Voi tutti avrete sicuramente sperimentato quella fase del dormiveglia nella quale non si è desti completamente, ma si è comunque smesso di dormire. Proprio allora si avverte quel senso di disorientamento nel quale, a volte, appare difficile collocarsi con sicurezza nel tempo e nello spazio.
E in questo preciso momento della sua vita che conoscete la protagonista della storia che sto per raccontarvi. Se potessi farvi vedere il suo viso, bellissimo, va detto, cogliereste lo stupore che trapela da quel volto. Ma non posso. Quello sgabuzzino è troppo buio e quel piccolo refolo di aria che passa sotto la porta chiusa non è sufficiente a far luce. Dovrete quindi accontentarvi delle mie parole.
Se ci fosse più luce, la vedreste stesa per terra, mani e piedi legati. Uno straccio stretto al collo le impedisce di parlare e le rende difficile respirare. Notereste, avendone la possibilità, come lo stupore si sia ora trasformato in paura.
Ah, se poteste vederla… Anche in questa spiacevole condizione, la trovereste incantevole. Delle gambe lunghissime che la prima volta che le accarezzai mi sembrò di non arrivare mai alla meta, gambe arricchite da quell’elegante tono muscolare che solo le ballerine hanno. Un seno che si fa notare richiamando a sé lo sguardo senza togliere leggerezza e armonia al corpo. Due occhi splendidi, azzurri come il cielo di giugno.
Non ve la posso far vedere, ma vi posso raccontare la sua storia, sperando che, a Dio piacendo, come avrebbe detto mia nonna, tutto finisca bene.
Inizio col dire che la vita di Annabelle – per il momento è più prudente che non sappiate il suo vero nome, il regime ha occhi e orecchie dappertutto, Annabelle è il nom de plume con cui si esibisce in un famoso locale parigino – è strettamente legata alla mia. Anche il mio nome è meglio tenere celato. Benché io sia solo un comprimario, non si sa mai.
Il nostro amore comincia un anno fa; nel maggio del ventotto, per essere precisi, quando lei entrò per la prima volta nella nostra Confiserie italienne nel quartiere Pigalle di Parigi. Io lavoro nella pasticceria di famiglia, fondata solo due anni fa da mio padre, un comunista livornese costretto dal regime fascista a fuggire dalla sua città per trovare rifugio in Francia, dove aveva aperto la prima sezione parigina del partito. Lei lavorava allora in un famoso locale non molto lontano dalla nostra pasticcieria e veniva a prendere una pasta e un caffè da noi. Io mi innamorai il primo giorno che la vidi, le feci una corte serrata e riuscì, era il quindici giugno, a strapparle il sì a un invito a cena. Allora la favola cominciò e fu un meraviglioso inizio. Tutto sembrava filare liscio fino a pochi mesi fa, quando la nostra storia virò dai colori del rosa a quelli del nero, letterario e politico.
Aggiungo un particolare, la cui importanza certo non vi sfuggirà: sono io che l’ho legata e chiusa nello sgabuzzino. Lei non lo sa e speriamo che non lo sappia mai. Non inorridite, care lettrici. Non corrette a giocare al cavaliere che salva la fanciulla in periglio, lettori gonfi di testosterone. Aspettate a giudicare. Scoprirete fra un po’, insieme a me, se ho fatto bene.
Le cose per noi cambiarono quando Annabelle durante lo spettacolo lo vide seduto in seconda fila. Lo vide e lo riconobbe. Perse il ritmo, urtò la ballerina che le stava accanto e quasi cadde. Il giorno dopo non andò a lavorare e si trasferì, nonostante i mugugni di mia madre, nella mansarda del nostro appartamento. Inventò un’influenza. Al ritorno, una settimana dopo, le colleghe le dissero che era stata cercata da dei tipi loschi. Sembravano poliziotti, ma non erano francesi, erano stranieri, probabilmente italiani. Non tornò più a lavorare nel locale con grande disappunto di Jacques-Charles, il gestore, che contava su di lei per sostituire la mitica Mistinguett che aveva contribuito a rendere famoso il teatro in tutto il mondo, ma che si stava per ritirare. E si traferì definitivamente da noi.
