La Lanchester scura sfilò lungo il viale di querce fermandosi sul ghiaino di fronte alla grande villa liberty. L’autista scese e si affrettò ad aprire lo sportello posteriore.
«Finalmente!» sospirò Marion e poi scese, agile ed elegante come una gatta, lasciandosi baciare dal sole caldo del West Sussex. Alle sue spalle un fruscio di trine l’avvertì che anche la bambina era scesa dall’autovettura.
Marion si avvicinò e le aggiustò il cappellino sui riccioli castani.
«È stato un viaggio lungo, ma comunque piacevole, non trovate miss?»
La bambina annuì e tuttavia tenne lo sguardo ancorato a sud, verso quella striscia di mare che occhieggiava da lontano.
«Siete stanca?»
«No, miss Marion.»
«Volete riposarvi un po'?»
«No, miss Marion. Vorrei vedere il nonno.»
«Oh, bene. In fondo siamo qui per questo. Andiamo.» La donna s’incamminò verso l’entrata seguita dalla piccola che continuava a guardarsi intorno curiosa.
Sulla scalinata di marmo chiaro i domestici le attendevano in due ali composte, inchinandosi al passaggio della bambina che alzò appena la mano e li salutò sorridendo.
«Com’è carina!» sussurrò una cameriera all’orecchio della sua compagna quando la piccola passò.
«Già, si vede che il sangue non è acqua! Ha la stessa età della mia bimba, ma al confronto la mia Katy è un diavolo! Sempre a combinare guai!»
«Davvero, è una bambina impressionante. Ma quanti anni ha? Quattro?»
«Quasi» e si aggiustò un po' la cuffietta «Andiamo a finire il nostro lavoro: anche se la piccola lo mette di buon umore il vecchio rimane sempre il vecchio» e insieme sparirono nella grande casa.
Al piano superiore una mano rugosa lasciò la tenda che ricadde a coprire la finestra.
«È arrivata» disse il vecchio re alla stanza vuota.
«Già.»
Il corridoio le accolse con la sua fresca penombra. La bambina camminava dietro Marion e ascoltava ciò che la donna diceva. I volti dei suoi avi la guardavano seri dai ritratti appesi alle pareti, mente Marion intrecciava divertenti aneddoti legati ai loro nomi. La piccola rallentò il passo e rimase con il naso in su a studiare quei volti velati di malinconica fierezza.
«Anche il mio ritratto un giorno sarà qui?» chiese all’improvviso.
«È molto improbabile, miss. Comunque ne avete già parecchi.»
La piccola rimase in silenzio, pensierosa.
«Qual è la stanza del nonno?»
«Quella laggiù» indicò Marion e subito la vide correre e fermarsi di fronte alla porta chiusa. Due colpi sicuri sul legno chiaro rimbombarono impazienti nel corridoio.
«Avanti!»
La piccola entrò e si avvicinò decisa al letto: niente in quella stanza la distrasse, né lo sfavillio degli stucchi dorati né lo sfarzo dei broccati azzurri o le fantasie esotiche degli arazzi.
Solo gli occhi cerulei e infossati del vecchio catturarono la sua attenzione, attirandola con la misteriosa alchimia del loro profondo legame.
«Nonnino!» e si tuffò nel caldo abbraccio che le veniva offerto.
«Lilibet!» e sprofondare il viso tra quei capelli profumati d’innocenza lo fece subito sentire meglio.
Marion, non invitata a entrare, rimase sull’uscio, salutando con un silenzioso inchino.
«Ci lasci soli, grazie» le ordinò il re e con un altro silenzioso inchino la donna sparì.
«Allora, mio dolce cherubino, come stai?»
«Io bene, nonno. E voi?»
«Adesso molto meglio!»
«Che bello! Vi posso recitare la filastrocca che ho imparato?»
«Certo! Ne sarei proprio lieto!»
La piccola si ricompose, si schiarì la gola e intonò una lunga filastrocca in francese, stando molto attenta ad arrotondare bene la erre come le aveva insegnato Marion.
«Perfetta!» esultò il nonno e applaudì.
La piccola tornò ad arrampicarsi sul letto e si accoccolò accanto al vecchio: subito tirò su la manica della camicia da notte del nonno, scoprendo il dragone rosso che aveva tatuato sul braccio.
«Ha qualche nuova storia per me il dragone?»
«Certo!» e con un sorriso leggero sulle labbra il vecchio raccontò una storia che parlava di mari lontani, scorribande di pirati, avventure nella selva tropicale e delle misteriose creature che si nascondono all’ombra delle mangrovie, finché la bimba, stanca dal viaggio, non si addormentò tra le sue braccia.
La luna era un buco perfetto nel cielo dal quale colava la luce dell’universo. Il vecchio affacciato al terrazzo guardava la campagna dormire il suo sonno silenzioso: solo un asino lontanissimo sporcava a tratti il silenzio con il suo incontenibile raglio. Tutto era pace assoluta e luce bianca, quasi divina.
«Dormi?» chiese il re.
«Oh, io non dormo mai. Soprattutto la notte.»
«E allora vieni qui.»
Con un rumore furtivo qualcosa si avvicinò, rimanendo comunque nell’ombra: qualcosa che poteva essere uno strusciare o un fremito d’ali o un tip tap sommesso di zampette sul pavimento. Un rumore che poteva essere qualsiasi cosa.
«Sei… sei sempre deciso a…»
«Oh, adesso più che mai.»
Il re si prese la testa tra le mani e le spalle sussultarono con violenza, come se stesse piangendo.
