“E gli schiaffi di Dio
appiccicano al muro tutti”
G. Gaber
A Belleville non ci sono ville. La gente qui è artista, non può permettersi grandi spese.
La mia casa, un bilocale minuscolo all'ultimo piano senza ascensore, in quella che un tempo era una delle poche ville in stile Liberty del quartiere, è una perla rara. Belleville è lontana, è scomoda, c'è sempre odore di cibo per strada e delle volte mi viene da piangere all'idea dei quattro piani a piedi, specialmente quando rientro dopo lo spettacolo, ma questa casa è il mio rifugio, per un po' è stata un nido d'amore e di speranze, e ora torna a essere rifugio. Mio.
Gli armadi li ho svuotati il giorno dopo il funerale.
Non ho buttato via niente.
A me il dolore piace metterlo da parte, conservarlo per i momenti giusti, quando sarò pronta. Non adesso, no.
Ho liberato lo sgabuzzino e ci ho buttato dentro tutte le sue cose, a manciate.
Tutte.
Vestiti, libri, documenti, foto, dischi, giradischi. Tutto. Anche lo spazzolino e le mutande sporche.
Non posso sopportare la vista delle cose di Jacques. Ma non posso neanche liberarmene.
Non ci riesco, non voglio farlo e quindi chiudo a chiave lo sgabuzzino e la chiave me la appendo al collo. Il mio dolore me lo porto dietro senza vederlo, ogni giorno.
Bisogna fare delle scelte, diceva Jacques, se vuoi una famiglia dovrai smettere di ballare.
Ma io sono una Doris Girl. Non so fare altro. Non glielo dicevo, ma a me avere una famiglia non interessava. Pensavo mi conoscesse abbastanza da averlo capito.
La famiglia non era tra le mie priorità.
Ma tra le sue, sì.
Negli ultimi tempi ne discutevamo, ogni momento.
Eravamo a un punto di rottura quando è morto, investito come un uomo qualunque e non come l'uomo che mi faceva imbestialire ogni giorno.
Ho scoperto di essere incinta un mese dopo la sua morte.
Maledetto bastardo. Deve aver bucato i preservativi, per incastrarmi. E ci è riuscito proprio per bene.
Il test di gravidanza mi ha fatto sentire intanto una povera scema per il livello di complicazione, e dopo due ore di attesa e la comparsa del cerchio non mi sono sentita comunque sicura di aver fatto le cose per bene. Mi è rimasto il dubbio.
La nausea e il vomito dei due giorni successivi hanno sradicato il dubbio.
Per Doris non esiste alcuna ragione valida per lasciare le Doriss Girls. A parte una.
- Doris, sono incinta.
Lo sputo fuori come un grumo che mi gratta in gola, senza ritegno. Subito mi alleggerisco un po'.
Adesso lo sa anche qualcun altro.
Adesso è vero.
- Sei seria? Jacques è morto un mese fa… Oh.
- Appunto… Oh.
Se Jacques fosse vivo, non avrei alcun dubbio.
Abortirei.
Ma lui è morto.
Mi ritrovo stretta in un abbraccio senza accorgermene.
- Stai tranquilla e respira, Odette. Sei incinta, non sei malata e non sei neanche arrivata al capolinea. Ora esci dal mio ufficio e vai alle prove. Domani ti prendi la giornata libera e vai dal ginecologo, tieni.
Mi mette in mano un biglietto da visita di un delicato color panna con caratteri eleganti e discreti.
- Lui ti aiuterà in qualsiasi situazione. Senza fare domande. Senza fare commenti.
Mi stringe ancora tra le braccia, con forza.
Sento le lacrime pungermi le ciglia, e stringo i denti per non lasciarle uscire.
- Grazie, Doris.
Vorrei poter non scegliere io.
Se guardo indietro vedo solo passi di danza alle mie spalle, passi stentati e via via votati alla perfezione. La mia vita.
Vorrei che la danza decidesse per me, che questo corpo decidesse per me.
Quando rientro a casa dopo la visita dal ginecologo, getto un'occhiata allo sgabuzzino e sputo sulla porta.
