“Apri la porta.”
Fa segno di no con la testa. La parvenza di buio in cui è raccolto, all’impiedi, quattro pareti e un minuscolo riquadro di pavimento, sono tutto ciò che lo divide dall’inferno del mondo di fuori. Un fagotto lacero giace in terra, nell’angolo.
“Liam, apri la porta.”
Altro segno di no.
“Liam, non erano questi gli accordi.”
Silenzio. Trattiene il respiro come nei momenti in cui tutto sembra vorticargli intorno e l’ansia si fa più feroce.
“Liam, avevamo un patto.”
C’è una lama di luce che filtra da sotto la porta di ferro arrugginito.
“Liam.”
Espira a fondo.
“Liam.”
Appoggia cinque dita sul metallo come a lasciarvi impresso il segno del palmo: una leggera pressione, la porta s’apre un poco alla volta. La luce del sole entra dall’ingresso del bunker, un riquadro di cemento irradiato di bianco.
La figura di Socrate, disegnata controluce, è tutto ciò che i suoi occhi abbagliati distinguono: il fagiano sbatte le ali e arruffa le piume come fa ogni volta che lo stress prende il sopravvento.
I loro sguardi s’incrociano per un lungo attimo quando l’abituarsi delle sue pupille lo consente. Negli occhi del volatile c’è reprimenda.
Liam lascia cadere tutto con un gesto severo della mano; s’avvia fuori dal bunker, marcia a passo spedito, scalzo, nella sabbia. La spiaggia che gli si stende davanti è lo stelo del grande fiore marino, azzurro, scintillante, esteso fino a perdita d’occhio.
Socrate avanza a balzi cadenzati per stargli dietro; Liam si volta a guardarlo, ha un indice alzato nel modo che di solito precede un concetto grandioso.
“Ho,” mormora con la voce ancora impastata dal sonno, “Elaborato una teoria.”
Socrate sembra sorridere lungo la linea sottile del becco.
Lui si volta verso il bunker, apre le braccia ispirato: ha un aspetto profetico in quel paio di calzoncini beige e ciò che resta d’una Lacoste verde celadon, con la barba che inizia a crescergli più decisa e i capelli chiari, folti, ormai selvatici.
“Una teoria cui nessuno ha mai pensato prima. Sta’ a sentire.”
Guarda il bunker, nulla più che una mezza cupola di cemento tra le palme, il resto del camminamento crollato da tempo e inghiottito dalla vegetazione.
“Prova a immaginare la scena: lassù ci sono i Giapponesi, okay? Mentre di qua,” indica verso il bagnasciuga, “Ci sono i nostri che vengono su dal mare, okay? Riesci a immaginarli?”
Il fagiano strizza gli occhi e si concentra, annuisce vigorosamente.
“Saranno mille, duemila persone. Facciamo duemila. Mi segui?”
Socrate fa segno di sì, con gli occhi tondi e giallognoli colmi d’ammirazione.
“Fa’ attenzione perché è importante. Se tu sei UNO tra tutti costoro, dei Jap, dei nostri, non importa, uno solo: come fai a essere ancora vivo alla fine del giorno?”
Socrate fa segno di no.
“Mi dirai che è solo una questione di fortuna, o di destino. Di caso. Invece no.”
Socrate razzola la sabbia con insistenza.
“Se noi potessimo,” Liam maneggia l’aria, “Tracciare la vita d’ognuna di queste persone all’indietro, ciò che le ha portate ad essere qui, su quest’isola, questo giorno ben preciso, e in questo punto piuttosto che in quest’altro, distese anziché sedute, con l’elmetto o senza.”
Raccoglie un ramo secco d’arbusto indicando ogni direzione come la rosa dei venti.
“Allora potremmo tracciare una linea retta per ogni singolo proiettile che viene sparato.” Pianta il bastone nella sabbia e lo trascina.
“Qui un uomo muore. Ucciso da un proiettile sparato dal fucile d’un altro uomo che proprio quella mattina aveva pulito l’otturatore, cosa che ha permesso alla sua arma di non incepparsi. E lo ha pulito perché quella mattina s’è svegliato prima degli altri poiché non riusciva a dormire. E non riusciva a dormire perché la paura dell’attacco non lo faceva riposare. E la paura era così forte perché suo fratello era morto in Normandia qualche mese prima.”
