raccontato a cena a Mario di questa mia follia; la sua risposta è stata che "se siamo matti per davvero il cielo non ci fa più caso". E tant'è.:
a Mario Castelnuovo, liberamente ispirato all'album "Venere", 1987
Mi chiamo Venere.
Nel mio nome, di bello, c’è solo lo scherzo che il destino mi ha fatto. In comune, io e il pianeta (non certo io e la dea), abbiamo anche troppo: il rame.
Due genitori portatori sani; come potevano immaginare?
Quante volte sono andata via da te.
Ho consumato le scarpe e il cuore, vivendo così, sempre in fuga da troppe cose, da troppe persone… E ora mi sorprendo a parlare di te, di piazze deserte in cui giocavo da bambina. Eri bellissima, ma non lo capivo, non lo sapevo.
Come ti vedo cambiata, da allora. Adesso non dormi più di notte, quanti uomini frequenti…
Un giorno mi dimenticherò di te, lo so. Ma ci sarà sempre qualcuno che griderà al mondo che tu sei la più bella di tutte, o mia Roma.
Mi sarei dovuta fare suora. Come quelle suore che sbucavano dal nulla in ogni viuzza con le loro scarpine veloci, come rondini che all’improvviso ti passano sulla testa nei pomeriggi primaverili.
Non ho mai saputo dire se mi sembrassero felici o meste; di sicuro nostalgiche, come suor Angelica, la mia catechista, quando parlava di musica… Com’era bella!
Lei mi pareva la più triste di tutte perché pensava al pianoforte abbandonato anni prima, ma ho sempre creduto che tutte loro avessero un ricordo che le rendesse nostalgiche: un ragazzo, per esempio… Anche fosse un ragazzo solamente pensato, i cui capelli fossero stati accarezzati soltanto con la fantasia.
Erano in grado, quelle suore, di provare l’amore?
Ho lavorato in un negozio del centro, tempo fa. Ricordo due ragazzini che mi perseguitavano: non capivano che ero troppo grande per loro. Quanti bigliettini d’amore!
Non mi sovviene come si chiamasse quello che, una volta, mi disse che mi aspettava ogni sera all’uscita dal lavoro solamente per potermi sognare.
Odiavo gli Americani. Fu per colpa loro che decisi che dovevo scappare, diventare un’altra donna, anche se questa era una scommessa con una posta altissima. Ero fragilissima, ma il cielo di Roma ricoperto di aerei militari somigliava sempre più all’immagine che avevo di me. Non distinguevo più il rumore dei temporali, e smisi di amarli. I giorni si inseguivano inutilmente, quell’inverno.
Poi, un pomeriggio, respirai quegli odori che trapassavano il cuore e disegnavano l’antico ricordo di un incendio: era di nuovo estate.
Una nuova vita in un posto diverso: mi aveva scelto quella città o erano stati i miei giorni sbandati ad avermici condotto? Ero una nuova donna, con più muscoli e meno dolcezza, ma finalmente potevo di nuovo amare i temporali improvvisi, quando il sole scompariva e il vento dominava la scena.
All’inizio non pensavo mai a casa mia, a Roma, alle mie amiche, alla mia famiglia. Man mano che gli anni passavano, però, guardavo sempre più le stelle. L’odore dei miei desideri era quello di mentuccia, il loro rumore quello dei cinguettii mattutini.
E di nuovo odiai i temporali, aspettando soltanto di unirmi a quel via vai di treni che sapevano del mio ritorno.
È arrivato il risultato della biopsia: dovrò smettere di mangiare per sempre funghi, frutta secca e frutti di mare. La buona notizia c’è: non potrò mangiare più neanche il fegato. Meno male: mi ha sempre fatto schifo.
Era una mattina d’aprile. Gli alieni, per me, erano stati gli americani una ventina d’anni prima; eppure sembrava proprio una navicella spaziale quella che era atterrata nel mio giardino. Io ero da sola, come sempre. La paura mi assalì.
Dalla nave spaziale discesa dal cielo venne giù un Cavaliere bellissimo. Iniziai a tremare, ma la paura non c’entrava più.
Dio, che meraviglia. Vedevo il cielo muoversi lentamente sopra di me, e ringraziavo tutti i santi per ogni suo sguardo. I miei girasoli erano tutti distrutti, ma io continuavo a fissare i suoi occhi.