Vi starete chiedendo chi fosse quell’uomo che aveva tanto spaventato la mia Annabelle. In verità, me lo chiesi anche io. Per prima cosa, dovete sapere che anche Annabelle era italiana e rifugiata. Fino a due anni prima era ballerina di prima fila alla Scala di Milano. Ballerina classica, ballerina vera, avrebbe detto lei. Non una che con la scusa del ballo fa vedere le gambe a maschi, più meno rispettabili, disposti a pagare. Poi aveva assistito a qualcosa a cui non avrebbe dovuto assistere, così mi disse, con la preghiera di non chiedere altro. Quel giorno, tuttavia, fui costretto a insistere.
Questa è la storia che mi raccontò e che io vi riporto riassumendola un po’. Uno dei gerarchi più importanti di Milano, un imbroglione che faceva, come quasi tutti i gerarchi, politica e affari grazie al fascismo, aveva una relazione con una sua amica, tal Mafalda, anche lei ballerina alla Scala.
Un giorno che Annabelle per caso si trovava dalla sua amica, il grande papavero arrivò inatteso a casa. Annabelle, su richiesta della sua amica, si nascose in uno sgabuzzino. Il fascista era fuori di sé, pazzo di gelosia, l’accusava di avere una relazione con uno dei coreografi della Scala. Non mentisse, l’aveva fatta spiare, urlò. Quando Mafalda alla fine ammise la relazione e invitò il gerarca a non farsi più vedere, lui la prese al collo, strinse forte, sempre più forte, finché Mafalda non si agitò più. Fu allora che Annabelle che aveva visto tutto dallo spiraglio aperto della porta dello sgabuzzino, lanciò un urlo e uscì dal suo nascondiglio, raggiunse la porta e scappò per le scale raggiungendo la strada.
Purtroppo, lui l’aveva vista e quasi sicuramente riconosciuta. Mesi addietro, una sera a teatro, Mafalda li aveva anche presentati. Aveva visto un potente gerarca fascista uccidere una donna, sapeva di essere in pericolo. Alla Scala non era più il caso di tornare. Grazie alla sua famiglia, in contatto con le organizzazioni clandestine dell’antifascismo, era riuscita a scappare in Francia. Aveva trovato lavoro come ballerina in locale un po’ discutibile, d’accordo, ma meglio che morire di fame o, peggio, battere il marciapiede. Poi un giorno era entrata in pasticceria.
E ora lui l’aveva vista ballare nel più famoso locale di Parigi e forse del mondo. Era di nuovo in pericolo. Nascondersi da noi, diciamo la verità, non sarebbe bastato. Prima o poi qualcuna delle altre ballerine avrebbe parlato magari dietro compenso. La nostra storia era nota e quando avessi convinto mia mamma che le ballerine non sono tutte uguali, ci saremmo anche sposati. Lei sognava di aprire una scuola di ballo, io di diventare il cioccolatiere più famoso di Parigi. Prima o poi l’OVRA sarebbe arrivata a noi o avrebbe dato l’incarico a qualche fascistello locale di sistemare la cosa. Quel che è peggio, il gerarca aveva fatto carriera e ora era a Roma alle strette dipendenze del mascellone al comando.
Lo so, ancora non vi ho spiegato cosa ci faccia Annabelle in uno sgabuzzino buio di una bellissima villetta liberty alla prima periferia di Parigi. E perché sia stato proprio io a chiederla li. Calma e gesso, ci siamo quasi.
Con il racconto, infatti siamo arrivati a questa mattina, quando torno a casa e non trovo Annabelle. Per ragioni che potete facilmente intuire avevamo deciso che non uscisse mai da sola. Interrogata, mia mamma dice che ha ricevuto un biglietto ed è uscita senza dir nulla. Sono terrorizzato, temo che sia caduta in una trappola.
Esco di casa per chiedere ai negozianti del quartiere se l’avessero vista, quando noto un pezzo di carta a terra. E’ il biglietto che Annabelle ha ricevuto. L’ha mandato il gerarca anche se si è firmato solo con le iniziali che comunque non vi dirò. Invita la mia bella a raggiungerla in una villa al 26 di avenue Rapp. L’ambasciata italiana sta trattando l’acquisto di quella bella villa Liberty, progettata dall’architetto Jules Lavirotte, per insediarci l’istituto italiano di cultura. Bastava presentare quel biglietto e l’avrebbero fatta entrare. Qui potremmo, scriveva il bastardo, appianare le nostre divergenze trovandone mutuo vantaggio, economico per voi e politico per il governo italiano.