C’è un vigore feroce nelle sue parole.
“E così per ognuna delle duemila persone che ci sono qui. Tutte quante, senza eccezioni.”
Abbatte le braccia lungo i fianchi.
“Alla fine del giorno, tutti coloro che sono sopravvissuti hanno dietro di sé una stringa, una linea retta, sulla quale si possono leggere, avendo un certo grado di onniscienza, le minuzie che lo hanno portato dove si trova. E così all’indietro, lungo tutto il corso della vita, formando un sistema matematico e fisico assieme, combinati alla perfezione.”
Si batte sulla tempia.
“E vale per tutti, tutti quanti! A Natale i Sovietici hanno invaso l’Afghanistan, migliaia di uomini contro altre migliaia di uomini: ognuno con la sua stringa.”
L’indice della mano destra si muove frenetico, a metà tra entusiasmo e stress emotivo, tracciando nella sabbia un principio di funzione.
Socrate ondeggia da una zampa all’altra e scuote le piume variopinte.
“Che c’è?”
“Non so, Liam,” pigola dispiaciuto, “Non mi convince, manca qualcosa.”
“Che cosa?”
“E se interviene una forza esterna a modificare il moto di un proiettile? Un soffio di vento, uno sbuffo di terra: come si spiega?”
Liam gratta la testa, vaga gli occhi. Fa per replicare, ci ripensa, non dice nulla. Cancella con un palmo.
“C’è un metodo per intersecare la stringa della vita con il tavolo, la superficie, che è il mondo, la natura. Se inseriamo un limite alla funzione, anzi un limite di limite, forse troviamo il valore esatto della sopravvivenza. La formula per stabilire un successo certo in un contesto di pericolo, di disordine, qualsiasi cosa.”
Il fagiano china il capo, in attesa che finisca di tracciare segni e formule nella sabbia. “Ma se quello che cerchi, Liam, non esistesse?”
Lui non ascolta, perso dietro un’ennesima sequenza di addendi. A un certo punto si alza e, senza proferir parola, se ne torna a chiudersi nel ripostiglio dentro al bunker.
*
“Apri la porta.”
Medita ancora, torvo, sulle variabili non considerate, gli effetti della natura, il macro e il micro. Fa caldo.
“Liam, apri la porta.”
Un segno di no.
“Liam, sei ben oltre il tempo concordato.”
Trattiene il respiro come nei momenti in cui tutto sembra vorticargli intorno e l’ansia si fa più feroce.
“Liam, abbiamo un patto.”
C’è una lama di luce che filtra da sotto la porta di ferro arrugginito.
“Liam.”
Spalanca l’uscio ed esce fissando il nulla; Socrate espira di sollievo.
“Ci stai sempre di più dentro quel buco. Posso ricordarti che abbiamo stabilito un massimo di…”
“Forse ho capito.” Agita un indice con quel che di nevrotico che è andato peggiorando col tempo. “Ho capito dov’è l’errore nella formula precedente: anche il cielo, la terra, il vento, tutto ha la sua stringa, ancora più ampia e complessa rispetto a quella degli esseri viventi. Tutto ha una stringa attaccata dietro di sé, tutto quanto! E se noi potessimo leggerla, allora capiremmo il senso della vita e del mondo.”
Socrate sbatte più volte le palpebre. “Sì, ma, tornando al ripostiglio, non ci stavi così tanto all’inizio. Adesso invece…”
“Mi aiuta a pensare.”
Il fagiano lo guarda con la stessa cupa amarezza di quella mattina. “Io sono preoccupato, Liam.”
“Oh, finiscila,” minimizza con un gesto, s’avvia a passo lento giù dal breve pendio, verso la riva del mare, “Sono sopravvissuto a un disastro aereo, non sarà qualche ora nel ripostiglio a uccidermi.”
“Io, io,” il volatile s’affretta a zampettargli dietro, “Io capisco, Liam: ti affanni a cercare un senso al perché sei sopravvissuto solo tu, ma… a volte non c’è un senso o un motivo, le cose succedono e basta.”
