Chi mi conosce sa per certo quanto io detesti due cose: gli ambulatori medici con annesse sale d’attesa e accompagnare una donna a comprarsi un paio di scarpe.
Ma le donne che mi conoscono (la mia ex moglie, mia figlia e mia madre) sanno qual è il trucco per farmi fare certe cose. E cioè l’occhi a pampinedda, ovvero lo sguardo che fanno i bimbi quando stanno per piangere mentre tirano in fuori il labbro inferiore. Fu così che mia madre mi convinse ad accompagnarla dal medico:
« Figghiuzzu, aiò, accumpagnami dal dottore roncologo, che mi deve visitare. »
E come dire di no a un simile dialetto sardo-siculo?
« Ma', si chiama oncologo, non roncologo. »
« Uguale, tanto io lo chiamo ‘dottore’, mica ci dico il cognome. »
« Ah, ecco. »
Pensai che magari non avremmo fatto molta attesa, ma quando entrai nella saletta mi ripromisi di non pensare più.
C’erano sei vecchiette piccolissime e striminzite per un totale di almeno duemila anni di età.
Poi la magia accadde. Come in tutte le sale d’attesa del mondo, le vecchiette all’improvviso si conoscono tutte e tutte sanno ogni cosa delle altre. Anche se non si sono mai viste.
« Piiiiiii, ma lei chi è, àa signora Sferracavallo? Quantu tempu ca nun ni viremu… »
A parlare era stata la più vecchia di tutte, senza muovere un muscolo, come se parlasse col pensiero. Mia madre si sedette rispondendo:
« Sì, la signora Sferracavallo sono. E questo è mio figlio. »
« Piiiiiii, che s’ha fattu ranne. Mi ricordo quannu era picciriddu. »
Iniziò a prudermi il collo. Non solo non abbiamo niente a che fare con i suddetti Sferracavallo, ma io quella signora non la conoscevo nemmeno di vista, e ho una memoria fotografica soprattutto della mia infanzia.
Niente a che vedere con la brava signora Trombatore, che mi urlava dietro ogni volta che andavo a buttare la spazzatura senza maglietta a Gennaio. Quelle erano vere vecchine. Un metro e mezzo al cubo, due pacchetti di nazionali al giorno nei polmoni, la voce di Califano e la risata di Gargamella.
Sempre nella stessa sedia davanti alla finestra da decenni, come fosse la custode della strada.
Postazione che abbandonava solo per cucinare, e si vociferava che gli americani, quando sbarcarono in Sicilia passarono di lì e uscirono pazzi assaggiando i pomodori secchi che faceva. Lei mi raccontava spesso la stessa storia:
« Iu ci fìci mangiare i pummarora sìcchi e ìddi erano contenti. Infatti forse fu pi chìssu ca nun mi violentarono.»
E io rispondevo sempre allo stesso modo:
« Sì sì… nunn’a violentarono picchì lei ndo 1945 aveva già ottant’anni. V’avissi piaciutu, vero nonna? »
E via di corsa, inseguito dagli insulti della Trombatore che continuavano fino a quando non giravo l’angolo.
Non le fanno più come una volta, le vecchine, pensavo, mentre mia madre lasciava correre sul cognome e chiedeva:
« Ma lei come mai è qui? Che ci capitò? »
A rispondere fu un’altra vecchietta con i capelli celesti e gli occhiali spessi, che si era portata l’uncinetto da casa e uncinava mentre dondolava i piedi che non toccavano il pavimento.
« Piiiiiii, che domande. Semu ca picchì semu tutte rovinate. La signora Maria l’altro ieri sciddicò sul pavimento e cadendo si schiacciò le arachidi cervicali. »
« Sapisse che duluri, signora – confermò la signora Maria chiudendo gli occhi e facendo una smorfia – infatti sugnu ca picchì forse man’a mettere u protocollo. »
« Piiiiiiii, addirittura u protocollo. E io pensava che la cchiù persa ero io. » A parlare era stata una nonnina con gli occhiali da sole, magra come la fame e che nonostante i suoi almeno settant’anni si ostinava a portare i capelli lunghissimi e lisci con annessi pantaloni di pelle rossa. Mentre parlava si guardava nello specchietto, tentando disperatamente di togliersi il rossetto bordeaux dai denti.
« Picchì, lei cosa c’ha, signora Concetta? » chiese la vecchietta con l’uncinetto.
