Il pusher peruviano indicava con disprezzo la ragazza, avrà avuto sedici anni, che nemmeno si reggeva in piedi; era sostenuta da Luckyman, un nigeriano basso e palestrato con il corpo deforme per l’abuso di ormoni.
«Una puttanella, Jefe. Voleva una dose di ero.» Il nero le tirò i capelli per farle alzare la testa. Una bava di saliva le usciva dall’angolo della bocca.
«E tu quanta glien’hai data, coglione? Guardala, è strafatta.»
«Te la vuoi scopare o no?»
Jefe estrasse il coltello dal serramanico che teneva in mano e lo piantò, girandolo, nel petto della ragazza. Lei, anestetizzata dagli oppiacei, non sentì quasi dolore; ebbe appena un attimo in cui gli occhi si fissarono sorpresi su un punto a caso alle spalle del peruviano.
Luckyman lasciò cadere il corpo esanime e fece un balzo all’indietro. «Ma che cazzo fai?»
Jefe agitò il coltello insanguinato in direzione del nigeriano. «Scopatela tu, adesso, e dimmi se senti la differenza. Io e te abbiamo chiuso, amico.»
«Ehi, stronzo, non lasciarmi nei casini: fa’ sparire la ragazza.»
«Cazzi tuoi.»
«Jefe, questa me la paghi!»
Rispose con un dito medio.
Da una periferia all’altra il pusher guidò il suo SUV ben oltre i limiti di velocità, evitando le strade che potevano nascondere appostamenti di Carabinieri o Polizia. Raggiunse la discoteca Q2 e superò la fila di adolescenti che erano in attesa dell’apertura pomeridiana.
«Ciao, Jefe.»
Il peruviano girò la testa senza fermarsi; non ricordava quando avesse visto il ragazzo che aveva attirato la sua attenzione. Con gli occhi, questo gli indicò al suo fianco la ragazza che si scattava selfie con la bocca a culo di gallina. Il pusher manifestò la sua approvazione con un pollice in su, poi tornò a guardare avanti e si dimenticò di loro. Il buttafuori lo lasciò passare.
«Ciao, Jefe.»
«Ciao, Mauro.» Passò un blister al proprietario del Q2.
«Che cazzo sono, queste?»
«Per le tue cubiste.»
Mauro alzò appena la voce e ripeté: «Che cazzo sono, queste?»
«Anfetamine,» rispose, per nulla turbato.
«Non prendermi per il culo, Jefe. Lo sai che quelle troie godono solo a tirar su col naso; che cazzo ci faccio con queste?»
«Le schiacci e gliele fai sniffare, queste c’ho. C’è stata una soffiata, un intero container di coca bruciato; ma li guardi i TG? Se vuoi la coca, oggi la paghi il doppio.»
«Vaffanculo; dammela,» disse, e lanciò con disprezzo il blister in direzione di Jefe.
Il pusher tirò fuori un sacchettino e lo consegnò a Mauro, poi si raccomandò: «Mandami una troietta, che oggi non mi sono ancora svuotato le palle.» Raccolse il blister e se ne andò in direzione della saletta, quasi un privé che usava come ufficio personale.
Si stava annoiando nella penombra; dalla pista provenivano i primi unz-unz di musica trance, quando la tendina si mosse e apparve un’adolescente tra i quattordici e i sedici anni; lei si spostò i capelli dagli occhi e salutò, senza sorridere.
Jefe commentò: «Che ti sei mangiata, un bue?»
La ragazza abbassò lo sguardo. Era al limite del sovrappeso, ma una corporatura troppo robusta per i canoni del momento.
Non ricevendo risposta, il pusher incalzò: «Cazzo vuoi?»
Lei rialzò la testa: «C’hai dell’ero?»
«E tu c’hai i soldi?»
La ragazza scosse la testa. Tremava appena, presto avrebbe avuto una crisi d’astinenza.
Jefe alzò la voce: «Ma che, ti manda Mauro? Sei tu la troietta?»
Lei non disse nulla e s’incassò nelle spalle, chiudendo gli occhi.
«Oh, rispondi: ti manda Mauro?»
«Sì,» con un filo di voce, girando la testa.
«Oh, merda! Merda! Merda!» Prese a camminare per la saletta, ripetendo la parola.
«Faccio tutto quello che vuoi,» disse lei, tremando.
«Ma tu fai schifo al cazzo, vattene!»
La spintonò; lei fece resistenza e piagnucolò: «Ti prego, sto male!»
Le tirò i capelli, forzandola a guardarlo in faccia. «Non è che stai per vomitare, vero?»
Lei scosse la testa, con il viso teso in una smorfia di dolore.
«Perché a me il tuo vomito mi fa schifo, hai capito?»
Annuì.
Alzò la voce e tirò ancora di più: «Hai capito?»
«Sì,» con un urlo strozzato.
La obbligò a mettersi in ginocchio. Lei gli slacciò cintura e pantaloni, impacciata dal tremore delle mani; chiuse gli occhi prima di abbassargli i boxer per l’istinto di non guardare ciò che avrebbe dovuto toccare e mettere in bocca. Consumò in pochi minuti il rapporto orale con il pusher, finché lui non si lasciò andare a un grido liberatorio.