L’uomo si ferma, lo guarda. Ha l’aria provata da tutti i giorni spesi sull’isola, da un’alimentazione limitata, la solitudine.
“Non lo accetto, non più.”
Liam si volta, riprende a camminare, fosco, verso il bagnasciuga.
“Convincersi che qualcosa esista non lo rende reale!”
L’uomo fa segno di no con un indice, senza voltarsi, poi entra in acqua e continua a camminare. Socrate lo guarda sprofondare sempre di più tra le onde azzurre, per intero, un passo alla volta, fino a che anche la sua chioma incolta non scompare tra i flutti.
*
È calato il buio.
La luce del falò, acceso poco fuori dai resti del bunker, illumina un tratto di spiaggia e un’infinitesima parte della notte.
Liam siede a gambe larghe, con lo sguardo perso e la ciotola tra le mani, quel poco di legumi in scatola cotti alla meglio che non ha più voglia di mangiare.
Ha smesso già da un po’ di buttar giù le sue funzioni matematiche alla luce precaria del fuoco.
“Non eri così quando sei arrivato.” Il fagiano pulisce un’ala con metodico becchettare. “Voglio dire, salvarsi dalla morte dovrebbe renderci contenti d’andare avanti, non smaniosi di guardare indietro.”
“Non puoi capire.”
“Certo che posso,” sembra offeso, Socrate, mentre interrompe la toeletta e corruga lo sguardo, “Posso ricordarti che mi hai salvato la vita? Sarei morto di fame se tu non mi avessi raccolto e curato l’ala. E questo mi ha reso molto felice d’andare avanti.”
Crepitio del fuoco.
Liam espira mentre i tratti gli s’ammorbidiscono in un’espressione rassegnata. “Le nostre stringhe erano pronte a incrociarsi in questo punto, proprio qui, per una serie di motivi che solo analizzando quest’infinita distesa di informazioni potremmo comprendere.”
“Oh, la mia non è così lunga,” tuba con una certa soddisfazione, “Stavo solo cercando cibo sul limitare della spiaggia quando…”
S’interrompe e scruta negli occhi stanchi dell’uomo: in quelle iridi c’è un principio d’autodistruzione che ha origini più lontane del suo arrivo sull’isola, del suo serrarsi sempre più spesso nel ripostiglio, unico luogo veramente chiuso in quei pochi chilometri di roccia, piante e terra.
“Liam, io credo che non dovresti più entrarci lì.”
“È l’unico posto dove c’è un po’ di silenzio.”
“Liam, io non posso accettare che un giorno tu decida di non uscirne più.”
“Anche fosse, è un problema mio.”
“Liam, non dire così.”
“È un problema mio.”
“Liam, mi spaventi.”
“Solo mio.”
“Liam.”
*
Il sole è alto, il mare una tavola.
La porta di metallo si apre, cigola su vecchi cardini. Socrate espira di sollievo.
“Ho un altro pezzo della verità.”
Liam marcia deciso giù per il pendio, anche se una delle gambe è malferma per la forzata immobilità. Il fagiano gli zampetta dietro.
“La stringa delle esperienze vissute e quella dei fattori ambientali non bastano: ognuno di noi esseri viventi porta attaccata dietro la schiena anche una terza stringa, quella della nostra essenza. Dei nostri attributi innati. Quella somma di caratteristiche che ci contraddistinguono gli uni dagli altri.”
“Liam, tutto questo sta diventando assurdo.”
“No, invece. Un uomo con una microscopica malformazione congenita può reggere il fucile,” mima il gesto, “Un grado più in basso di un uomo sano, determinando il fallimento d’un singolo tiro che ne causa la dipartita sul fuoco di risposta.”
“Liam.”
Lui alza pollice, medio e indice verso il cielo limpido. “Tre stringhe. Attaccate dietro la schiena.”
Punta verso l’arbusteto slacciandosi i calzoni. Canticchia I’ve learnt to hate the Russians mentre innaffia le piante con troppe ore di vescica piena.
*
La notte è bagnata da un mare di stelle.
Socrate ha già avvicinato tre volte la ciotola ancora piena all’uomo che siede accanto al falò, digiuno, ma lui non l’ha raccolta.
