La cabina era poco affollata, la bassa stagione teneva lontani anche i turisti più audaci.
Si era alzato un pallido sole da dietro una muraglia grigia di nuvole.
Nel corso della giornata forse il cielo si sarebbe aperto, speravano i tre escursionisti armati di racchette. Parlavano con voce allegra e sostenuta, erano felici di aver preso qualche giorno di vacanza per raggiungere gli amici al rifugio.
Alberto a un certo punto non ascoltò più i loro discorsi, tanto era travolto dai suoi pensieri.
A molti, guardandolo, poteva sembrare un signore di mezza età, dal taglio di capelli e dai vestiti giovanili, una persona ben curata.
Solo lo sguardo nascondeva un’ombra, un velo di solitaria esistenza. Sembrava, dai modi e dai tempi, che non ci fosse nessuno ad aspettarlo, da nessuna parte, a casa, a lavoro, neanche in un bar.
Si poteva avere questa certezza da come teneva avvinghiate le mani al corrimano, come se quello fosse il solo e unico appiglio.
Muoveva gli occhi, poggiandoli ora sulle vene rugose, sulle dita spoglie di anelli, sopra le unghie ingiallite dal fumo, ora sul riflesso del vetro, fino a spostare la messa a fuoco sul panorama.
Andava, in questo caso saliva, senza una meta apparente, per il solo gusto di osservare un belvedere, magari in cima scattare qualche fotografia e ridiscendere a valle.
Ma non aveva con sé una macchina fotografica e neppure un piccolo zaino che facesse pensare ad un breve pernottamento.
L’ascesa proseguiva senza scossoni, man mano lo sguardo si allungava e abbracciava l’intera vallata. In fondo, come una piccola lacrima raccolta, si intravedeva il lago circondato da un verde radioso.
In contrasto erano le pareti rocciose che, come sentinelle, si alzavano verso la porta del cielo.
Alberto strizzava gli occhi, perché la luce diventava sempre più vicina, sembrava poterla toccare.
Raggi luminosi, come lame, tagliavano in due la cabina, facendo chiarezza anche sulle intenzioni più buie.
Era stata un’idea sconsiderata allontanarsi senza avvisare nessuno, neppure i dottori, ma sentiva crescere dentro uno stato di beatitudine, a mezz’aria com’era, distante dalla terra e dalle preoccupazioni.
Sospeso, attaccato a due cavi d’acciaio che lo tenevano legato alla vita.
Una scossa più forte pose fine ai suoi pensieri. La meta, finalmente, era raggiunta. La porta della funivia, con uno scatto, si aprì.
Aspettò che i tre uscissero, salutandoli appena. Dietro la stazione lo aspettava la terrazza a picco davanti a un panorama mozzafiato. Non era la prima volta che lo vedeva.
Tempo prima, gli occhi erano quattro, le mani strette in più di un abbraccio. Lucia, da tre anni, era andata, senza grandi parole, senza inutili sofferenze.
Eppure, di lei, a pelle restava l’odore delle tante ore vissute insieme, dei tanti posti visti con la stessa espressione, compreso quello. Andando verso l’affaccio, una leggera sporgenza sfidava la gravità per aprirsi sull’abisso.
Scavalcare una ringhiera bassa e incustodita poteva essere più complicato che spiccare un volo. Sarebbe durato un attimo lungo quanto la realtà separa un uomo dalla fantasia, la prigione dal sogno di libertà.
Erano questi i pensieri di Alberto, di porre fine all’inutile trascinamento della sua esistenza.
Se solo uno stambecco solitario non avesse attirato la sua attenzione e frenato la corsa.
In equilibrio perfetto, sopra la parete scoscesa, sembrava pietra in movimento, dello stesso colore e della stessa dura tenacia.
L’uomo aveva incrociato lo sguardo dell’animale e quello gli mostrava di quali prodezze fosse capace, pur senza vantarsi della sua abilità.
Era come se volesse dirgli che è sempre possibile, in ogni situazione, anche la più disperata, trovare un punto di appoggio, una presa inaspettata, anche quando la parete diventa più ripida e scoscesa.
Alberto ritornò sui suoi passi, in equilibrio instabile, ma convinto a restarci.
Fece un sospiro di sollievo, quando la porta della funivia si richiuse alle sue spalle.