Provo a stirarmi, ad allungare le braccia sopra la testa, ma il dolore mi blocca.
Dove sono? Ogni volta che mi sveglio me lo chiedo, anche se sono passate quasi due settimane che sono qui. Cerco di ricordare, frugando con gli occhi, questa non è camera mia, non è il mio letto, le pareti sono bianche, un armadio con uno specchio lungo e stretto, scuro come i due comodini. Il paradiso, rispetto a quella dell’ospedale. Ho fatto una cazzata, lo so, ma che potevo fare?
Mi dai un altro calcio, come a voler risvegliare le mie sensazioni intorpidite. La finestra è aperta, entra alito caldo che muove la tenda, possibile sia già pomeriggio? La zia di Lorenzo è stata così carina a ospitarci a casa sua. Ci vive da sola, da quando è separata, non ha figli e vuole bene a Lorenzo come fosse figlio suo.
Ci ha dato la sua stanza perché è la più fresca e poi affaccia sopra un piccolo giardino. La sera arriva un po' di frescura e Lorenzo può mettersi a dipingere lì.
Mi sento finalmente al sicuro. Accolta, per la prima volta non mi sento giudicata.
Sono in un bagno di sudore, luglio torrido, lo dice anche la televisione. Io lotto sempre, anche quando dormo. I polsi mi battono, le ferite sono chiuse, ma la pelle tira. Il dottore ha detto che ci vuole tempo. Porto ancora le bende, non oso guardare i tagli. All’ospedale mi hanno fatto l’ecografia e così ti ho vista. Sei bellissima. Il dottore mi rassicura che stai bene, ci hanno salvate in tempo, e poi dice che sei femmina, ma io già lo sapevo. Eri troppo attaccata alla vita.
E quando gliel’ho detto, lui ha sorriso. Mi ha sussurrato, in un orecchio, che ho avuto coraggio a portare avanti, da sola, una cosa più grande di me e che un momento di fragilità, alla mia età, ci può stare. Allora anch’io ho sorriso.
Cerco di alzarmi, piano piano, sono ancora debole e poi ho fame. Mi hanno lasciata dormire, il sonno a volte nutre più del cibo, dicono.
Da sotto sento arrivare la voce del cronista, parla veloce e concitato. Siamo nel pieno dei mondiali di calcio. L’Italia sta andando alla grande. Oggi gioca contro il Brasile, un osso duro e la vittoria è necessaria per andare avanti. Il pareggio non ci basta, passerebbe il Brasile e noi saremmo squalificati.
Mi metto seduta sul letto. La testa mi gira e allora chiudo gli occhi e stringo le mani al lenzuolo per non cadere. Passa.
Sono debole, ho perso molto sangue, prima che mia madre mi trovasse in bagno, nella vasca, con le vene tagliate in un lago di sangue. Io non ricordo niente, mi hanno detto che ero svenuta, l’ambulanza, e la corsa in ospedale.
C’è stato un prima e questo me lo ricordo bene. Quando avevo quattro anni sono stata adottata, mia madre, quella vera, è morta di overdose, mio padre non l’ho mai conosciuto.
Mi ha presa una coppia senza figli, quasi perfetta, fino a qualche mese fa, quando quello che doveva essere mio padre ha abusato di me. È successo solo una volta, un’unica inspiegabile, inconfessabile volta e io ora aspetto un figlio da lui.
Riuscire anche solo a pensare a quello che è successo mi fa star male, ho la nausea, i conati di vomito, una vertigine dolorosa. Trovare le parole non allevia certo il dolore, ma lo rende sopportabile, anestetizza le vene che portano il sangue al cuore e quello continua a battere.
Che ore saranno? Nel borsone dovrei avere qualcosa di pulito, non mi serve molto, ho trovato un vestito leggerissimo, quello a fiorellini azzurri, ho altre fasce intatte, saranno le ultime che metto. Se penso che solo qualche mese fa, ai polsi, portavo braccialetti che sentivo tintinnare, mentre correvo per entrare in classe. Come cambiano le cose, come cambia la vita.
All’inizio volevo liberarmi di te, avrei abortito, ma tu questo non lo saprai mai. Andava fatto subito, sarebbe stato indolore, ma per chi? Sarebbe stata la soluzione, quella migliore per tutti, pensavo, avrei continuato la scuola, la maturità e poi l’università, mia madre non si sarebbe accorta di niente, mio padre si sarebbe perdonato quell’unico momento di debolezza, lo conosco. Eppure, non l’ho fatto.