“Liam.”
Fissa il fuoco che disegna brutti chiaroscuri sul suo volto scavato e i capelli sporchi di salsedine.
“Non puoi proseguire così.”
“No.”
“Devi trovare un motivo per andare avanti. Prima o poi passerà una nave, qualcuno verrà a cercarti.”
“No.”
“Il tuo aereo è caduto, ci saranno dei soccorsi …”
Non ascolta, perso dietro un’altra congettura immaginaria.
“Liam.” Socrate razzola il terreno. “Cos’è che non va?”
Silenzio, il suono delle onde, placido, in sottofondo.
“Liam.”
Un sospiro rassegnato. “L’assioma delle stringhe: non sono mai andato così vicino a renderlo efficace.”
“Lo stai facendo a spese della tua salute.”
“Eppure funziona, ci penso di continuo. Incrocia tutte le variabili possibili, in qualunque situazione, e la lettura del risultato spiega perfettamente l’evento accaduto. La vita, la morte, tutto ha un senso con tre stringhe attaccate dietro la nostra schiena.”
“Allora dov’è il problema?”
Altro sospiro. “Che c’è un solo ambito, uno solo, dove l’assioma non funziona.”
“Cioè?”
“L’amore.”
Occhi di fagiano si aprono e chiudono perplessi.
“L’amore, sì.” Liam porta una mano dietro la schiena, stringe forte alla base, come a tenere nel pugno le tre stringhe che da lì si estendono indietro fino al buio infinito. “Prendi la mia vita, leggila: non troverai una singola goccia d’amore. Non una.”
Socrate si sforza di scorgere i filamenti immaginari che sussultano nella sabbia.
Liam socchiude gli occhi mentre la testa inizia a viaggiare più forte. Ritorna all’infanzia, la timidezza, i pochi amici. Rivive in un turbine le botte e gli occhiali spaccati, l’acqua versata sui calzoni per sembrare piscio.
I voti eccellenti.
Riprende per mano se stesso coi languori e la rabbia della pubertà, la solitudine, lo studio, la stanza, chiuso in una stanza di college, quattro pareti, poca luce. Spazi ridotti, a suo agio.
Lo chiamano Granchio Eremita.
Le risa e il disgusto delle compagne di corso.
Granchio.
Eremita.
Il mondo va avanti, lui no.
Ritorna al giorno in cui decide d’andare avanti anche lui. Straccia i libri e i volumi di matematica, di fisica, getta gli occhiali, taglia i capelli. Spende i primi stipendi in abiti di marca, roba alla moda, scarpe all’ultimo grido.
Frequenta i disco-pub, le sale da ballo, da solo, con chi capita. Vince quelle paure ancestrali dell’uomo e avvicina prima con attenta selezione poi sempre più a caso.
Vuoi ballare? No.
Ci vediamo? No.
Un drink? No.
Perde il tempo ma non una mente brillante e allenata. Si laurea col massimo dei voti.
Trova lavoro a New York, uffici d’elite, stipendio alto, un mare di conoscenze.
Abbandona il marchio per un abbigliamento adulto, ragionato, consono alla sua posizione.
Un mare di colleghe.
Usciamo? No.
Ci vediamo? No.
Uno strappo a casa? Non occorre.
Decide che il problema è il suo fisico esile: paga un personal trainer, s’allena, aumenta di peso. Sceglie abiti che esaltino i pettorali in crescita.
Usciamo? No.
Ci vediamo? Non posso.
Mi accompagni? Sono già fidanzata.
Smette di allenarsi, compra un’auto sportiva, lenti a contatto azzurre, paga escort per passeggiare in strada e fingere d’avere una relazione.
Una normale.
Gli anni passano, cambia lavoro, posto, cambia città. Non la musica, quella rimane la stessa.
Usciamo? Sei troppo giovane.
Ci vediamo? Sei troppo vecchio.
Beviamo qualcosa?
Almeno una risposta?
È tutto scritto lì, in caratteri arancio fuoco, sulla stringa della sua vita passata che freme e si contorce come un viscido serpente. Sulla seconda ci sono i suoi tratti ineliminabili, i suoi attributi fisici: alto, basso, gli occhi ora scuri ora azzurri, esile, magro, allenato, un corpo che inizia a sentire il passare del tempo.
