Se mi avessero detto allora che mi sarei trovato qui, in questa situazione, non ci avrei creduto. Che cosa banale da pensare, vale per tutti gli schiavi, da qualunque regione dell’impero provengano e qualunque sia la loro condizione. Forse vale anche per gli uomini liberi, che si credono liberi mentre è solo il fato che determina il loro presente e il loro futuro. Per la maggior parte di loro la vita scorre ordinata, qualche piccolo sobbalzo ogni tanto, come i carri che arrancano nelle strade di questa città puzzolente, obbligati nei solchi scavati da centinaia di carri prima di loro, per poi recuperare direzione e destinazione.
E non pensano, non pensano gli schiavi, i mercanti, i nobili. Sono certo che neanche l’imperatore pensa, allora perché io penso? Pensieri che non mi lasciano dormire; sento il mio corpo stanco stringere le palpebre mentre lascio galleggiare sull’orlo del sonno immagini sparse e incoerenti. Ogni tanto si compattano in pensieri ma non trovo nessun nesso logico tra immagini e pensieri e nessun disegno, nessun progetto. Ma non posso fare a meno di pensare, se la mia mente limitata di schiavo genera solo pensieri banali, che cosa ci posso fare? L’importante è che li tenga ben nascosti i miei pensieri, anzi che tenga ben nascosto il fatto di avere dei pensieri miei. Ho capito presto che ai padroni non fa niente piacere che gli schiavi pensino. Forse non sanno nemmeno loro perché ma lo sentono, come predatori, si aspettano, cercano la paura nelle loro prede e il pensare nasconde la paura.
Non posso fare a meno di pensare forse perché sono nato libero, da una ricca famiglia della tribù di Neftali, membro del glorioso popolo d’Israele, figlio di una civiltà molto più antica, più saggia e più colta di questi contadini che hanno lasciato l’aratro per la spada e che si pensano padroni del mondo solo perché oggi in questo minuscolo brandello di storia tengono soggiogate popolazioni e territori. Ma non durerà.
La rivolta del mio popolo cova da sempre sotto la cenere, ogni tanto affiora a suscitare la reazione rabbiosa dell’invasore che non pensa e non sa che ogni sua reazione agisce come il vento sulle braci e incendia il cuore di migliaia di giovani che non dimenticheranno.
Non dimenticheranno la distruzione del tempio di Gerusalemme; l’imperatore Vespasiano e suo figlio Tito saranno per sempre maledetti e dei romani rimarrà nella storia solo il sapore del sangue, il puzzo di bruciato e l’immagine delle distruzioni.
Ma devo dormire, domani devo lavorare sodo, il padrone mi ha prestato a questo suo amico più puzzolente e più ignorante di lui. Per fortuna almeno sua moglie è in grado, insomma appena un poco in grado, di apprezzare il mio lavoro altrimenti sarei già stato punito per il ritardo. Sto dipingendo il bancone di un termopolio, mi sta venendo davvero bene, bisogna dire, soprattutto le anatre e il cane; adesso devo finire solo qualche dettaglio. Peccato che di tutto quel cibo profumato che riposa nei doli mi arrivino solo poche briciole ma è pur sempre meglio delle verdure muffite che ci propinava il padrone.
Perché quella volta non mi è andata tanto bene. La situazione degli ebrei in Egitto era già difficile: gli egiziani ci odiavano perché eravamo evidentemente migliori di loro, più intelligenti, più colti, più abili quindi più ricchi della maggior parte di loro. Le poche famiglie una volta nobili alla corte dei faraoni che erano riuscite a farsi amiche, collaboratrici e complici degli oppressori romani, mentre da una parte continuavano a depredare il loro stesso popolo, dall’altra avevano facile gioco nell’indicarci come l’origine di tutti i mali della terra. I Romani poi ci temevano, non ci capivano quindi ci temevano. Non capivano la nostra cultura, il nostro orgoglio indomito pur nella sconfitta terrena. La nostra certezza di essere il popolo eletto; loro che trattavano i loro dei come anziani un po’ rimbambiti, temevano l’idea di un Dio senza volto e senza nome, un Dio a volte crudele e vendicativo ma che ci aveva dato, scegliendoci, la forza di sopravvivere ad ogni difficoltà, di combattere ogni battaglia, di credere in un futuro per sempre glorioso. Già, loro non sapevano neanche pensarci al futuro.
