Se Charlie scoprisse che entra in camera sua quando lui non c’è, si arrabbierebbe da morire.
Lo conosco Charlie. Diventa tutto rosso e si mette a urlare.
“Sparisci Mel o ti gonfio la faccia”, le ripete in continuazione, come il ritornello di una di quelle canzoni che risuonano a tutto volume quando la casa è vuota.
Non succederà mai. Lo so io e lo sa anche lei. L’unico a non saperlo è Charlie. Tutta la sua vita è una promessa non mantenuta.
Di tanto in tanto si ferma, la bambina, all’erta come un piccolo animale spaventato da un rumore improvviso, ma è una specie di recita, uno spettacolo per un pubblico invisibile.
Quelli piccoli sono fatti così. Non sanno che la vita è come un biscotto della fortuna. Non devi mangiartelo: devi scoprire il messaggio che c’è nascosto dentro. Dopo puoi anche decidere se crederci o no, ma intanto hai fatto un passo avanti.
Nemmeno Charlie l’ha capito. Ma a tredici anni inizia a sospettare che non deve mettere in bocca quel biscotto tutto intero e ingoiarlo come se niente fosse. È pur sempre un inizio.
Mel infila due dita nella fessura e apre la porta dello sgabuzzino. Si alza sulle punte come una ballerina e raggiunge la catenella per accendere la luce. Poi mi cerca in mezzo alle altre sciocchezze di cui questo minuscolo stanzino è stipato fino al soffitto e mi punta quei suoi enormi occhi addosso.
“Tu parli, vero?” mi chiede.
Faccio finta di nulla, mi riesce facile.
“Non c’è bisogno di farlo ora”, aggiunge, alzando le spalle con aria di sufficienza.
Dà una rapida occhiata al resto del ciarpame che affolla lo sgabuzzino. Sono l’unico che potrebbe parlare qui dentro. Il resto sono oggetti pronti per la discarica.
“Tanto lo so che sei capace”, canticchia tra sé e sé, cercando di evitare che i nostri sguardi si incrocino.
All’improvviso afferra una vecchia maschera da sub a poca distanza da me. Lo spostamento crea una piccola reazione a catena. Oggetti scivolano lentamente verso il basso e poi si fermano dando vita a un nuovo equilibrio. Anche io mi sposto, appena un po’. Va di male in peggio. Se continua così, finirò in fondo al mucchio.
Ora mi punta un dito contro. “Comunque se proprio lo vuoi sapere ho sentito te e Charlie discutere”, mi dice. “Ho sentito la sua voce e poi la tua. Beh, immagino che fosse la tua. A meno che Charlie non sia così matto da parlare con se stesso. Che non sia rotto, capisci? Tu gli dicevi che volevi uscire di lì.”
All’improvviso abbassa la voce e si avvicina un po’ di più.
“È così, bestia? Vuoi uscire, tesorino?”
Fa quella vocina mielosa che usa per prendere in giro Charlie.
Poi di punto in bianco cambia registro.
“Non lo so, sai? Io mi vergognerei un sacco a farti uscire. Ma proprio un sacco, tesorino.”
Vorrei proprio sapere perché.
“Sei brutto. Non farti illusioni. Fai proprio schifo, bestia.”
Non credo sia per quello che Charlie mi lascia chiuso qui. Quasi quasi mi scappa di dirlo ad alta voce. Potrei anche rinfacciarle che nemmeno lei è poi tanto carina, ma sarebbe una bugia. È carina da morire. Vorrei mangiarmela viva alle volte, se solo avessi i denti per farlo.
Allunga una mano, quasi mi sfiora. Poi la voce di sua madre la ferma un attimo prima che mi tocchi davvero.
“Mel, cosa ci fai qui? Lo sai che non devi entrare in camera di Charlie.”
“Lo so, mammina”, le risponde. Ha ancora un tono diverso quando parla con lei. Un giorno questa ragazzina vincerà un Oscar.
“Allora sbrigati che dobbiamo uscire.”