La terza stringa è quella piatta del mondo che ha attraversato in perfetta solitudine.
Granchio.
Eremita.
Socrate incupisce, la voce è esile. “Così è questo che cerchi di spiegare con tanta insistenza? La tua solitudine?”
“Perenne, perpetua, immodificabile.”
“Non sei solo, Liam.”
“Ci sei tu, certo. Un fagiano su un’isola deserta.” Sospiro denso. “Non sei neppure un fagiano, a dirla tutta. A quale specie appartieni: tu sai dirmelo?”
Silenzio imbarazzato. “No.”
“Certo, come potresti. Parli con la mia voce, sto parlando da solo. Mi sono ridotto a questo: fingere di parlare con un fagiano su un’isola deserta, solo per cullare l’illusione d’avere un posto nelle cose del mondo. Nei legami che tutti stringiamo gli uni con gli altri, ma non io.”
Socrate china il capo, affranto. “Tu mi hai salvato, Liam. Hai curato la mia ala.”
“Sei l’unico che abbia accettato da me quel che potevo dare.”
“C’è ancora tempo. Passerà qualcuno, prima o poi, i soccorsi per l’aereo caduto: tornerai a casa!”
Sorride appena, lui, scuote la testa. “Non c’è alcun aereo, amico mio.”
Il fagiano arruffa le piume in un subitaneo accumulo di stress. “Come?”
“Ho inventato tutto. Mi sono fatto portare da un naviglio. Ho detto loro di non tornare a cercarmi, che sarei rimasto qui.”
“Ma…”
“Volevo lasciare tutto dietro di me, tutto quanto. Tornare a essere chi ero. Volevo cercare un senso alla mia perpetua solitudine. Spiegarla come si spiegano tutti i fenomeni del mondo.”
“Liam!”
“Le stringhe spiegano ogni cosa, danno un senso all’infinita somma delle azioni umane combinate con quelle imprescindibili della natura. Ma non riescono a spiegare, è inutile, la mia solitudine.”
Granchio.
Eremita.
L’uomo si alza con un respiro più lungo e, nel farlo, le stringhe attaccate alla sua schiena si alzano e fremono con lui. Sono filamenti liberi, senza connessioni, prive di qualsiasi intreccio. Intersecano solamente un altro trio di esili stringhe, connesse alla coda variopinta d’un uccello tropicale.
“Tornerò nel ripostiglio,” Liam accenna un sorriso, “È l’unico posto al mondo dove mi senta a casa.”
Socrate non parla più. Agita la testa come fanno gli uccelli, ma è una movenza naturale.
Liam s’incammina verso il bunker, senza fretta; il fagiano lo segue come ha sempre fatto da quando lo ha raccolto e curato.
Non è un fagiano, solo non conosce la specie.
Entra nel piccolo riquadro di ferro e cemento, uno stanzino in cui i Jap stipavano chissà cosa, chiude la porta. Socrate attende fuori, come sempre.
Arriva un momento, nella vita, in cui la mancanza cronica d’affetto diventa assenza stessa di vita. Di stimoli. Diventa desiderio d’oblio.
Come per quel bizzarro animale del Pacifico, quando non trova un guscio vuoto da reclamare per sé, da chiamare casa.
Granchio.
Eremita.
Liam siede in terra, tra quattro strette pareti. Raccoglie da un angolo il fagotto lurido, lo apre: una vecchia pistola in dotazione alle forze USA, trovata in un buco sulla spiaggia.
Funziona ancora.
La solitudine.
Arriva un momento, nella vita, in cui neppure l’assuefazione basta più.
Se almeno le stringhe spiegassero perché.
Se almeno avesse trovato un motivo, uno.
Se solo le stringhe.
Solo.
Le stringhe.
Una vecchia pistola.
Granchio.
Eremita.
Le stringhe si sciolgono, infine, libere.
Socrate becchetta insistente contro la porta chiusa. Ha le piume arruffate per lo stress.
Il suo verso pigolante sembra chiamarlo per nome, come sempre.
Liam.
Liam.
Liam.