Quando quella donna si presentò al C.S.A., Jacopo avvertì una strana vibrazione percuotergli l’anima. Era dannatamente bella, ma la sua avvenenza non bastava a giustificare quel turbamento. Nel tempo ne aveva incontrate di donne affascinanti, persino di più belle, eppure lei era diversa. Forse era quell’espressione da cucciolo sperduto a renderla così interessante e irresistibile.
«Biglietto» disse Jacopo, osservandola trafficare con la borsa. Le mani della donna si muovevano nervose, quasi a scatti.
«Elena P 8752147965ZZZF» bisbigliò Jacopo consultando il biglietto e cercando poi la destinazione sul suo elenco. Il luogo che lesse non lo sorprese minimamente, ma non riuscì a evitare una fitta di delusione.
«Lascia perdere» lo ammonì il collega allo sportello di fianco, avvertendo la sua esitazione.
«Scusami un attimo, Davide» rispose Jacopo, abbandonando la sua postazione e prendendo Elena per mano.
L’accompagnò a una panchina lì vicino e la fece sedere. Dietro e davanti a loro la funivia viaggiava a ritmo continuo, silenziosa come l’eternità, con le cabine bianche e quelle rosse che salivano e scendevano senza sosta, stipate all’inverosimile. Elena si guardò attorno preoccupata, angelica in tutta la sua vulnerabilità, con la strana sensazione che un pericolo imminente fosse lì in agguato, pronto a colpirla.
«Sto aspettando i miei figli» disse nervosamente la donna, «li ha visti per caso?»
«Non lo so, signora, me li descriva. Ne passano parecchi da queste parti.»
«Ha ragione, mi scusi. Sono un maschietto di sei anni e una femminuccia di tre. Il maschio indossa una maglietta di Spongebob, mentre Erika ha un completino verde. Adora il verde, quella scimmietta. Hanno tutti e due i capelli nerissimi. Dovrebbero essere assieme al loro papà…» Mentre parlava, Elena si muoveva sulla panchina in continuazione.
Sì, Jacopo aveva visto i bambini e il loro padre, ma non disse nulla.
«Ma sono sicuri quegli affari?» continuò Elena, indicando le cabine della funivia.
«Certo, signora. Sono sicurissimi.»
«E se invece si dovessero rompere?»
«Non si possono rompere. Non è mai successo.»
«Eppure ho sentito un sacco di brutte storie in proposito. Basta una fune che si spezza e…»
«Volevo dire che qui da noi non si è mai verificato alcun incidente. Stia tranquilla.»
Elena cominciò a tamburellare con le dite sul legno della panchina. Il contatto con quella superfice non le regalò nessuna sensazione.
«Sino a che altezza possono arrivare?» riprese Elena. Più parlava e più sembrava riannodare i fili di qualcosa che le sfuggiva.
«Le cabine? Oh, non c’è un limite. Quelle bianche salgono sino al Pan di Zucchero, poi si fermano per permettere la contemplazione della Baia di Guanabara. È una vista davvero mozzafiato. Poi salgono ancora. Di molto.»
«E quelle rosse?»
«Elena, le rosse possono solo scendere.»
«Ma che posto è questo? Dove mi trovo?» domandò la donna in preda allo sconforto. Il ricordo di ciò che aveva fatto stava finalmente riaffiorando in tutta la sua drammaticità.
«Questo è il C.S.A., Centro Smistamento Anime» rispose Jacopo, sedendosi accanto a lei. «Non si preoccupi per i suoi figli e suo marito, sono già passati di qui. Ora stanno in alto, nessun male può più sfiorarli.»
Elena scivolò a terra e si portò le mani ai capelli. «Ma che ho fatto? Che diavolo ho combinato? I miei bambini…Mio marito…»
Jacopo s’inginocchiò e aiutò Elena ad alzarsi. «Venga, signora, non c’è più tempo. Dobbiamo andare.» Cercò di trovare anche le parole giuste per consolarla un po’, ma non ci riuscì. Dubitava che potessero esistere.
