Io vivo in uno dei diciassette villini presenti creati dall’eclettico architetto Coppedè, nei primi del novecento. I villini sono i più belli e bizzarri di Roma, un miscuglio di arte sfarzosa e un po’ fittizia Liberty e Decò.
I Beatles, qualche anno fa, dopo un loro concerto nel vicino Piper si tuffarono meravigliati da tanta originalità nella centrale ‘ Fontana delle Rane.’
Prima del crepuscolo il villino assume la stessa totale asimmetria e lo stesso colore rosato degli edifici accanto, e questo è un po’ bello e un po’ triste. Siamo nel 1980 e Dario Argento ha girato proprio qui il suo film ‘Inferno’ ispirato da questi colori e dalla musica ossessiva di Keith Emerson.
Un quartiere così influenza molto la mia vita, la supera, la soverchia e forse l’abbatte.
Ho ancora la borsetta a tracolla quando apro le finestre e faccio entrare l’odore delle magnolie, dei tigli in fiore, e della noia estiva. Le estati da queste parti ti ammazzano.
Ora che ci penso, è la riscossa delle ombre rimanenti del piccolo giardino che mi infastidisce, non la temperatura, sono troppo vaghe, non restituiscono immagini chiare, non tengono compagnia. A quest’ora le ombre sono rimasugli scadenti, poco decifrabili, criptici, paurosi.
Mi accontento di mangiare un panino ben imbottito, sul davanzale di marmo. Da bambina mi era proibito farlo, e ora che non ho più nessuno che mi comanda, mi sfogo. Il marmo inciso di putti e facce sconosciute mi dà l’impressione di stare in una trattoria del centro, con gente vicino, senza il fastidio delle loro voci.
L’ indulgenza che ho verso gli animali è diventata il mio ossigeno. I merli che saltano goffi sul salice piangente in vorticosi corteggiamenti non mi danno alcun fastidio, mi ricordano il mio passato di flessuosa ballerina, ma ormai è preistoria e se lo dico è perché non ho un cane a cui raccontarlo.
Anzi un cane ce l’ho, e adesso se ne sta, scomodamente sdraiato e obeso in una stanza adibita a sgabuzzino, a torcere il collo a un pollo finto, di plastica cinese.
Ricalcolando le sue entrate energetiche, la sua floridezza potrebbe essere frutto delle visite mattutine al bar pasticceria di via Regina Margherita, dove profuma tutto di ciambella. D’altra parte essere grassi di colazioni tutt’e due è la nostra principale, sconsiderata, forma di fratellanza.
- Dopo tutto quello che ho visto che non avevo mai visto, alla soglia dei due anni, ho quasi dimenticato la tristezza di quando stavo al canile, in uno spazio più grande, con tanti disgraziati come me, di tutte le età. - Dove a noi cuccioli davano latte scaduto e vaccini scaduti, donati da gente generosa e criminale. - Dice.
‘Dice’ perché il mio cagnetto ha il dono della parola. Un dono un po’ scomodo per me.
- Come puoi sapere che il latte e i vaccini fossero scaduti?
- Lo ripeteva la ragazza sempre arrabbiata che con il tubo faceva scorrere l’acqua sui nostri miserabili escrementi . - E io avevo il corpo mezzo tumefatto per tutti quei spostamenti improvvisi, sono piccolo e mi scivolava sempre qualche corpo addosso. - Senza cattiveria, però . - Lì ci volevamo tutti bene.
- Quando stai male, per sopravvivere devi volerti e volere bene. - Solo lei, con il pantalone palazzo e il tubo dell’acqua sembrava una indemoniata, e la chiamavano ‘volontaria’.
- Quando sei arrivata tu, eri diversa, sembravi una madonnina, tanto eri bella e rassicurante.
- Si sono azzittiti tutti, e hanno smesso pure di mangiare per farsi osservare meglio, per osservarti meglio. - Hai puntato l’indice verso di me, e hai detto voglio quello con la stella in fronte. - Se è in cielo, ti ha ringraziato di sicuro, la mia mamma.