Il disgusto e l’orrore per quanto era successo non ti avevano raggiunta. Quella che si chiama un’anima pura e innocente stava dentro di me.
Una volta, in un libro di scienze, ho letto che quando un granello di sabbia, o qualsiasi corpo estraneo, entra nei tessuti molli di un mollusco, l’animale si difende secernendo una sostanza madreperlacea, strato su strato, fino a formare una gemma preziosa. Così nasce una perla.
E questo eri tu per me. Il mio bene unico, il più prezioso da proteggere.
Allora ti ho tenuta nascosta, tutto questo tempo, tra nausee e corse in bagno a vomitare, senza poter parlare con nessuno.
Il mio futuro non lo vedevo se non con te e questo non è coraggio, è sopravvivenza.
Poi, a scuola, è arrivato Lorenzo, a metà gennaio di quest’anno.
Lorenzo ha quasi vent’anni, è ripetente, è stato trasferito, da un altro liceo, nella mia classe. Capelli scuri e mossi, occhi grigi, striati di azzurro e una fossetta sulla guancia sinistra che sprofonda ogni volta che sorride. Qualcuno lo definisce una testa calda. Ha fatto a botte con un tizio che metteva le mani addosso alla fidanzata, perché lui certe cose non le tollera. Ha dovuto cambiare aria e istituto.
Ha portato una ventata di freschezza, era sempre allegro, super corteggiato dalle mie compagne che, nei loro fuseaux colorati e sotto magliette sgargianti, ancheggiavano offrendo seni dalle generose forme. Lui faceva caricature a tutti, anche ai professori. Gli piace disegnare e quando finirà il liceo vuole andare all’Accademia. Io lo guardavo a distanza, me ne stavo in disparte, senza un filo di trucco e con il mio segreto che cresceva dentro i jeans slacciati.
Ero attratta da lui, forse perché mi sembrava più maturo di quei quattro tozzi dei miei compagni, nei loro giubbotti firmati. Io non sono come loro, purtroppo.
A me piace studiare, a volte non lo lascio a vedere, ma poi mi tradiscono i voti. La secchiona, mi chiamano, ma poco m’importa. Ma un giorno, a fine lezione, mi ha chiesto se l’aiutavo nella versione di latino. Ho accettato con il cuore che mi batteva a mille. E invece siamo andati al mare, a Fregene, con la 127 del padre, verde oliva, orrenda, non si poteva guardare. Quanto abbiamo riso, come due scemi. Mi ha detto che gli piacevo un sacco, anche il mio modo di studiare, di interessarmi alle cose e non solo per i voti. E poi che era attratto dal mio sguardo, da come lo guardavo, perché avevo gli occhi sinceri e belli e scuri come due olive mature.
Ha cercato di baciarmi ed è stato allora che gli ho raccontato tutto. Di qualcuno dovevo fidarmi. Pensavo che fuggisse terrorizzato e invece…e invece è rimasto. Voleva che parlassi, che raccontassi ogni cosa a mia madre, che mio padre, lurido schifoso, doveva pagarla per quello che mi aveva fatto,
Ma io non potevo farlo. All’inizio era furioso perché non capiva come potessi tacere. Gli ho raccontato anche del sogno che facevo tutte le notti. Stavo distesa, nuda, sopra un tavolo di marmo, le gambe aperte, facce sconosciute mi giravano intorno bisbigliando, le mani portate alle bocche, uomini intorno a mio padre, a sostenerlo, perché la ragazzina si era inventata tutto. Che dopo tanti anni era questa la gratitudine verso chi l’aveva accolta come una figlia. Davano il cordoglio a mia madre che piangeva come fossi morta e, forse, per lei lo ero veramente. Giravano sempre più veloci, come anime in pena, mi passavano davanti cercando in ogni modo di tirare fuori da me il piccolo essere, il frutto della menzogna. Io urlavo con la bocca spalancata, ma la voce non usciva. Agitavo le braccia come per scacciare le mosche che cercavano di posarsi sulla mia carne nuda.
E mi svegliavo urlando per il dolore di un cuore impazzito. L’incubo, quello del sogno, finiva ed ero sempre io, nella mia cameretta, l’armadio azzurro con tutti i miei segreti e i vestiti, buttati a terra o alla rinfusa, sopra la sedia, sulla scrivania i libri da portare a scuola il giorno dopo, qualche fotoromanzo rubato a mia madre. I poster alle pareti e la foto di Vasco che mi guardava da dietro la porta chiusa. Ogni cosa al posto suo tranne dentro di me.