Mi lancia un’ultima occhiata. Poi si allunga di nuovo sulle punte, afferra la catenella che pende dalla lampadina impolverata che illumina a fatica lo sgabuzzino e, poco prima di tirarla, sussurra piano “Ora vado, bestia. Ma torno, tesorino. Stanne certo. Così vediamo se ti decidi a parlare anche con me.”
Accosta piano la porta senza farla cigolare. La lascia aperta appena un po’, tanto per assicurarsi che l’ultima cosa che veda attraverso la fessura sia il suo sorriso e un lampo dei suoi riccioli d’oro.
Tornerà. Lo so io e lo sa anche lei. È una che mantiene le sue promesse, Mel.
Non sono una gran bellezza, ma non ho certo bisogno di sentirmelo ripetere ogni volta che qualcuno apre la porta dello sgabuzzino.
Quando vivevo al negozio di souvenir all'aeroporto era un’altra storia. Appena confezionato, tirato a lucido, in bella mostra in uno di quei contenitori girevoli, in mezzo a una decina di altri identici a me.
Beh, non proprio identici. Una differenza c’era già allora. Io parlavo ma nessuno di loro si sognava di rispondermi.
Quando mi sono accorto che una voce ce l’avevo solo io avrei anche potuto sentirmi diverso. Fuori posto. Ma non sono il tipo. Questa faccenda del parlare l’ho sempre vista come un dono del cielo. Mi sento speciale, adesso come allora, anche chiuso qui dentro.
Mi manca, quel dannato aeroporto. L’andirivieni continuo, gente che ti mette le mani addosso, bambini che ti strizzano e ti mostrano i denti storti provando a sembrare minacciosi.
Non è stato Charlie a portarmi via da lì. È stata Janel, sua madre. Il giorno che sono atterrati a Honolulu ha pensato che suo figlio avrebbe gradito uno squalo di pezza. È così che sono entrato a far parte della famiglia.
Che Dio la benedica, Janel. È tanto dolce, ma forse anche lei ha l’ovatta al posto del cervello.
Quando il papà di Charlie è morto, in men che non si dica si è messa insieme a quell’idiota di Frank e ha accettato di trasferirsi qui a Honolulu. Avrebbe potuto scegliere chiunque. C’era la fila fuori dalla porta. Ma si è messa d’impegno per scegliersi un gran bastardo.
Il punto è che nemmeno se ne rende conto. Pensa di aver sposato il principe azzurro. Solo che il suo principe costruisce condomini e sta cercando di riempirne questo paradiso nemmeno stesse giocando a Monopoli.
Non c’era la bambina quando si sono trasferiti. La bambina è arrivata soltanto dopo, tanto per complicare le cose.
All’inizio Charlie doveva aver pensato che le Hawaii fossero una specie di vacanza, un soggiorno in Paradiso, che nel giro di un paio di settimane la madre avrebbe mollato Frank e sarebbero tornati sulla Terra. Il matrimonio sulla spiaggia deve avergli aperto gli occhi, anche se aveva solo sei anni. Scommetto che sotto il vestito bianco di Janel si intravedeva già il profilo della piccola Mel. La vacanza è diventata lunga una vita e il paradiso è diventato un inferno.
“Quando ho capito che dovevo andare a scuola, ho pensato mi prendessero in giro”, mi ha raccontato una volta. “Alla fine è meglio che stare a casa. Anche quella è uno schifo ma se non altro nessuno cerca di convincerti del contrario.”
Lo capisco. Per un po’ ho avuto il mio posto d’onore, ma da lì in poi è stata una regressione continua. Dal letto al comodino, dal comodino alla mensola, poi dentro una cesta e infine nello sgabuzzino. Non che dormire con Charlie fosse il mio sogno, eppure era meglio di questo stanzino.
Per anni non mi sono sognato di aprire bocca. Se vai d’amore e d’accordo con qualcuno non c’è bisogno di parlare. Quando sono andato a finire qua dentro non potevo certo starmene zitto.
La prima volta che ho parlato se l'è fatta addosso, ma ha tenuto la bocca chiusa. Non è il tipo da andare a raccontare in giro che ha uno squalo di pezza chiuso nello sgabuzzino che parla come un libro stampato. La gente penserebbe che è rotto. Poi con il tempo ci ha fatto l’abitudine. E ora sono soltanto una delle tante cose della sua vita che non va per il verso giusto. La ciliegina sulla torta.
