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Pastiglie di carta
Maggio 2007 – uno dei mesi del mio anno orribilis
Maggio 2007 – uno dei mesi del mio anno orribilis
Madonna, sono le sette meno un quarto e alle sette dovrei essere dal medico.
La dottoressa è stata gentile: forse dall'incrinatura della voce quando le ho chiesto un appuntamento, anche tardi non importa, ha sentito la mia ansia, quella sottile che assomiglia al panico. La mia compagna fedele nelle ultime settimane.
C'è poco traffico ma tre, quattro minuti di coda mi fanno venire la nausea, eppure ho mangiato poco o niente a pranzo, e neanche un caffè nel pomeriggio, nemmeno una merendina per quello che pensavo fosse un calo di zuccheri. Era paura. Semplice.
Non ho goduto un attimo della fine dell'inverno, delle giornate che si allungano, della natura che esplode improvvisamente. Non ho neanche messo sul balcone le poltroncine, che usiamo poco ma fanno tanto estate.
Mi sto ammalando per il lavoro. Per la bordata di lavoro, pesantissima, che si è abbattuta in ufficio.
Per la tensione che si taglia con il coltello, per la paura di non essere all'altezza, per dover ammettere di aver bisogno di aiuto mentre fino ad ora ho stretto i denti per farcela da sola. Mi sto ammalando all'idea che questo è solo l'inizio: per un altro anno ancora sarà così e forse peggio. L'azienda cresce, di colpo quasi raddoppia dimensioni e poi proseguirà nella crescita. E io dovrei organizzare il lavoro degli altri.
Non riesco a farlo col mio, di lavoro, ma devo riuscire ad organizzare quello dei nuovi colleghi, che da me si aspettano istruzioni precise, risposte ai mille dubbi, nessun inghippo, nessuna dimenticanza. E il tutto avverrà nello spazio di un fine settimana, a cui stiamo lavorando da mesi.
Questa che avevo cominciato con la grinta e con la determinazione di farcela, perché è una bella soddisfazione tutto sommato "partecipare" (carriera la faranno altre persone, ma non è poi così importante), una sfida da vincere a ogni costo, mi si sta ritorcendo addosso.
Mi sto ammalando, pur sapendo di non essere sola, che anche i miei colleghi sono nella mia stessa situazione. Eppure, loro sembrano reagire meglio: le ragazze hanno voglia di abiti nuovi, di gite al mare, di sandali alla moda, di un nuovo taglio di capelli. Gli uomini vanno a giocare a tennis, portano l'auto a lavare. Io ho fatto fatica a fare il cambio stagione nell'armadio, ho letto tre libri di cui non ricordo il titolo e ho rallentato pure con lo scrivere. Saranno state piccole cose, consolatorie, ma le idee si stanno affievolendo. Faccio spesa, metto nel carrello cose che non servono e mio marito le rimette sullo scaffale: immagino gli sguardi di commiserazione per quella lì che neanche la spesa sa fare!
Domenica era bel tempo, potevo andare in collina, a trovare un'amica. Lei è una scrittrice vera, io una sua allieva che ci prova. Avevamo tante cose da dirci. Invece mio marito mi ha trovata in ogni cantone della casa, a piangere:
- Non ce la posso fare, non sono capace di fare tutto quel lavoro! Non riesco a mettere in fila le cose da fare.
Eh già, mettere in fila le cose. Stai lontana dalla scrivania mezza giornata e trovi quaranta mail, tutte urgenti, tutte grane, tutte domande a cui devi dare subito, senza avere il tempo di ragionare bene, una risposta. Che ovviamente deve essere giusta, definitiva, scolpita nella pietra.
È il mio lavoro.
Persino un'ora di coda in autostrada, in compagnia di un collega taciturno, ieri mi è sembrata una manna. Non pensare alla scrivania, ma neanche al camion dietro di noi, incollato al paraurti, alle ambulanze che sono passate, al tempo che passava… un'ora senza pensare. Quando ho aperto la posta elettronica mi ha preso il panico, letteralmente. Dopo trent'anni di lavori anche importanti, di sfide, di stravolgimenti che avrebbero dovuto trovarmi pronta.
La sera raccolgo le carte, ne faccio un mucchio alto dieci centimetri e lo metto nella borsa. Stasera ci do un'occhiata - mi dico - consapevole che le farò passare, le riordinerò e domani mattina tutto si stravolgerà con riunioni impreviste, colleghi che hanno bisogno, urgenze, solleciti, cose nuove inaspettate.
Mio marito cucina, la sera mi fa trovare la cena pronta, delle buonissime macedonie "che almeno mangi qualcosa." Mi ascolta, mi scruta nel profondo con i suoi occhi grigi, mi sgrida, mi abbraccia e mi consola. Toglie le ragnatele e passa l'aspirapolvere. Mi sento malata, giro per casa con la testa da tutt'altra parte, mi scordo gli stracci della polvere dovunque.
Ho una montagna di roba da stirare, ma passo le domeniche tra file, appunti che non riesco più a decifrare, macerandomi nel dubbio di aver dimenticato qualcosa di importante, di aver cercato le piccole cose scordandomi chissà cosa.
Ho fatto un errore: ne ho parlato con i colleghi, di come mi sento. Qualcuno l'ho sentito molto vicino, certe amicizie si sono rafforzate, è stato anche liberatorio parlarne, anche se non è positivo macerarsi nel reciproco disagio. Ma negli occhi di altri ho visto il fastidio: - Ma come? Qual è il problema, non esiste il problema! Basta che pianifichi… una cosa alla volta, con criterio. -
E già! Non sono loro che sono problemi, sono io che non li so risolvere.
Parcheggio la macchina, mi guardo un attimo nello specchietto e vedo un viso pallido, capelli spenti, occhi ansiosi.
Tornerò a casa con la ricetta di qualche intruglio che forse in pochi giorni mi rimetterà in sesto: miracoli della chimica. Peccato non mi cambino il cervello.
La chimica ha funzionato, le sfide sono state vinte – e non poteva essere diversamente – ma la sensazione che gli altri si aspettassero sempre quel qualcosa in più che avrebbe fatto la differenza tra l’essere “una che si tira su le maniche anche quando è in canottiera” e quella che “trova il tempo di coccolare la carriera”, non è mai stata sconfitta. E ora dico che forse è stato meglio così.
Ultima modifica di Susanna il Dom Nov 21, 2021 5:09 pm - modificato 4 volte.