« A mia mi faceva male sempre àa panza. Così u dutturi mi fici fare l’analisi delle urine nella pipì. Anzettasse che mi trovarono? »
« Cosa? » chiedemmo tutti in coro, me compreso.
« Mi hanno trovato la pipì piena di protoni. »
« Piiiiii, bedda matri – fece la signora Maria – consumata è.»
Non resistetti, e ignorando lo sguardo di disapprovazione di mia madre chiesi:
« E neutroni niente? »
« No, quale neutroni. Ma pì cui mi pigghiò, lei? »
« Mica è na parulazza, lo chiedo per sicurezza. Se nda pipì lei iave protoni e neutroni, quànnu piscia scoppia tutt’ù quartiere. »
« Senti beddu, viri ca iu mi chiamo Concetta, e càa pipì mia ti ci po lavare i manu. »
Mia madre faceva al mio indirizzo tutte le smorfie possibili per farmi smettere, le sorrisi e mi rivolsi a lei nel poco sardo che so pronunciare:
« Etta olisi?* »
« Né chin maccu, né cun santu no brulles tantu.* »
La Concetta ebbe un uscita infelice:
« Ma che siete, rumeni? »
Mia madre saltò dalla sedia:
« O malingatasaguttasa… » ma prima che potesse prodursi in un Airplane Spin, la vecchia numero cinque iniziò a sussultare.
« Aiuto… »
« Che c’è nonna? » dissi avvicinandomi.
« Staiu murennu. »
« Piiiiii, ma quale murennu e murennu, ca lei campa cent’anni. »
« Guarda che mia nonna ne ha già centodue. » disse una voce alle mie spalle. Mi giro e vedo una creatura splendida, come se nei muri di quella stanza si fosse aperta una crepa che faceva scorrere verso di me l’acqua della vita. Bassa, robustina, con i baffi, le sopracciglia unite e l'apparecchio nei denti. Ma lì dentro sembrava una star.
« Ops… »
« Andiamo nonna, è arrivato il nostro turno. »
La donna della mia vita se ne andò così, subito, a braccetto con la sua antenata.
La crepa si richiuse.
Il dottore si affacciò nella saletta per un saluto veloce. Con cento euro a botta vorrei vedere.
La Concetta, non appena lo vide divenne tutta rossa e si spruzzò un po’ di profumo messa di spalle, poi si girò e andò verso il dottore con una falcata da giraffa. Gli occhi sembravano altari per sacrifici umani. Tese la mano col palmo in basso verso il medico, che ebbe cura di stringerla rimettendola in verticale.
« Dottore, mi raccumannu di fare presto, che mi sentu u foco tutto nel corpo. »
« Immagino… » rispose l’altro, guardandomi di traverso. L’espressione della mia faccia doveva essere molto eloquente.
« Guardi ca sugnu grave, dottore. Ci pare che nun sacciu leggere l’analisi do sangu e delle urine nella pipì? Sugnu china di protoni nella pipì, e ndo sangu c’ho l’albume e il siero e quelle cose affa, beta, gamma buttati dappertutto.
E nelle urine mi hanno trovato pure i corpi architettonici. »
« Ma che dice. Si chiamano corpi chetonici… »
« …e vabbe’, sempre di roba pesante si tratta. La prego dottore mi curi… » concluse scoppiando in lacrime.
Prese la parola la vecchietta numero sei, che in ordine d’arrivo era invece seconda, piena di rughe ma con gli occhi azzurri e vispi:
« E bo, signora Concetta, nun facisse accussì. Facemo càngiu, lei entra al posto mio dopo la signora Zuccaro che è già dentro e io aspetto qui, che tanto non sono grave come lei. »
« Grazie, grazie – rispose l’altra con la faccia sporca di trucco – ma picchì, lei che cosa c’ha? »
« Piiiiii, nente nente, quattro stupidaggini. Due o tre polipetti da qualche parte, che ancora i dottori non sono riusciti a trovarli e io manco li sento muovere, e soffro di… iperparacadutismo… mi pare ca si chiama accussì. Poi basta cchiù, a parte àa pancratite e un po’ di attriti reumatologici. »
A salvarmi arrivò mia sorella, che al contrario di me adora le sale d’attesa.
Fuggii via mentre pensavo:
<i>Scappa scappa finché puoi, che tanto arriva il tempo che quelle sale d’attesa dovrai fartele piacere per forza.</i>
Piiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii...
* Che vuoi?