La sua astronave era così grande… Se solo avessi potuto salirci, entrare dentro…
Benedetto il cielo, e la terra in cui facevo la contadina sulla quale era atterrato il Cavaliere. Benedette le mie lacrime finalmente sgorgate dopo anni.
Ma il mio pianto non lo convinse.
Fammi salire, scappare lontano da questo gelo.
Ma, mentre la neve era così alta da poterci sparire, in piazza aspettavano tutti lui.
Così, nel mio campo, piombarono di colpo i soldati: li seguì.
E io rimasi lì, da sola.
Che paura, il primo pomeriggio che entrai ai Grandi Magazzini. Non mi sentivo nessuno, perduta in mezzo ai numeri, alle persone, agli scontrini.
Non potevo rassegnarmi all’idea ignorante che agli altri può succedere ma a me no.
Che cosa sarebbe stato quello che mi era capitato, in un giorno futuro?
Un ricordo normale quando sarei stata forte, un ricordo speciale quando sarei stata sola…
Suonavano. Il prete mi benediva e mia madre mi stringeva, mentre le sue lacrime scivolano sul suo scialle, giù sulla strada, per non tornare mai più.
Suonavano, le campane. Ma non avrebbero dovuto suonare per me, accidenti, no!
Io avevo almeno altri cent’anni da vivere, un mappamondo da viaggiare, gerle da portare sulle spalle nude, pantaloni corti da indossare…
Ma suonavano per davvero, e sentivo la primavera coi suoi passi di pesca e viola, coi passi del dottore giù in cortile.
Io volevo almeno portare i capelli lunghi, sorridere al pianto di due figli, guardare oltre le colline…
Gli ultimi se n’erano andati. Sapevo che sarei rimasta da sola, ma tu tornasti indietro. Ti sedesti accanto a me, spegnesti le lampadine e insieme cominciammo a cantare. Tu ricordavi a memoria le parole, io no. Sentivo il cuore intenerirsi, liberarsi; sentivo freddo, ma eri tu a piangere, non io.
Dovevi correre, o avresti trovato la porta chiusa. Scomparvi dalla tua vista, ma mi stavi portando con te: era giusto fosse così.
Non rispondo al trattamento medico. Strano, in un soggetto della mia età. Purtroppo il danno epatico è stato fulmineo e significativo.
Li ho sentiti dire che, per me, un trapianto di fegato è escluso, visto che nel mio caso non si è certi della sua efficacia: non è mai stata dimostrata in soggetti con danni neurologici.
Mi svegliai: il sole era già tornato sulle antenne della città e in mezzo al prato, come se mi aspettasse per giocare insieme a quel pallone abbandonato lì in mezzo. Io ero una campionessa a giocare a calcio, anche se ogni volta c’erano almeno dieci bambini che urlavano quando la gonnellina mi volava un po’.
Chiusi la porta e rimasi al primo piano della mia casa. Nessuno avrebbe dovuto spiare il mio segreto, nemmeno il sole che mi aveva sfiorato i seni al fiume.
Eppure il fiume non stava aspettando me, questa mattina. Aveva fatto tardi anche la notte prima, e adesso avrebbe voluto starmi vicino e cullarmi, ma qualcuno mi aveva detto Amore e io adesso sapevo che, presto o tardi, sarebbe arrivato.
Non ero mai stata dentro a una nuvola, ma un figlio della strada mi ci aveva portato.
A me, a me che venivo dal mare, dai segreti delle stelle, dalle nuvole che sembravano tanti aquiloni da rincorrere…
Non ero mai stata dentro a un fiocco di neve, ma mi ci aveva condotto un figlio delle salite e del desiderio.
A me, a me che venivo da un porto dove il vento trasportava i profumi delle zingare innamorate.
Ma lui non aveva visto queste meraviglie, no: lui conosceva solo i temporali a ridosso delle colline, i fucili dei cacciatori di cinghiali. Non potevo stupirmi se il suo modo di amare fosse quello delle bestie di strada, con quegli occhi di ortica a bloccarti come una lepre davanti a un faro di luce, con quel fascino misterioso che ha un pilota davanti a un tramonto di vetro.
Così, in una notte stellata, con la rapidità del bracconiere, decise di riempire la mia solitudine col suo sudore, ferendomi con un ramo che non provocava dolore, accompagnandomi attraverso il fiume con la sua saliva, il suo fazzoletto e il mio maglione.
Ecco perché ora ho sempre freddo e l’inverno mi spaventa.