Eccolo, il mio ragazzo. Ha fatto tardi oggi, lo aspettavo di ritorno prima.
Dalla fessura che ha lasciato Mel vedo la TV accendersi. Parte la sigla di Hawaii Five-O. Un’onda gigantesca, poi un fuoco incrociato di scene notturne, grattacieli di luci e sirene della polizia, di nuovo la spiaggia, una sventola in bikini che corre al tramonto, scene di danza, squarci di natura. La sigla perfetta. Pochi secondi che sintetizzano tutto quello che questo arcipelago ha da offrire.
Abbassa il volume. È soltanto una replica purtroppo. Lo show ha chiuso in primavera. In autunno la CBS lo sostituirà con un’altra serie, la storia di un investigatore privato reduce del Vietnam. Magnum vattelapesca, che ne so. Intendiamoci, io sono aperto alle novità e tutto, ma quando chiudono la tua serie preferita ti viene voglia di buttare il televisore fuori dalla finestra. Non c’è niente che possa sostituirla.
“Che hai fatto oggi?” gli domando. “Dopo la scuola, voglio dire.”
“Che ti frega?” mi fa lui. Ogni volta esita un istante prima di rispondere. Forse spera sempre che qualcosa sia cambiato, che quella voce non esca dallo sgabuzzino ma dalla sua testa e che prima o poi troverà un modo per farla tacere.
“Era tanto per sapere”, gli dico.
Potessi alzerei gli occhi al cielo. Dio, che cattivo carattere. Quasi quasi mi viene voglia di dirgli che Mel è stata qui. Così, tanto per dargli un motivo in più per avercela con il mondo intero.
“Sono stato alla spiaggia, se proprio vuoi saperlo.”
Alla fine sono l’unico in questa casa con cui può parlare davvero. È triste, ma lo sa anche lui.
“Da solo?” gli chiedo.
“No. Con degli amici.”
È una novità, questa.
“Nient’altro?” gli chiedo.
“So dove vuoi arrivare.”
“Quindi?”
“No. Non ci sono andato in surf. E smettila di chiedermelo.”
È qui che lo volevo. Gli fa paura l’oceano. Vive su un’isola in mezzo al Pacifico e gli fa paura l’oceano. Alla fine non è tanto diverso da me. Siamo chiusi tutti e due da qualche parte. Il suo sgabuzzino sarà anche più grande, ma tanto non va da nessuna parte comunque.
La tavola è stata un regalo di sua madre, una trovata del suo cervello ripieno di ovatta. Quando tuo figlio è una promessa non mantenuta, un elenco infinito di mancanze, regalargli una tavola da surf significa soltanto aggiungere una voce in più all’elenco delle cose che non sarà mai.
Presto finirà nello sgabuzzino anche quella. Eppure potrebbe uscirne qualcosa di buono, se solo volesse.
He’e nalu. È la parola che usano da queste parti per indicare il surf. Letteralmente significa “scivolare sulle onde”. Ed è quello che è, dopo tutto. Niente di più.
Il problema di Charlie è che è già nell’oceano. C’è dentro fino al collo e nemmeno se ne rende conto. E certo, magari è un oceano dove non ci si bagna, ma le sue onde fanno paura comunque. Lo travolgono e lo spingono sotto. Più il tempo passa e più fa fatica a stare a galla. Non sa come tirarsene fuori, ma forse imparare a scivolare gli farebbe bene.
Accende lo stereo a tutto volume. Discorso chiuso per oggi, a quanto pare.
La batteria scandisce un ritmo tribale, in un crescendo di distorsioni si fa strada la voce di Eddie Van Halen. Everybody want some!! Se il resto degli anni 80 avrà la stessa colonna sonora ci sarà da divertirsi. Il vecchio Eddie non fa che ripeterlo, con quel suo modo sguaiato e suadente di cantare. So benissimo che cosa vorrebbe, Eddie. Non ci vuole un genio, a capirlo. Lo sanno tutti tranne Charlie. Il ragazzo è un po’ indietro di cottura su certe cose.
“Cosa cazzo è questo frastuono?”