Jefe le lanciò delle salviette. «Pulisci bene per terra, troietta.»
Le diede una dose quando si rialzò. Lei se la mise nel reggiseno, poi allungò di nuovo la mano con il palmo in su.
«Che c’è? Vuoi pure la mancia?»
Lei tremava, resistendo alla tentazione di scappare e farsi quel poco che aveva elemosinato, ma non ritrasse la mano.
«Sei tosta. Tieni.» Le diede un’altra stagnola, di colore diverso.
Lo prese alla sprovvista; limonarono per due secondi, poi lei scappò di corsa.
Lui sputò il proprio sperma e urlò: «Puttana, sparisci; non farti più vedere! Sei un cesso e resterai un cesso.» Ma ormai lei era già sparita tra la folla di adolescenti che si muovevano al ritmo della trance del momento.
Jefe si sciacquò la bocca con la prima bottiglia che trovò a portata di mano. Imprecò alcune volte, poi si fece una riga di cocaina.
Dopo qualche minuto la tendina si mosse ed entrò una coppietta; erano impegnati a limonare e, nella penombra, non sembrarono accorgersi del pusher. Il ragazzo si calò i pantaloni e si sedette su una poltroncina; lei sollevò la minigonna e si mise su di lui, cavalcandolo.
Jefe cercò e, dopo un po’ di bestemmie sussurrate, trovò lo smartphone. Inquadrò e si mise a filmare la scena.
La ragazza, disturbata dal flash, interruppe la sgroppata; con un solo movimento si rimise in piedi e abbassò la gonna. Disse, rivolta al pusher: «Ehi, che cazzo fai? Pervertito di merda!»
Jefe la riconobbe: era quella che si faceva i selfie mentre era in fila, perciò l’altro doveva essere il tipo che l’aveva salutato fuori dalla discoteca.
Il ragazzo, senza scomporsi, le disse: «È il pusher di cui ti parlavo, se siamo bravi ci regala un po’ di roba. Torna qui.»
«Ma inculatevi!» La ragazza mostrò il dito medio e tornò in pista.
Il flash si spense.
«Che troia! Jefe, scusami…» disse il ragazzo, rivestendosi.
«Va’ a farti inculare tu, coglione! E la prossima troietta falla bere di più prima di portarla qui dentro. Anzi, fammi un piacere: sparisci dalla mia vita.»
Gli assestò un pugno nello stomaco. «Guai a te se vomiti!» Premette un pulsante sul walkie-talkie e chiamò un buttafuori. «Sono nella saletta, toglimi una piattola dai coglioni.»
Jefe vendette poca roba e nessun altro entrò per farsi filmare. A metà pomeriggio apparve Mauro, piuttosto nervoso: «Per oggi basta.»
«E che cazzo?»
«Nei bagni c’ho una strafatta della tua merda, adesso te la porti via prima che tiri le cuoia.»
«Ehi, bello. Per chi m’hai preso? La fai portare via dai suoi amici.»
«Non la conosce nessuno. È una puttanella che si fa scopare in cambio di una dose. S’è sparata le tue stagnole, sono cazzi tuoi.»
La ragazza in coma venne sistemata da Mauro e uno dei buttafuori nel SUV di Jefe sul posto del passeggero, come se stesse dormendo.
Erano pochi i luoghi in città fuori dal controllo delle videocamere. C’era il parco dei drogati, un posto perfetto dove trovare qualcuno in overdose senza insospettire Carabinieri e Polizia, ma non era la sua zona. Preferì la camporella fuori dal C.E.P. visto che era ancora presto per le coppiette.
«Ma quanto cazzo pesi, troietta!» disse, mentre la trascinava reggendola per le ascelle sul terreno incolto. La osservò meglio. «Ma tu sei la puttanella che m’ha fatto il pompino, brutta stronza.» La prese a calci diverse volte sul fianco, ripetendo «Stronza» a ogni pedata. Insoddisfatto dall’assenza di reazioni, l’ultimo colpo glielo assestò in pieno volto, spaccandole il labbro e fratturandole il setto nasale.
La Q2 era off limits per quella sera, per cui dopo cena Jefe andò al Bubble, un’altra discoteca frequentata da adolescenti. Era territorio di Fabri, un pusher che non gli avrebbe opposto resistenza per una sola sera.
«Jefe, cazzo vuoi?»
«Al Q2 ci son sempre le solite, voglio fica fresca.»
«E?»
«C’ho la coca. Te la do al solito e la rivendi al doppio. Eh?» Fece l’occhiolino.
«Affare fatto. Ma domani sparisci, ok?» Sottoscrissero il patto battendo i pugni.
«Tira fuori le troiette, intanto.»
«Va’!» Gli diede una tessera. «Offri da bere a quelle due, vedrai che ti seguono.»
«Ma cazzo, son vecchie, avran vent’anni!»
«Fidati che c’han sedici anni al massimo.»