Io non volevo che mia madre sapesse perché non potevo darle un dolore troppo grande. Non volevo che pensasse di aver sbagliato tutto con me.
Ti tenevo nascosta, perché non vedendoti nessuno potesse farti del male. Allora mi bastava stringere un po' più forte le fasce e tu sparivi, rientravi ancora più dentro di me.
Lorenzo, alla fine, sembrava che avesse capito. Non mi chiedeva più niente. A volte di nascosto, sotto il banco, mi accarezzava la pancia e sorrideva. Mi è stato vicino, è stato il fratello, il padre, il ragazzo premuroso. Si è preso cura di me e di te, perché chi genera Arte, come lui, ha l’istinto materno, sente la vita dentro di sé prima di tutti gli altri.
E così sono passati i mesi, quello che era mio padre non esisteva più, non lo odiavo nemmeno. Sono stata brava a camuffarmi, a nascondere la gravidanza come i sentimenti, nessuno si è accorto di niente, né i miei compagni in classe, né mia madre, neppure quando ho iniziato a prendere i suoi vestiti.
È bella, lei. I capelli castani le incorniciano il viso dalla pelle chiara. Avrei voluto somigliare a lei, ma come avrei potuto. Sono mora e ho il naso a punta. Lei è alta, ogni forma è al punto giusto, io più bassa e piatta. Non ho le sue gambe lunghe e slanciate, non ho la grazia del suo sguardo dentro gli occhi nocciola, né la sua bocca sensuale e carnosa.
Però Lorenzo dice che ho un bel sedere e allora mi sento bella anch’io.
La gravidanza mi ha migliorata.
Adesso riesco anche a mettermi nuda davanti allo specchio, di profilo, con la mia pancia a punta. Vedo riflessi i miei occhi, che prendono luce mentre la accarezzo. Prima non lo facevo, non riuscivo a guardarmi.
È cresciuta tanto, e tu con lei, si vede che ci siamo quasi, una o due settimane, chissà, quando sarai pronta.
Un giorno, era fine maggio, mia madre si è accorta di te, è entrata, all’improvviso, in camera mia e ti ha visto.
L’ho vista barcollare, senza le sue certezze, doppiamente delusa, perché l’avevo esclusa dalla mia vita. Come poteva capire che la stavo proteggendo.
Pensavo mi abbracciasse. Una madre dovrebbe abbracciare sempre una figlia che piange. Ha stretto i pugni e, con gli occhi inondati di rabbia, non ha detto neanche una parola.
È corsa nello studio a dirlo a mio padre, trascinandomi per un braccio, mostrandomi come merce avariata, come un lenzuolo strappato senza possibilità di riparazione.
Come hai potuto farci questo? Il padre chi è? Gli ho detto che non sapevo chi fosse, meglio ammettere la propria leggerezza che svelare l’orrore. Non mi facevano parlare. Non sentivano neppure la mia voce. Di quanti mesi sei? Non aspettavano nemmeno la risposta. Mio padre aveva allentato la cravatta, bianco in viso, non poteva credere che portassi dentro di me il frutto di quell’unica volta.
E così la soluzione l’aveva trovata lui, l’avvocato delle giuste cause, di quelle sempre vinte, perché a quelli come lui non piace perdere. Si sfregava le mani, lo faceva quando cercava una soluzione, per far scoccare la scintilla dell’ingegno, il fuoco primordiale e illuminante. Generalmente la trova. Mi chiede quanto mi manca per partorire, che avrebbe parlato con un dottore dell’Annunziata, un suo cliente, lo sguardo implorante, mi supplicava di una sola cosa, tacere.
Diceva che mi avrebbe fatta partorire e poi, che ti avremmo data via, era chiaro, non potevo tenerti. Io, la figlia cresciuta con amore, studentessa modello al penultimo anno di liceo classico, sognavano per me un altro domani.
Dopo il parto sarebbe stato semplice, bastava non riconoscere il bambino. C’era un’infinità di famiglie senza figli disposte a adottarne uno. Per me sarebbe stato solo un danno. Sarei andata a Sabaudia dalla nonna per finire il mio tempo. Era stabilito così e non c’era altro da aggiungere.
Non potevo credere che mia madre, anche lei, volesse questo per me.
Non riuscivo a crederlo. Ma lei si è sempre fidata di mio padre, per tutto, le decisioni importanti le prendeva lui e anche questa.