Mi passerà anche questa rabbia, lo so. Ma per adesso mi serve. Mi serve un capro espiatorio, e quel capro espiatorio è Jacques, perché lo so benissimo quando questo piccolo fagiolo che sta nel mio ventre ancora piatto è stato concepito. Ricordo l'urgenza di averci, la mancanza di preservativi e i miei rapidi calcoli che si sono infranti su questa realtà. Nessuna bucava i preservativi, ragazza mia, sei stata tu. Sono stata io.
Stacco la chiave dal collo e apro lo sgabuzzino.
Mi accomodo a gambe incrociate su quello che resta di Jacques. Che miseria, la vita.
Vorrei poterne parlare con lui.
Urlargli in faccia.
Prendermi le sue urla in faccia.
Sbatterebbe i piatti nel lavandino e mi direbbe che sono un'egoista, che penso solo a me stessa.
E io gli urlerei che l'egoista è lui, è lui che vuole incatenarmi.
La mia voce rimbomba tra le mensole:
- Ti volteresti ferito e mi diresti che non voglio capire, che ho i paraocchi e non vedo al di là del mio naso. Che un figlio non è una condanna, questo mi diresti.
E io saprei solo piangere e urlarti che una ballerina incinta è una ballerina morta.
Chissà se troveresti un modo per farmi cambiare idea, ma no. Non mi convinceresti, Jacques, perché tu non sei un ballerino. E sei morto. Ti richiudo a chiave, mi fai solo incazzare stasera.
Il mio corpo decide di resistere. E anche io.
Il ginecologo ride quando gli chiedo fino a che mese potrò ballare.
- Lei è incinta, non è malata, Odette. Il suo corpo l'avviserà quando è il momento di fermarsi.
Continuo a esibirmi fino al sesto mese. Ho qualche piccola difficoltà con alcuni numeri complicati, ma potrei anche andare avanti, tutto sommato.
La pancia che esplode da una settimana all'altra deve essere quell'avviso di cui parlava il ginecologo.
Anche per il Moulin Rouge una ballerina incinta sul palco è un po' estrema.
Quindi mi congedo per qualche tempo.
Con Doris gli accordi sono chiari: dopo il parto, ho due mesi per tornare in pista.
Altrimenti sono fuori dal corpo di ballo.
Lo spettacolo “Frénésie” non cambierà per almeno due o tre anni. Devo solo rientrare allo stesso livello di adesso, continuare a esercitarmi e nel frattempo una delle sostitute prenderà il mio posto.
È una grande occasione, questa, lo so bene.
Sistemo una sbarra per allenarmi alla parete della camera da letto.
Non la uso. Doris mi dice che sono una cretina e di andare ad allenarmi al Moulin con le altre. E così ogni mattina esco di casa con la mia pancia grande, mi alleno e torno a casa.
A metà luglio apro di nuovo lo sgabuzzino.
Ieri mi ha chiamata la mamma di Jacques e mi ha chiesto come stavo. Non ricordavo neanche la sua faccia, che pessima persona che sono. Ovviamente nessuno della famiglia di Jacques sa che sono incinta. Non ho ritenuto opportuno farglielo sapere. Non volevo che cominciassero a porre in dubbio la paternità, proprio no.
Però lei lo sa, non so come. Lei lo sa.
- Come va la gravidanza? - Me lo chiede con una voce tremolante, quasi timorosa. Eppure me la ricordo come una bella donna molto sicura di sé.
- Bene, Pauline, benissimo direi. Ho smesso di lavorare da poco, ormai la pancia è troppo evidente per poter continuare a ballare.
Sento il tono di sfida nella mia voce, e un po' me ne pento. Vorrei poter dare la colpa a sbalzi ormonali e cose del genere, ma la verità è che sono sempre stata sulla difensiva nella mia vita. Devi essere un po' stronza se non vuoi che il mondo ti ingoi in un solo bocccone.
- Se hai bisogno di qualcosa, sai che puoi contare su di noi. Lo dico davvero, Odette.
Mi commuovo quasi e questi sono di sicuro gli ormoni della gravidanza. O forse no.
- Grazie Pauline, per ora devo dire che sono a posto, ma sei davvero molto gentile.
Anche la mia voce trema un po' e va bene così.
È giusto. Posso lasciarmi andare anche io, ogni tanto.