Quando Tito ha distrutto il tempio noi sapevamo che anche ad Alessandria la situazione sarebbe peggiorata ma non ci immaginavamo quanto. I romani che fino ad allora ci avevano lasciato vivere in pace, a parte dissanguarci con le tasse ma anche con questo in fondo riuscivamo a convivere, hanno cominciato ad accanirsi contro di noi. Tito ormai ci odiava, la resistenza dei nostri giovani praticamente disarmati a Gerusalemme aveva messo in luce la fragilità del suo dominio e le sue personali incapacità di comando. Per vendicarsi lasciò mano libera ai suoi in Egitto; lì eravamo in difficoltà, circondati da una popolazione ostile e lontani dalle fonti della nostra forza vitale.
A casa nostra, abitavamo in una splendida villa in Brucheum, fuori dal quartiere ebraico, mia madre si lamentava sempre per questo, prese alloggio Cordio, il comandante militare romano con la sua famiglia e la sua scorta. A noi fu consentito di restare in casa anche se costretti praticamente negli spazi che erano stati della servitù e in fondo come servi considerati. Ephraim, mio fratello, più piccolo di un paio d’anni, faceva fatica a sopportare, continuava a parlare di rivolta, di armi, di ritorno alla terra d’Israele. A fare piccoli gesti di scherno ai soldati, atti, nella sua testa, di ribellione. Un giorno l’ho sorpreso nell’orto dietro casa, scriveva cose sulla terra, poi le cancellava. “Che fai?” “Distruggo i soldati romani!” “E come?” Tracciò una X, la cancellò “Ho sterminato una decuria di cavalieri”. “Ma hai un’idea di quanti sono i soldato romani ad Alessandria?” “Tre coorti peditate e una equitata” “E lo sai scrivere?” “…” “Guarda!” Presi il suo bastoncino per lasciare sulla terra DDD D “Cioè, in totale” MM. Ridendo mi disse “Sarà ancora più facile distruggerli!” stava per cancellare la scritta ma lo fermai. “Ti sembra facile. In realtà devi togliere quelli di guardia al tempio, che sono intoccabili. Te restano così:” e scrissi MCMLXXXII. Rimase incerto davanti a quei segni complessi poi, lentamente si era mosso per cancellarli quando la palla di stracci con la quale stava giocando Miriam, nostra sorellina, si fermò rotolando proprio sotto la scritta. Di colpo mi sembrò perfetta.
Ancora adesso mi torna in mente quel numero e quella palla. Mentre cerco di prendere sonno quell’immagine perfetta mi agita nel profondo.
È l’ultimo momento sereno con la mia famiglia che ricordi, poi ho incontrato Flavia. Flavia era la figlia di Cordio, un po’ più piccola di me di forse quattro o cinque anni, io la trovavo bellissima. Mi ripetevo che dovevo odiarla, che era l’oppressore, che aveva distrutto il tempio ma non riuscivo a fare a meno di spiarla sperando di incrociare il suo sguardo. È ancora il ricordo del suo sguardo che mi tiene inutilmente sveglio in questa calda notte di ottobre, è la sua assenza che lacera il mio cuore.
Flavia passava molto tempo a tracciare segni su una tavola di legno, usava dei bastoncini immersi in polveri di vari colori, che spandeva anche con la punta delle dita. Era sempre molto concentrata e io ne approfittavo per guardare; spesso non capivo che cosa fossero quegli strani segni ma i loro colori mi affascinavano e mi affascinava soprattutto la sua bellezza. Un giorno sua madre Hennia mi ordinò di portarle in giardino un cesto pieno di frutta. La trovai intenta come al solito; mi fermai guardando la tavola di legno oltre le sue spalle finché si girò di scatto: “Ti piace?”. Feci un salto, non mi aveva mai rivolto la parola prima di allora. “Ti piace?”, insistette. “Sì molto, anche se non capisco bene che cosa sia, a che cosa serva”. “Come? È quel soldato!” indicando con aria offesa una delle guardie di suo padre nelle sue armi splendenti. “Scusa, non avevo capito”. “Prova tu allora, se sei così bravo!”.