La prese sottobraccio e l’accompagnò alla cabina rossa. Quando le porte si chiusero, i suoi occhi incontrarono un’ultima volta quelli spauriti di lei e non poté fare a meno di provare una pena infinita per quell’anima straziata.
«Biglietto» disse Jacopo, osservandola trafficare con la borsa. Le mani della donna si muovevano nervose, quasi a scatti.
«Elena P 8752147965ZZZF» bisbigliò Jacopo consultando il biglietto e cercando poi la destinazione sul suo elenco. Il luogo che lesse non lo sorprese minimamente, ma non riuscì a evitare una fitta di delusione.
«Lascia perdere» lo ammonì il collega allo sportello di fianco, avvertendo la sua esitazione.
«Scusami un attimo, Davide» rispose Jacopo, abbandonando la sua postazione e prendendo Elena per mano.
L’accompagnò a una panchina lì vicino e la fece sedere. Dietro e davanti a loro la funivia viaggiava a ritmo continuo, silenziosa come l’eternità, con le cabine bianche e quelle rosse che salivano e scendevano senza sosta, stipate all’inverosimile. Elena si guardò attorno preoccupata, angelica in tutta la sua vulnerabilità, con la strana sensazione che un pericolo imminente fosse lì in agguato, pronto a colpirla.
«Sto aspettando i miei figli» disse nervosamente la donna, «li ha visti per caso?»
«Non lo so, signora, me li descriva. Ne passano parecchi da queste parti.»
«Ha ragione, mi scusi. Sono un maschietto di sei anni e una femminuccia di tre. Il maschio indossa una maglietta di Spongebob, mentre Erika ha un completino verde. Adora il verde, quella scimmietta. Hanno tutti e due i capelli nerissimi. Dovrebbero essere assieme al loro papà…» Mentre parlava, Elena si muoveva sulla panchina in continuazione.
Sì, Jacopo aveva visto i bambini e il loro padre, ma non disse nulla.
«Ma sono sicuri quegli affari?» continuò Elena, indicando le cabine della funivia.
«Certo, signora. Sono sicurissimi.»
«E se invece si dovessero rompere?»
«Non si possono rompere. Non è mai successo.»
«Eppure ho sentito un sacco di brutte storie in proposito. Basta una fune che si spezza e…»
«Volevo dire che qui da noi non si è mai verificato alcun incidente. Stia tranquilla.»
Elena cominciò a tamburellare con le dite sul legno della panchina. Il contatto con quella superfice non le regalò nessuna sensazione.
«Sino a che altezza possono arrivare?» riprese Elena. Più parlava e più sembrava riannodare i fili di qualcosa che le sfuggiva.
«Le cabine? Oh, non c’è un limite. Quelle bianche salgono sino al Pan di Zucchero, poi si fermano per permettere la contemplazione della Baia di Guanabara. È una vista davvero mozzafiato. Poi salgono ancora. Di molto.»
«E quelle rosse?»
«Elena, le rosse possono solo scendere.»
«Ma che posto è questo? Dove mi trovo?» domandò la donna in preda allo sconforto. Il ricordo di ciò che aveva fatto stava finalmente riaffiorando in tutta la sua drammaticità.
«Questo è il C.S.A., Centro Smistamento Anime» rispose Jacopo, sedendosi accanto a lei. «Non si preoccupi per i suoi figli e suo marito, sono già passati di qui. Ora stanno in alto, nessun male può più sfiorarli.»
Elena scivolò a terra e si portò le mani ai capelli. «Ma che ho fatto? Che diavolo ho combinato? I miei bambini…Mio marito…»
Jacopo s’inginocchiò e aiutò Elena ad alzarsi. «Venga, signora, non c’è più tempo. Dobbiamo andare.» Cercò di trovare anche le parole giuste per consolarla un po’, ma non ci riuscì. Dubitava che potessero esistere.
La prese sottobraccio e l’accompagnò alla cabina rossa. Quando le porte si chiusero, i suoi occhi incontrarono un’ultima volta quelli spauriti di lei e non poté fare a meno di provare una pena infinita per quell’anima straziata.