Questa non è la voce di Eddie purtroppo. Frank è rientrato prima del solito.
“Ora spengo, stai calmo. Di solito non sei mai a casa a quest'ora.”
Lo so io e lo sa anche Charlie, ma a Frank non frega nulla comunque.
“Cosa abbiamo detto sul volume della musica, campione? Ci sono delle regole. Devi solo rispettarle, anche quando non ci sono.”
“Non ti ho sentito arrivare, tutto qui”, taglia corto Charlie.
“E mi aspetto anche delle scuse.”
“Come?”
“Forse il baccano di prima ti ha causato dei problemi di udito e non mi hai sentito. Ti ho chiesto delle scuse, campione. Vedi farlo in fretta.”
“Smettila con queste stronzate, Frank. Non sei mio padre.”
Nonostante lo abbia tenuto così a lungo chiuso nella testa alla fine quel pensiero ha trovato uno spiraglio per uscire.
“Come hai detto?” gli chiede. Si finge sorpreso, sinceramente addolorato. Un altro attore in famiglia.
“Non sei mio padre”, ripete Charlie. Non lo dice ad alta voce, questa volta. Non come prima. È un dato di fatto, una constatazione amichevole. Ma Frank non ci sta.
“No, no”, ringhia, lo stesso tono crudele della sua bambina. Solo che non ha sei anni e una testa di riccioli d’oro, Frank. Ha i capelli tagliati come un marine, la mascella squadrata e un'espressione feroce.
“Non ci siamo, campione. Pensa bene a quello che hai detto.”
Lo afferra per la maglietta. Attraverso la fessura della porta vedo Charlie sollevarsi da terra come se non avesse peso, come se fosse un pupazzo anche lui.
“Non sei mio padre”, guaisce, con la voce che gli trema e le lacrime che cercano una strada per uscire.
Frank lo rimette a terra. Gli sistema i vestiti sgualciti. Gli accarezza la testa. “Lo so”, dice piano. “Lo so, campione.”
Si gira e fa per andarsene, ma poi ci ripensa.
Lo schiaffo prende di sorpresa anche me. Per Charlie è come se uno squalo lo avesse strattonato, un morso di quelli che fanno male, che ti tirano verso il fondo. Ma qui non c’è sangue. Non piange nemmeno, Charlie. Va soltanto giù, nel buio, da dove è difficile risalire.
Frank non gli chiede più di ripetere quello che ha detto. Non sa più cosa farsene delle sua scuse. È soddisfatto. Voleva tirargli quello schiaffo da tempo, forse dal giorno stesso in cui si sono trasferiti qui. Ha dovuto aspettare anni ma alla fine ne è valsa la pena.
Questa volta se ne va sul serio.
Charlie indossa le cuffie e riaccende lo stereo, lascia che la musica si riversi come un’onda nelle orecchie. Si tiene una mano sulla guancia, batte fuori tempo i pugni sul letto. Poi si alza e spalanca la porta dello sgabuzzino. Vorrebbe dire qualcosa, ma dalla bocca non gli esce nemmeno una parola. Allora inizia a prendere a calci ogni cosa che gli capita a tiro e lo sgabuzzino si trasforma in uno dei vulcani dell’isola. Un’eruzione di cianfrusaglie si riversa sulla moquette della stanza e prima che riesca a dirgli di fermarsi mi ritrovo a rotolare sotto il letto. Da lì lo vedo ansimare, stringere i pugni contemplando il caos che ha generato. Poi afferra la tavola da surf e scappa via e a me non resta che sperare che qualunque cosa accada adesso sia un inizio e non una fine.
È buio quando rientra.
Si siede sul letto. L’acqua gli gocciola dai capelli e colora di macchie scure la moquette.
“Com’è stato?”, gli chiedo.
“È stato bello”, dice senza esitare. Poi si inginocchia sul pavimento e allunga una mano per tirarmi fuori. Mi sistema sul letto accanto a lui.
“Hai preso qualche onda, amico?”
“No, nemmeno una”, risponde sorridendo.
“Non importa. Ci vuole tempo.”
“Ho nuotato verso il largo, steso sulla tavola.”