Alla fine ci ritroviamo a piangere insieme al telefono, e stai tranquilla di qua, e non devi essere troppo sola di là, e dai ti do una mano ma no non preoccuparti, e avanti così. Chiudiamo dandoci appuntamento la prossima settimana, passa a trovarmi a casa.
E allora devo sistemare lo sgabuzzino.
Le cose sono esattamente come le ho lasciate a fine febbraio.
Qualcosa dovrò buttarlo. Magari qualche scontrino. E le mutande sporche.
Tiro fuori tutto.
I vestiti li piego e li sistemo sulle mensole.
I dischi ben impilati nella loro scatola in un angolo e di fianco il giradischi. I libri sulle altre mensole. Le foto in una scatola di cartone. Ben chiuse con il nastro. Per queste ci saranno momenti più giusti; non oggi.
In un pomeriggio trasformo lo sgabuzzino in una stanza della memoria, un piccolo cimitero casalingo. Seduta al centro della stanza respiro l'odore di Jacques, che ancora aleggia tra le sue cose.
- Dovrebbe nascere a fine settembre. Penso sia una femmina. Non lo so esattamente, ma in qualche modo lo sento, sai? Penso che sarà una bambina con il tuo sorriso e i tuoi occhi scuri. Vorrei che ti assomigliasse tanto, che potesse ricordarmi te ogni volta che la guardo. L'ultimo settembre che abbiamo trascorso insieme ci siamo vestiti eleganti per il compleanno del Moulin Rouge, abbiamo bevuto troppo champagne e siamo rientrati a casa a piedi, ubriachi e felici. Te lo ricordi? Quante risate ci siamo fatti insieme. Cazzo quanto mi manchi. Mi manchi e nessuno lo dovrà mai sapere. È una cosa mia. Solo tu potresti capirlo. Solo tu conoscevi le mie fragilità. Non le capivi ma almeno sapevi accoglierle. Sapevi accogliere me.
Pauline entra in una nuvola di profumo e ansimando leggermente per i piani a piedi.
Mi abbraccia e tocca la pancia con commozione.
- Ma come fai con questa pancia a fare tutti questi piani, Odette? Non ti stanchi?
L'istinto sarebbe di darle una risposta piccata, ma riesco a percepire la sincera apprensione nella sua domanda.
Le sorrido. Le stringo una mano.
- Sono allenata, non preoccuparti. Il dottore dice che le scale mi fanno bene, basta non farle di corsa. E poi non potrei lasciare questa casa. Non adesso almeno. Non ci riuscirei.
Mi stringe la mano anche lei e sorride.
- Giusto, Odette.
Si guarda intorno, cercando di rubare con lo sguardo dei frammenti di Jacques. Ho lasciato la porta dello sgabuzzino aperta, mi chiedo se saprà comprenderne il senso o se lo troverà una blasfemia nei confronti di suo figlio. Lui avrebbe capito.
Lei mi stringe la mano più forte e sorride, con gli occhi lucidi.
- Posso andare a vedere?
La lascio sola e vado a preparare un te.
La sento mormorare, lontana. Ha gli stessi occhi di suo figlio. E non lo ricordavo.
Mi accarezzo la pancia e sento un movimento.E insieme percepisco quasi la risata allegra di Jacques che rimbalza sulle vetrate colorate, che scivola sui fiori di ferro battuto delle ringhiere sospese su Belleville. Che mi avvolge, calda.
Corro da Pauline, le accompagno le mani e insieme aspettiamo, con il fiato sospeso.
- Si muove…
Lo mormoriamo insieme, stupefatte.
- Devi ascoltare musica, Odette. Devi far ascoltare musica a questa bambina.
Dice, mettendo un disco sul giradischi, con la voce rotta.
- Perché dici che sarà una bambina?
- Perché scalcia come una ballerina, mia nipote. Mia nipote. Senti come suona bene. Non sarai mai sola, Odette. Voi non sarete mai sole.
Mentre nello sgabuzzino la musica di Jacques riempie gli angoli, la pancia si muove ancora.
Ci abbracciamo, sedute sul pavimento.
Io sono Odette Martin e oggi non sono una Doris Girl: oggi sono una risata felice per questa macchia di sole piena di ricordi che mi abita dentro. Per questo vuoto che si trasforma in pieno attraverso di me.