* Proverbio sardo che dice c<i>on i pazzi e i santi non scherzare troppo.</i> Credo.
Ma le donne che mi conoscono (la mia ex moglie, mia figlia e mia madre) sanno qual è il trucco per farmi fare certe cose. E cioè l’occhi a pampinedda, ovvero lo sguardo che fanno i bimbi quando stanno per piangere mentre tirano in fuori il labbro inferiore. Fu così che mia madre mi convinse ad accompagnarla dal medico:
« Figghiuzzu, aiò, accumpagnami dal dottore roncologo, che mi deve visitare. »
E come dire di no a un simile dialetto sardo-siculo?
« Ma', si chiama oncologo, non roncologo. »
« Uguale, tanto io lo chiamo ‘dottore’, mica ci dico il cognome. »
« Ah, ecco. »
Pensai che magari non avremmo fatto molta attesa, ma quando entrai nella saletta mi ripromisi di non pensare più.
C’erano sei vecchiette piccolissime e striminzite per un totale di almeno duemila anni di età.
Poi la magia accadde. Come in tutte le sale d’attesa del mondo, le vecchiette all’improvviso si conoscono tutte e tutte sanno ogni cosa delle altre. Anche se non si sono mai viste.
« Piiiiiii, ma lei chi è, àa signora Sferracavallo? Quantu tempu ca nun ni viremu… »
A parlare era stata la più vecchia di tutte, senza muovere un muscolo, come se parlasse col pensiero. Mia madre si sedette rispondendo:
« Sì, la signora Sferracavallo sono. E questo è mio figlio. »
« Piiiiiii, che s’ha fattu ranne. Mi ricordo quannu era picciriddu. »
Iniziò a prudermi il collo. Non solo non abbiamo niente a che fare con i suddetti Sferracavallo, ma io quella signora non la conoscevo nemmeno di vista, e ho una memoria fotografica soprattutto della mia infanzia.
Niente a che vedere con la brava signora Trombatore, che mi urlava dietro ogni volta che andavo a buttare la spazzatura senza maglietta a Gennaio. Quelle erano vere vecchine. Un metro e mezzo al cubo, due pacchetti di nazionali al giorno nei polmoni, la voce di Califano e la risata di Gargamella.
Sempre nella stessa sedia davanti alla finestra da decenni, come fosse la custode della strada.
Postazione che abbandonava solo per cucinare, e si vociferava che gli americani, quando sbarcarono in Sicilia passarono di lì e uscirono pazzi assaggiando i pomodori secchi che faceva. Lei mi raccontava spesso la stessa storia:
« Iu ci fìci mangiare i pummarora sìcchi e ìddi erano contenti. Infatti forse fu pi chìssu ca nun mi violentarono.»
E io rispondevo sempre allo stesso modo:
« Sì sì… nunn’a violentarono picchì lei ndo 1945 aveva già ottant’anni. V’avissi piaciutu, vero nonna? »
E via di corsa, inseguito dagli insulti della Trombatore che continuavano fino a quando non giravo l’angolo.
Non le fanno più come una volta, le vecchine, pensavo, mentre mia madre lasciava correre sul cognome e chiedeva:
« Ma lei come mai è qui? Che ci capitò? »
A rispondere fu un’altra vecchietta con i capelli celesti e gli occhiali spessi, che si era portata l’uncinetto da casa e uncinava mentre dondolava i piedi che non toccavano il pavimento.
« Piiiiiii, che domande. Semu ca picchì semu tutte rovinate. La signora Maria l’altro ieri sciddicò sul pavimento e cadendo si schiacciò le arachidi cervicali. »
« Sapisse che duluri, signora – confermò la signora Maria chiudendo gli occhi e facendo una smorfia – infatti sugnu ca picchì forse man’a mettere u protocollo. »
« Piiiiiiii, addirittura u protocollo. E io pensava che la cchiù persa ero io. » A parlare era stata una nonnina con gli occhiali da sole, magra come la fame e che nonostante i suoi almeno settant’anni si ostinava a portare i capelli lunghissimi e lisci con annessi pantaloni di pelle rossa. Mentre parlava si guardava nello specchietto, tentando disperatamente di togliersi il rossetto bordeaux dai denti.
« Picchì, lei cosa c’ha, signora Concetta? » chiese la vecchietta con l’uncinetto.
« A mia mi faceva male sempre àa panza. Così u dutturi mi fici fare l’analisi delle urine nella pipì. Anzettasse che mi trovarono? »
« Cosa? » chiedemmo tutti in coro, me compreso.