Certo sapevo scrivere, avevo dimestichezza con stili e inchiostri ma le immagini erano assolutamente proibite «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra (Deuteronomio 5, 8-9)». Quelle parole rimbombavano nella mia mente mentre lo sguardo di Flavia diventava beffardo: “Vedi, non sei capace”.
Presi, forse un po’ sgarbatamente, la sua tavola di legno, la pulii con la sabbia come le avevo visto fare tante volte e mi misi all’opera mentre lei si allontanava fingendosi disinteressata. Se ci penso adesso, il mio soldato faceva davvero pena a guardarlo ma almeno si capiva che cosa fosse. Quando tornò glielo mostrai orgoglioso. Rimase un lungo attimo in silenzio poi cominciò a urlare. Arrivò di corsa una guardia, non quella che avevo ritratta, l’altra, ma non sapeva che cosa fare di fronte a quella bambina urlante. Da dentro casa corsero fuori due serve e la madre; Flavia cominciò tra i singhiozzi a dire che le avevo rubato la tavola e tutta sporcata e cose simili. La guardia mi aveva già afferrato per un braccio e colpito un paio di volte alla testa quando Hennia gli urlò di fermarsi; aveva la tavola in mano e mi guardava, come spaventata. “L’hai fatto tu?” L’espressione di Flavia e mia dovevano essere risposte sufficienti; mandò Flavia in casa con le serve, congedò la guardia, mi prese per il braccio già malconcio e mi trascinò dove stava mia madre.
Di fronte allo sguardo terrorizzato di lei raccontò l’accaduto e nella sua voce non mi sembrava di sentire rabbia ma incredula ammirazione. Mia madre si era rabbuiata “È vero?” mi chiese, accennai di sì con la testa.
“Non è mio figlio – disse – a noi è fatto divieto di fare immagini!” “Ma è bellissima!” ribadì Hennia. “NON È MIO FIGLIO”. L’urlo di mia madre mi trapassò il cervello; le due donne stavano in piedi l’una di fronte all’altra, lo sguardo acceso come a sfidarsi. La voce di Hennia era appena un mormorio “Va bene, vuol dire che sarà il mio”. Mentre mi trascinava via, ma molto più delicatamente che venendo, cercavo di voltarmi a vedere mia madre ma non ci riuscii e ancora non so se fu il corpo o la mente a impedirmelo.
Naturalmente non fu per niente così: Cordio non aveva nessuna intenzione di tenermi per figlio, la sua concessione fu che fossi schiavo di Flavia. Flavia voleva che le insegnassi, cosa che tentavo di fare senza grandi risultati in verità. Però di notte mentre dormiva, qualche piccola correzione ai suoi tentativi riusciva a fare contento Cordio. E di notte potevo con calma esercitarmi e sperimentare; Hennia di nascosto mi procurava del materiale e si compiaceva dei miei progressi. Non me ne rendevo conto ma non stava bene, era sempre più sofferente, sempre più debole. Fino a che tutto questo finì.
Cordio mi associava in qualche modo alla morte di Hennia, Flavia aveva smesso di divertirsi con i colori mentre io non mi ero certo stancato di ammirala, così mi ritrovai schiavo di Rabuleio, la guardia che per prima avevo ritratto, in viaggio per questa città ai piedi della montagna che fuma.
Non riesco a dormire, non posso tirare in lungo con il mio lavoro. Quando avrò finito mi rimanderanno da quell’animale di Rabuleio. Adesso che Vespasiano è morto e Tito è diventato imperatore, la vita di noi ebrei è diventata ancora più difficile. Avevo sperato che grazie ai miei dipinti avrei potuto andare a servizio in una famiglia un po’ più ricca, meno ignorante, magari addirittura essere liberato. Da liberto avrei potuto pensare ad una vita ad un futuro. E invece no! Sono qui chiuso in questo cubicolo come in una prigione, ebreo senza popolo e senza patria, amante senza amore, artista senza pubblico e senza fama, schiavo, feccia dell’umanità.
Il mio dio mi ha abbandonato in mezzo a questa gente selvaggia e spietata, non riesco ad accettarlo, sento crescere in me una rabbia incontenibile, mi sembra perfino che la terra tremi, che si stiano aprendo gli inferi sputando fuoco e puzza di zolfo.
Mi si chiudono gli occhi, meglio che cerchi di dormire almeno un po’, riposare per qualche momento ancora.