Ho pianto, urlato, sbattuto porte, minacciandoli che andavo via, che ero maggiorenne e non potevano farmi questo. Che non mi servivano i loro soldi per mantenere me e il mio bambino, gli ho urlato che avrei lasciato la scuola, mi sarei messa a lavorare. Ho detto che li avrei denunciati per quello che volevano farmi fare e che mai mi sarei separata da mio figlio. Ma loro avevano deciso, lui aveva deciso.
Ho tenuto fuori Lorenzo e questo è stato un errore.
Ma quando si decide di farla finita non si pensa mai a chi rimane. L’egoismo prevale, in fondo. Il presente lo conosco, è questo qua.
Non so se tornerò a casa, se lascerò la scuola, se mi cercherò un lavoro, se racconterò tutto a mia nonna, lei mi vuole molto bene.
Non so se Lorenzo ci sarà anche dopo, non me lo chiedo, adesso non sopporto altre domande. So anche che si vedeva con altre ragazze, cosa posso pretendere. Ma adesso so che c’è, stiamo bene insieme e questo mi basta.
È iniziata la partita. Dai balconi, dalle finestre aperte si sente un’unica voce che invade i cortili, le strade, tutta la città. Un’intera nazione con il fiato sospeso, tutti in apnea.
Mi affaccio alla finestra e guardo di sotto.
Mi assale un aroma di lavanda. Ce n’è un cespuglio vicino alla siepe dove batte il sole. Un profumo di pulito, tra i vasi di gerani e un ficus enorme piantato nel terreno. Una fontana di cemento, al centro di un’aiuola, con sopra un puttino dalla bocca muta, perché non sputa acqua. Mi piace questo giardino dove luce e ombra convivono senza farsi guerra.
Lorenzo è lì, davanti al cavalletto. Non sembra soffrire il caldo, lui. Indossa una camicia hawaiana sbottonata. Quando dipinge il resto del mondo scompare. Ci sono solo lui e la sua tela. Sento le pennellate e mi sembrano le bracciate di un nuotatore che sta per affogare. Agita la mano e il pennello come un direttore d’orchestra che dirige i suoi musicisti e trova nelle note, come nei colori, la sintesi perfetta della sua creazione.
Non è mai soddisfatto. A volte sfregia le tele, le taglia con una lama, prima di dipingerle, o durante, spesso anche dopo, quando il quadro è finito. Lo stesso gesto disperato che ho fatto io.
Lamette, è la nostra canzone. Ridiamo. La mettono spesso alla radio, è forte Rettore, il volume a palla e cantiamo.
Ti voglio bene, sì, ti voglio tanto bene,
Dammi una lametta che mi taglio le vene.
L’altro giorno Lorenzo mi ha fatto un ritratto. Nuda sul letto, come la venere di Urbino stesa sul fianco i capelli sciolti, il seno turgido e lo sguardo fisso sopra di lui.
Una venere con la pancia.
Mi sporgo dalla finestra e lui mi vede. Mi manda un bacio e mi chiede di scendere.
Italia Brasile sta per iniziare. Dicono sia la partita più importante del campionato, ci giochiamo la qualificazione. Io ho sempre odiato il calcio. Mi ricorda le domeniche in cui mio padre andava allo stadio e ci lasciava sole.
Mia madre si preparava, spruzzi di profumo dietro le orecchie, capelli cotonati, indossava uno dei suoi blazer a doppio petto e usciva. Si vedeva con le amiche al circolo delle dame di carità, così diceva. Qualche volta ho pensato che avesse un amante. Sorseggiando una tazza di tè, pensavano all’associazione di turno da aiutare. Io me ne stavo a casa da sola, le telefonate con le amiche, i compiti da fare, qualche film in cassetta.
Ma questa volta è diverso.
E così scendo. La zia mi fa trovare una fetta di pane e marmellata e succo di pera.
La radio è accesa, la partita è iniziata.
Il calcio oggi è il riscatto di un’intera nazione.
Con la palla rotolano tutte le paure, anche quella di farcela. Non ci sono disparità tra nord e sud, tra uomini e donne, perché la meta è una sola ed è, per tutti, la stessa. Non c’è differenza sociale, ai gol ci si bacia, senza nemmeno conoscersi.
Allora mi piace che tu senta, se ci saranno, i boati di una bestia dormiente che si sveglia e urla la rabbia che ha in corpo, perché sa di potercela fare.
Questa è l’estate dell’ottantadue, con la sua bellissima sfida, non so dove ci porterà, magari a vincere la Coppa del Mondo.
Sono passati solo cinque minuti e Paolo Rossi segna. E mentre esultiamo, abbracciandoci, non so ancora il tuo nome.
O forse l’ho sempre saputo. Ti chiamerai Perla.