- E poi mi hai portato qui e per non farmi sporcare, che mi scappava spesso la pipì come a tutti i cuccioli, mi hai messo nello sgabuzzino con la porta aperta per controllarmi, dietro una staccionata fatta di libri, tanto non sapevo ancora saltare. - Per rimpolpare la mia simpatia m ihai presentato pure ai vicini : Lui è Cicciobello, il mio bambolotto.- E a me quel nome è piaciuto subito.
- Sono contenta che il nome ti sia piaciuto, quando mi hai visto per la seconda volta, la prima al canile, dopo la noia di un lungo tragitto stavi tra le mie braccia, ti eri appena svegliato, e ho assunto velocemente, proprio per rassicurarti, un’espressione dolce e felice, anche se non sono dolce e felice, almeno in questo momento. - Poi mi sono seduta sul divano enorme e mi sono addormentata, vicino a te. - Al mio risveglio avevi distrutto le gambe di tutte le sedie e il pavimento bianco era diventato scuro con la tua cacca sparsa dappertutto. - Un cucciolo non poteva aver defecato in quella quantità, senza neppure aver mangiato. - L’unico posto che poteva custodire la tua frenesia intestinale era lo sgabuzzino, e lì ti ho messo, proprio sotto la mia macchina da scrivere, sotto la pila dei miei articoli e delle mie sigarette.
- Sei una scrittrice?
- Diciamo che mi diletto, in questo quartiere siamo tutti un po’ artisti, ma non è il mio lavoro principale, ho sempre insegnato danza.
- Lo sgabuzzino è stato pure il mio posto dell’infanzia, se osservi bene il muro ci sono ancora i miei graffiti a matita e pennarello. - E in bellavista le mie collezioni di lattine di gassosa e Barbie.- Lo sgabuzzino era il mio ufficetto.
- Sarà, ma qui dentro sembro un recluso, potrò avere una vita migliore, lunga e sana, se mi lascerai correre in libertà e saltare sul gigantesco divano bianco. - Qui è tutto bianco.
- Quando sarai più disciplinato, ti lascerò campo libero, potrai correre veloce come Mennea, il nostro campione che ha appena vinto un oro olimpico a Mosca.
- Fino a adesso ho vissuto in un gregge non potrò imitarlo. - Posso solo farmi le labbra arancioni masticando il rossetto che dimentichi dappertutto.
E pensare che volevo fare un’opera buona per ringraziare della guarigione.
- Che guarigione?
- Ho lottato con una brutta malattia, una pessima malattia che non ha saputo fare il suo dovere, non è riuscita a uccidermi. - Tu sei stato il primo regalo che mi sono fatta, il più bello.
- E non aggiungo altro, non voglio impietosire nessuno.
- E non puoi tenermi più accanto a te? Ti aiuterei.
‘ No, non è possibile.’ Lo dico imitando la lettura di una cartella clinica.
- Lo faccio per il tuo bene. - E poi starti troppo dietro mi porterebbe via una quantità di tempo incredibile e non me lo posso permettere.
- Dammi la possibilità di capirlo da solo quello che è il mio bene. - Si nasce sempre dopo le disgrazie, pure io
sono nato dopo la morte della mia mamma.
- Ma cosa dici, la tua mamma ti avrà pure allattato, mica si nasce da una morta.
- Io non me lo ricordo.
- Be’, comunque quando sei nato era viva, e pure parecchio per metterti in salvo. - Così mi hanno raccontato quelli del canile.
- Sono un cane, anche se parlo non posso sapere tutto.
- Non devi sapere tutto. - Io ho i miei problemi, ti ho adottato proprio per vincerli, quei problemi.
- E per chiedermi dove ho nascosto il telecomando di gomma.
- Cane senza razza, piantala di lamentarti!
- Sei tu che hai creato atmosfera di frontiera, manca solo il filo spinato che mi penetri nella carne, mentre dalle giunture della porta dello sgabuzzino entra l’odore acre delle tue sigarette. - Sento i sussurri e le grida di tante donne e rudimentali, banali, conversazioni, e quel Sylvester che canta sempre la stessa canzone, e voi che accennate sempre le stesse mosse di ballo.
- Ma che è muto questo cane, mi sento dire spesso con disprezzo, solo perché non abbaio per timidezza.
- Perché non me le hai comunicate prima queste incredibili sofferenze psicologiche?