Era sicuramente una trappola, l’avrebbero uccisa e fatto sparire il corpo. E il fascista non avrebbe incontrato più ostacoli verso la conquista del podio del potere. Il primo posto era già preso, ma mai porre limiti alla divina provvidenza. Da casa presi un coltello a serramanico e il cloroformio che usavamo in pasticceria per lavorare la paraffina alimentare. Afferrai al volo una carrozza e spinsi il vetturino ad andare più veloce possibile.
Entrare non fu difficile, c’era riuscita anche Annabelle benché avesse perso il biglietto. Ma lei dagli uomini era in grado di ottenere tutto ciò che volesse. Io, che non avevo lo stesso fascino e non volevo esser visto, entrai scavalcando dal giardino. Temevo di esser arrivato troppo tardi, ma in quel caso almeno avrei portato qualche fascista all’altro mondo con me e Annabelle.
Fortunatamente non era tardi, la villa era vuota. Il bastardo aveva fatto in modo che non ci fossero testimoni. Annabelle era seduta su una poltrona e controllava la porta d’ingresso della casa. Quindi non mi vide entrare dalla porta finestra del giardino. Io non mi feci sentire. Presi il lembo della tenda, la bagnai col cloroformio e afferrai Annabelle alle spalle. Le tenni la tenda stretta sul naso e la bocca finché non perse i sensi. Le detti un bacio sulla guancia, l’adagia delicatamente a terra, non prima di averle, del tutto inutilmente, chiesto scusa. La legai, utilizzando il cordone della tenda che strappai via, insieme a un pezzo di stoffa per chiuderle la bocca. La sistemai in uno stanzino non lontano, al sicuro pensavo.
Ironia della sorte. Tutto nasce e finisce, a Dio piacendo, con Annabelle chiusa in uno sgabuzzino.
So bene cosa adesso vorreste dirmi. Che bisogno c’era di fare tutto questo ad Annabelle? Stupido eroe di cioccolato, starà pensando qualcuno di voi, hai capito chi sono i veri nemici?
E’ che voi tante cose non le conoscete e non le sapete. Ignorate il fatto che fra me e lei, chi porta i pantaloni è lei. E’ una metafora, fortunatamente, ma il senso non vi sarà sfuggito. Non sarei riuscito a convincerla e comunque, posto che avessi avuto probabilità positive di successo, sarebbe occorso del tempo. Tempo che non avevamo. E se le avessi detto poi quello che era il mio vero piano, non avrebbe accettato. Piano, lo so, è una parola forte, le mie intenzioni, diciamo così. Tantomeno sarei riuscito a convincerla ad andar via e lasciare fare tutto a me. Sicché, come diciamo noi toscani, ero alle porte coi sassi e non avevo alternative. Siete tutti bravi poi a fare piani e a dare suggerimenti distesi comodamente sul divano. Voi che eravate sotto palazzo Venezia a spellarvi le mani quando quello annunciava le leggi fascistissime che trasformarono l’Italia in un regime.
E ora statevene qui buoni buoni e in silenzio con me ad aspettare gli eventi.
Verrà da solo? In questo allora la partita è aperta. Verrà in folta compagnia e allora voi sarete testimoni del nostro triste destino. Ricordatene quando qualcuno in camicia nera, vi inviterà a gridare: “Eia eia eia, alala”.
Sono in attesa alla finestra, nascosto dalla tenda. Non passano che poche decine di minuti e una Bugatti nera si ferma davanti alla villa. L’autista scende dell’auto e apre la portiera posteriore. Il nostro scende con fare atletico, come la cultura del regime prescrive. Ha una borsa di pelle in una mano e un bastone da passeggio nell’altra. L’autista ritorna in auto mentre lui sale gli scalini d’ingresso, saluta il portiere e gli chiede velocemente qualcosa. Probabilmente si vuole sincerare che Annabelle sia arrivata. Entra nel portone. Che sia lui non ho dubbi, in Italia il suo volto è noto. I giornali e i rotocalchi, a cominciare dalla Domenica del Corriere, sono pieni delle sue foto.