Poco convinto s’avviò al bar; in effetti, le ragazze da vicino dimostravano la loro giovane età. Con un drink ciascuna le portò a ballare in pista poi, con la promessa di un tiro di coca, le portò nel privé dove trovarono Fabri. I quattro sniffarono una pista ciascuno, poi Jefe si lasciò cavalcare da una delle ragazze, disinteressandosi dell’altra coppia finché non fu soddisfatto.
«Dai, adesso fate qualcosa tra voi due,» propose Jefe.
Le ragazze iniziarono a limonare e il flash s’accese. Smisero subito e si girarono dall’altra parte.
«Ehi, spegni quel coso,» disse una.
«Su, un sorriso per zio Jefe?» Con la mano libera sollevò una gonna, che prontamente venne riabbassata dalla proprietaria.
«Vaffanculo, cazzo!»
«Vaffanculo tu.» La spintonò in malo modo.
«Dai, andiamo.» Prese l’amica e uscirono in fretta dal privé.
«Troie!» Gli urlò dietro.
«Lasciale perdere. Vado a cercare qualcuno disponibile per uno spettacolo, tu resta qui e rilassati,» disse Fabri, preoccupato che Jefe gli rovinasse la piazza.
Il pusher peruviano aveva la tachicardia così, nel tentativo di calmarsi, si rollò una canna. Rimasto solo a fumare, si concentrò sui colori del televisore a sessanta pollici, sintonizzato su News24.
«È caccia al branco che, nella notte, ha drogato, violentato e ucciso due ragazze di quindici e sedici anni. I corpi ritrovati in un campo abbandonato della prima periferia. Si indaga negli ambienti dello spaccio tra gli immigrati irregolari.» Il testo scorrevole con le ultime notizie era sovrimpresso a un filmato con Trump e Macron; l’audio era a zero e l’unica cosa che si sentiva era l’unz-unz della musica trance in pista.
Fabri tornò di corsa e disse, trafelato: «Jefe, ti stanno cercando i pulotti, che cazzo hai combinato?»
«Io? Niente. Ho un regolare permesso di soggiorno.»
«Ok, non lo voglio sapere. Ho trovato una scusa per intrattenerli, però tu adesso alzi i tacchi. Subito! Dove hai parcheggiato la tua merda di SUV?»
«Dietro.»
«Bene. Forse non l’hanno visto. Dirò che non sei mai stato qui però, cazzo, sparisci! Non voglio guai.»
Il pusher peruviano raccolse le sue cose; con il cervello perso nei fumi della marijuana si avviò verso l’uscita di sicurezza più veloce che poteva.
«Jefe!» Una mano lo trattenne. «Per fortuna che sei qui.» Era una ragazza, forse sedicenne, con il trucco sfatto e una bava marrone all’angolo della bocca. «Hai dell’ero?»
«A casa.»
«Merda!»
«Se vuoi l’ero vieni da me.»
La ragazza esitò un secondo. Lui fece per girarsi e lei lo trattenne: «Ok. Ok. Sto troppo male. Vengo.»
«Sbrigati, che ho fretta.»
Le diede il tempo di raccogliere nient’altro che la borsetta. Si fece aprire l’uscita di sicurezza dal buttafuori e corse in macchina, trascinando con sé la sedicenne impacciata dai tacchi.
«Se devi vomitare apri il finestrino.»
Lei non rispose.
Jefe fece manovra e lanciò il SUV per una strada sterrata.
«Ehi, accendi i fari,» gridò la ragazza.
Lui l’avrebbe fatto, una volta raggiunta la provinciale. Ma per il momento non voleva farsi vedere dalla Polizia mentre s’allontanava dal Bubble.
«Accendi i fari, ho detto,» urlò, terrorizzata.
«Ci vedo,» rispose con sufficienza, mentre il tachimetro digitale segnava numeri sempre più alti.
La ragazza fu presa da un attacco isterico: «Accendi quel cazzo di fari!» Cominciò a scalciare contro il portaoggetti e battere i pugni sul cruscotto; fece partire senza volere l’autoradio, che iniziò a sparare musica trance ad alto volume.
Jefe tentò di bloccare la ragazza con il braccio, ma così facendo perse il controllo del mezzo. Si ribaltò una volta e si schiantò contro un pilone di cemento armato. Il lato destro del SUV era completamente distrutto; la ragazza era esanime in mezzo alle lamiere e agli airbag rossi del suo sangue.
«Troia!» Jefe ripeté più volte. «La mia macchina, cazzo! La mia bellissima macchina!»
Il pusher s’accorse della lingua di fuoco che s’alzava da sotto il fondo. «Sei una maledettissima troia!»
Con tutte le sue forze aprì la portiera e si trascinò fuori, urlando di dolore perché la gamba destra era fratturata. L’unz-unz dell’autoradio fu interrotto dall’esplosione del serbatoio. Jefe, investito dall’onda d’urto, sbatté con violenza al suolo. Nel barlume di coscienza che gli rimase sentì che i pantaloni avevano preso fuoco.
Si risvegliò, se così si può dire, in un letto di ospedale. Si godette gli ultimi momenti dello sballo da morfina, poi realizzò che ogni parte del suo corpo gli inviava segnali di dolore.
«Aiuto! Aiuto!»
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