- Prima non parlavo, ho imparato a farlo quando proprio non ne potevo più, non sono mai stato un cane triste, ci tengo a precisarlo, avevo solo bisogno di acqua, poco cibo e fare pipì, e tu ogni tanto dimenticavi qualcosa.
- Mi fai sentire una donna orribile.
- Hai presente le cicale che cantano tutto il giorno e poi quando muoiono lasciano la loro corazza vuota e trasparente attaccata all’albero che le ha sopportate?
- Sì
- Bene, tu la sera lasciavi la tua corazza vuota e trasparente su quel maledetto divano, e ti addormentavi senza preoccuparti della mia alimentazione.
- Non esagerare, sei obeso, i cani dovrebbero mangiare solo una volta al giorno per stare in salute.
- Non esagero, al primo dente hai buttato via i miei bisogni, pur’io ho una vita emotiva che tu hai evitato.
- Ma quante te ne escono da quella bocca?- Quante? - Tu sei depresso, - ho adottato un cane depresso.
- Magari uno di questi giorni mi farai l’onore di leggermi uno di quei libri della staccionata, di farli diventare picconi che sfondano il muro e trasformano il mio isolamento in gita all’aperto specialmente quando la mia autostima di cane adolescente sfiora quella di un girino. - E di comprarmi una ciotola seria e pesante, che non si sposti come quei ridicoli piatti di plastica che inseguo tutto il giorno. - Ora chiama la tata, quella che ha le borse azzurrine sotto gli occhi azzurrini, e dille che se non mi porta a spasso nella foresta poco pluviale del quartiere, me la faccio sotto.
- Esci fuori da questo maledetto sgabuzzino, mangia molto, dormi molto, e passa molto tempo sdraiato sul divano, e fai la pipì dove ti pare, non voglio averti sulla coscienza.
- E ascolta Sylvester, non lo dici?
Rido. Ma la mia risata è sconnessa e isterica, non so come la prenderà.
Cicciobello scuote la testa.
- Che c’è?
- Sto pensando ai miei amici rimasti in quel tugurio mentre noi litighiamo per delle frivolezze.
- Domani li andiamo a prendere.
-Tutti?
- Bè, tutti no, un paio di quelli più malconci. - Non ho mai fatto del bene, è giunta l’ora che io cominci a farlo.
- Mia sorella è malconcia.
- Hai una sorella nel canile?
-Sì.
- Sei meraviglioso e terribile, non ci credo che tua sorella sia malconcia, ma l’adotterò.
Il giorno dopo il primo a entrare in giardino è un cane da caccia, sbanda e si capovolge trascinando nel suo entusiasmo la velocità degli altri due.
Il mio primo pensiero è che non mi sarei spostata da dietro la vetrata del villino, anzi che sarei salita al primo piano, per studiare meglio il loro comportamento.
Il ragazzo di colore che li ha portati in auto ottiene la promessa di un lavoro, quattro cani da gestire sono tanti e lui, almeno in parte, mi aiuterà.
La cura migliore per me è l’abbandono delle regole. Tutti quegli eroici guerrieri sparsi nel mio giardino a mordicchiarsi, a scavare buche, trincee verso un mondo che non li voleva, sono la mia medicina .
Cicciobello, per certi versi, è un gran dottore.
Ruzzoloni e capitomboli si placano. Le ciotole di acqua si svuotano.
Il giardinetto rettangolare, cresciuto per miracolo, si schianta sotto sedici zampette.
Sono troppo esausta e attonita per potermi commuovere, ma lo faccio comunque.
Esco all’aperto, una lingua mi si ficca tra le dita, un’altra ancora, un’altra, e un’altra, e diventano quattro. Pure Cicciobello si infila nella mischia dell’affetto, prima non l’aveva mai fatto.
Sono baci, sono il boato della loro felicità. Una ricompensa straordinaria per me.
Il ragazzo di colore che ha seguito la truppa di cani, con addosso un grembiule impeccabile, sorseggia aranciata e gin, non ha nessuna fretta di tornarsene a casa.
Dopo aver raccolto cacche con pezzi di carta, pure i suoi occhi brillano di riconoscenza.
A tarda sera di un estivo millenovecentottanta ho sui piedi il muso di quattro cani che sonnecchiano.
Si sposta il peso di quello meno leggero, Cicciobello.
Lo riconosco.