Mi nascondo dietro la porta d’ingresso che è appena accostata. Faccio scattare la lama del coltello a serramanico. Aspetto. Magari a voi sembrerò anche calmo, ma in realtà sono nervoso, teso, terrorizzato. Non so ancora come finirà la storia.
Entra e lo prendo alle spalle. Affondo subito il coltello, ma come dicevo sono nervoso, goffo e fondamentalmente insicuro. Lo prendo di striscio alla spalla. Si volta e prende il bastone, dal quale estrae una lama nascosta con la quale mi affronta. Sempre a quel che dice la Domenica del Corriere è un abile schermidore e sa quel che fa. Temo, cari miei, che per me e per Annabelle sia finita. Ho avuto la mia chance e l’ho sprecata. Aveva ragione, chi di voi mi ha definito un eroe di cioccolato.
Sto per gridare viva l’Italia e viva il socialismo, quando il bastardo facendo velocemente un passo verso di me, inciampa sulla borsa che gli era caduta quando l’avevo colpito la prima volta. Il vostro eroe al gusto di cacao si butta sul grosso papavero in camicia nera, gli mette una mano sulla bocca e affonda il coltello lì dove pensa che ci sia il cuore. E da tutto il sangue che esce copioso, il cuore è proprio quello che la lama ha trovato.
Corro verso la finestra per vedere se l’autista ha sentito qualcosa. Nessuno si muove.
Per curiosità, apro la borsa del gerarca. E’ piena di franchi. Forse voleva veramente comprare il silenzio di Annabelle. Oppure era una mazzetta che aveva appena intascato per l’affare della villa. Chi lo sa e ora è un po’ tardi per chiedere a lui. Li infilo in tasca. Penso che sia giusto prenderli come risarcimento per quello che il fascismo ha fatto alla mia famiglia e ad Annabelle.
A proposito, Annabelle è sempre nello sgabuzzino. Sento dei rumori, forse si sta svegliando. Apro la porta.
“Tesoro, sei viva. Che miracolo. Ti hanno fatto del male? Cosa è successo?”
La libero, prima la bocca, poi mani e piedi. Sono un attore cane, ma lei non è nella condizione di fare della severa critica teatrale.
Mi racconta che non sa chi sia stato. L’hanno presa alla sprovvista e non ricorda altro. Ottimo.
“Cuore, dobbiamo squagliarcela al più presto”
Per raggiungere la porta che dà sul giardino, occorre passare davanti al cadavere del bastardo.
“Poi ti racconto” le dico. “Ma ora non devi più avere paura, sei libera.”
Riusciamo ad uscire fuori dal giardino sul retro della villa senza che nessuno ci noti. Ho messo la giacca sopra la camicia piena di sangue. Chiamo una vettura e mi faccio portare a Montmartre. Da qui facciamo dieci minuti di strada a piedi e prendiamo un'altra vettura che ci porta a cinque minuti a piedi da casa. Tante per essere prudenti. Forse non porto i pantaloni, ma il cappello non lo appoggio sopra una testa vuota.
Siamo salvi, forse. A Dio piacendo, direbbe mia nonna.
La storia di Annabelle e mia finisce qui. Nel senso che qui finisce quella raccontata, ora sta a noi costruire quella vera. Quello che sarà, ancora nessuno l’ha scritto.
Chi di voi sarà curioso di sapere quel che succederà poi, dovrà cercarci nella vita reale. Alla fine, vi ho dato tanti di quegli indizi che trovarci non vi sarà poi tanto difficile.
Vi chiederei, tuttavia, un ultimo favore, se mai incontraste Annabelle, non ditele mai chi l’abbia narcotizzata e legata. Non fate neanche menzione dei soldi, perché di quelli non intendo parlarle. Sempre per quella storia dei pantaloni.
Quelli che mi hanno chiamato eroe di cioccolato, li prendo in parola. I soldi del fascista li dividerò in due parti uguali. Una metà la darò al partito, per finanziare l’attività clandestina in Italia. Prima o poi ne sono sicuro, il fascismo sarà sconfitto. Il resto servirà per aprire la mia cioccolateria.
E la mia prima creazione sarà proprio un omino di cacao che chiamerò l’eroe di cioccolato. Un eroe coi pantaloni, ovviamente.