Fosse stato per lui non sarebbe più tornato. Questo non lo dice, ma so che è così. L’oceano non ha smesso di fargli paura, ma ora quello che c’è sulla terra gliene fa di più.
“Ti va di venire con me, domani?” mi chiede. “Ti metto nello zaino e lascio la cerniera aperta. Così puoi vedere.”
Gli dico che mi piacerebbe. E poi sono abituato a guardare il mondo attraverso una fessura. A prendere la realtà a piccoli morsi e immaginare il resto.
A quest’ora e in questo periodo dell’anno la spiaggia è quasi deserta. Avevo immaginato l’andirivieni dell'aeroporto. Ragazze in bikini fucsia, i capelli biondi cotonati, stereo portatili sotto braccio. Centinaia di bambini pelle e ossa con i loro sorrisi storti e la pelle arrossata dal sole.
Ma ci siamo soltanto io e Charlie, qualche altro surfista e le onde. Migliaia di onde.
Charlie mette la tavola sulla testa e corre verso l’oceano. Ci vuole un po’ prima che succeda, ma alla fine eccolo lì, che scivola, anche se per pochi istanti prima di finire gambe all’aria. È lontano ma so che sta sorridendo.
Quando decide di smettere, viene a sedersi sulla sabbia. Con le mani ancora bagnate mi tira fuori dallo zaino e ce ne stiamo lì, uno accanto all’altro, a guardare l’orizzonte.
“Farai tardi per cena e Frank darà di matto”, gli dico.
“Non importa”, fa lui. Chissà se è quell’onda a fare la differenza, ma mi sembra che sia arrivato il momento. E così lo dico.
“Lasciami qui, Charlie.”
“Come scusa?”
“Hai capito benissimo. Ho detto lasciami qui. Ho passato troppo tempo in quello sgabuzzino. Sono come uno di quei messaggi nei biscotti della fortuna. C’è gente che ti mangia tutto intero. Altri che ti leggono distrattamente e poi ti buttano via. Sono stufo di stare chiuso là dentro, aspettando di cambiare la vita di qualcuno.”
Non so se ho cambiato la sua, ma mi piace pensare che sia così.
“Non posso lasciarti qui da solo”, dice, indicando la spiaggia.
“Lo so”, rispondo. “Non è qui che voglio stare.”
“Che vuoi dire?
“Non fare il finto tonto Charlie. Di nuovo. Hai capito benissimo.”
“L’oceano?”
“Sono uno squalo o no?”
Vorrebbe dirmi di no, che sono solo un pupazzo. Che galleggerò alla deriva. O mi inzupperò e finirò sul fondo. Ma non ha idea di quel che accadrà. Non lo sa lui e non lo so io.
“Come funziona?” mi chiede allora.
“È come quando vai a caccia di onde. Metti la tavola sopra la testa e corri verso l’oceano. Poi la lanci di fronte a te con tutte le tue forze.”
“Sì. E poi?”
“Ti tuffi a inseguirla. Solo che questa volta devi lanciarmi a basta.”
“Non ti vengo dietro?”
“No, non mi vieni dietro, amico.”
Ci pensa su. Diventa tutto rosso. Ma non è rabbia, questa. È qualcosa di diverso, che non credo di avergli mai visto addosso. Non ne sono sicuro. Ho passato tanto tempo chiuso dentro a uno sgabuzzino. Chissà quante cose mi sono perso.
“Pensi di poterlo fare, Charlie?” gli chiedo.
Fa di sì con la testa. “Ho scivolato su un’onda oggi”, dice.
“Sì, amico. L’hai fatto davvero.”
Potrei dirgli tante altre cose, ma sono stufo di parlare. Non ho più bisogno di sentirmi speciale.
Mi prende tra le mani, che ora sono asciutte, ma piene di grinze come quelle di un vecchio.
Poi si alza e inizia a correre. A un passo dall’acqua mi lancia con tutte le sue forze.
Poco prima di toccare l’oceano ripenso a tutta la mia vita. Anche chiuso dentro uno sgabuzzino sono stato fortunato ad averne una. Ad avere una voce per raccontarla.
Ma dove sto andando non mi servirà più. E così la lascio andare.