« Mi hanno trovato la pipì piena di protoni. »
« Piiiiii, bedda matri – fece la signora Maria – consumata è.»
Non resistetti, e ignorando lo sguardo di disapprovazione di mia madre chiesi:
« E neutroni niente? »
« No, quale neutroni. Ma pì cui mi pigghiò, lei? »
« Mica è na parulazza, lo chiedo per sicurezza. Se nda pipì lei iave protoni e neutroni, quànnu piscia scoppia tutt’ù quartiere. »
« Senti beddu, viri ca iu mi chiamo Concetta, e càa pipì mia ti ci po lavare i manu. »
Mia madre faceva al mio indirizzo tutte le smorfie possibili per farmi smettere, le sorrisi e mi rivolsi a lei nel poco sardo che so pronunciare:
« Etta olisi?* »
« Né chin maccu, né cun santu no brulles tantu.* »
La Concetta ebbe un uscita infelice:
« Ma che siete, rumeni? »
Mia madre saltò dalla sedia:
« O malingatasaguttasa… » ma prima che potesse prodursi in un Airplane Spin, la vecchia numero cinque iniziò a sussultare.
« Aiuto… »
« Che c’è nonna? » dissi avvicinandomi.
« Staiu murennu. »
« Piiiiii, ma quale murennu e murennu, ca lei campa cent’anni. »
« Guarda che mia nonna ne ha già centodue. » disse una voce alle mie spalle. Mi giro e vedo una creatura splendida, come se nei muri di quella stanza si fosse aperta una crepa che faceva scorrere verso di me l’acqua della vita. Bassa, robustina, con i baffi, le sopracciglia unite e l'apparecchio nei denti. Ma lì dentro sembrava una star.
« Ops… »
« Andiamo nonna, è arrivato il nostro turno. »
La donna della mia vita se ne andò così, subito, a braccetto con la sua antenata.
La crepa si richiuse.
Il dottore si affacciò nella saletta per un saluto veloce. Con cento euro a botta vorrei vedere.
La Concetta, non appena lo vide divenne tutta rossa e si spruzzò un po’ di profumo messa di spalle, poi si girò e andò verso il dottore con una falcata da giraffa. Gli occhi sembravano altari per sacrifici umani. Tese la mano col palmo in basso verso il medico, che ebbe cura di stringerla rimettendola in verticale.
« Dottore, mi raccumannu di fare presto, che mi sentu u foco tutto nel corpo. »
« Immagino… » rispose l’altro, guardandomi di traverso. L’espressione della mia faccia doveva essere molto eloquente.
« Guardi ca sugnu grave, dottore. Ci pare che nun sacciu leggere l’analisi do sangu e delle urine nella pipì? Sugnu china di protoni nella pipì, e ndo sangu c’ho l’albume e il siero e quelle cose affa, beta, gamma buttati dappertutto.
E nelle urine mi hanno trovato pure i corpi architettonici. »
« Ma che dice. Si chiamano corpi chetonici… »
« …e vabbe’, sempre di roba pesante si tratta. La prego dottore mi curi… » concluse scoppiando in lacrime.
Prese la parola la vecchietta numero sei, che in ordine d’arrivo era invece seconda, piena di rughe ma con gli occhi azzurri e vispi:
« E bo, signora Concetta, nun facisse accussì. Facemo càngiu, lei entra al posto mio dopo la signora Zuccaro che è già dentro e io aspetto qui, che tanto non sono grave come lei. »
« Grazie, grazie – rispose l’altra con la faccia sporca di trucco – ma picchì, lei che cosa c’ha? »
« Piiiiii, nente nente, quattro stupidaggini. Due o tre polipetti da qualche parte, che ancora i dottori non sono riusciti a trovarli e io manco li sento muovere, e soffro di… iperparacadutismo… mi pare ca si chiama accussì. Poi basta cchiù, a parte àa pancratite e un po’ di attriti reumatologici. »
A salvarmi arrivò mia sorella, che al contrario di me adora le sale d’attesa.
Fuggii via mentre pensavo:
<i>Scappa scappa finché puoi, che tanto arriva il tempo che quelle sale d’attesa dovrai fartele piacere per forza.</i>
Piiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii...
* Che vuoi?
* Proverbio sardo che dice c<i>on i pazzi e i santi non scherzare troppo.</i> Credo.