«Cosa ho fatto!» si lamentò disperato.
«La cosa giusta, mio re. Solo quello.»
«Ma perché proprio lei?»
«Perché l’amate. Perché è adatta. Perchè i tempi sono maturi.»
Il re tirò su con il naso e si asciugò gli occhi con la manica della vestaglia.
«Soffrirà?»
Dal buio scaturì una risata che era il verso di dieci animali mescolati insieme.
«Oh, certo. Moltissimo. Ma non è forse nella natura umana soffrire? Non state soffrendo voi, adesso?»
«Cosa le accadrà se davvero accettassi di… di consegnartela?» chiese in un sussurro.
«Qualsiasi cosa» sibilò la voce «Vivrà eventi che mai nessun mortale ha visto. Una grande guerra carica d’inimmaginabili atrocità è alle porte e dopo tutto cambierà. Nasceranno nuovi uomini con grandi idee. E i nuovi uomini andranno sulla luna…»
«Impossibile!» esclamò il re guardando il cielo.
«Oh, sì, e creeranno cose che voi non potete comprendere e che non voglio svelarvi. E si spingeranno oltre, andando talmente lontano da non ricordare più da dove sono venuti.»
Il vecchio si voltò verso l’ombra, cercando colui che molti anni prima gli aveva salvato la vita e che adesso era lì, a reclamare il saldo del suo debito.
«E lei? Cosa c’entra lei?»
«Lei sarà al centro esatto di tutte le cose, sarà testimone di tutto questo. E ricorderà. Non sapete nemmeno quanto nel futuro questa parola perderà di significato.»
«Io non capisco…»
«Non potete.»
Il re si mosse a disagio, inquieto.
«Dimmi almeno in che modo sarà importante. »
«Oh, in realtà è semplice: vivrà gli eventi e li saprà interpretare per gli uomini del futuro. Ricorderà, impedendo che gli errori siano commessi di nuovo. O almeno ci proverà. Invecchierà e tornerà giovane. E poi ancora vecchia. E poi ancora giovane. Sarà eterna, anche se non immortale.»
«Eterna… Immortale… Ma cosa?...» il re, disperato, si appoggiò alla balaustra «La mia bambina! Mai avrei pensato che il prezzo da pagare fosse questo!»
«Oh, ma voi non lo guardate dall’angolazione giusta: in realtà questo è un gran privilegio e la sua bambina, mio re, è perfetta per questo ruolo.»
Un barbagianni volò sopra la terrazza in un silenzio perfetto. Il re guardò la campagna bagnata dalla luce bianca della luna piena e pensò che tutto ciò non poteva essere vero. Ma un fruscio alle sue spalle lo avvertì che invece non era così.
«E adesso? Cosa devo fare io, adesso?»
«È molto semplice. Tanti anni fa dissi che a tempo debito avrei reclamato la cosa a cui tenevate di più. E questo è quel giorno. Deve solo dire: “Fai di mia nipote quello che è giusto” e riterrò saldato il nostro debito.»
«Altrimenti?»
Una risata tagliente e cattiva fece accapponare la pelle del re.
«Sono con voi da molto tempo. Sono sicuro che non volete conoscere sul serio la risposta a questa domanda.»
Aveva ragione. Il re, a denti stretti, disse la frase che avrebbe segnato per sempre la vita della bambina.
Un rumore come un sospiro compiaciuto passò veloce tra loro.
«Bene, domani la incontrerò. Deve accettare il patto con me di sua spontanea volontà.»
«È troppo piccola! Non capirà nemmeno di cosa parli! La potrai solo ingannare, non è giusto!»
«I bambini ordinari s’ingannano, quelli speciali si trattano con rispetto. Domani misurerò la grandezza del suo coraggio.»
«Elisabeth!» urlò la cameriera.
«La prego, signora Dixton! Non la chiami così. Lo sa che non risponde!»
«Certo, mi scusi. Lilibet!» chiamò ancora.
Marion fece un gesto di stizza e chiamò a sua volta la bambina «D’altronde vuole essere chiamata con questo nomignolo che si è data. Viziata, dico io! Sempre meglio di un nome plebeo tipo Suzy o Katy, comunque.»
La cameriera le rivolse uno sguardo ombroso e tornò a chiamare la bambina.
Marion si fermò puntando stizzita le mani sui fianchi: la stavano cercando già da un quarto d’ora, ma succedeva sempre così quando dovevano studiare la matematica.
«Quando la trovo la striglio per bene!»
«Proviamo in giardino» suggerì la signora Dixton.
La donna annuì e si affrettarono verso l’uscita senza accorgersi degli occhietti spalancati che la osservavano da uno spiraglio dietro le scale. Quello dell’angusto sgabuzzino.
«Sì!» esultò piano Lilibet e si regalò un sorriso. Aveva avuto un po' di paura a entrare lì dentro, ma alla fine si era rivelato un nascondiglio perfetto: nessuno si era immaginato che potesse avere il coraggio di entrare in un posto così piccolo e buio.
E invece era lì.
Si sedette per terra e appoggiò la schiena alla parete. La lama di luce che filtrava dalla porta le bastava per non essere nel buio assoluto e alla fine era proprio piacevole stare da sola, senza fare niente. Sarebbe rimasta ancora un po' lì, poi con un po' di fortuna, sarebbe riuscita a trovare un rifugio più comodo.
Il buio di quel luogo non le piaceva perché intuiva solo la forma di ciò che la circondava: poteva esserci qualsiasi cosa a un passo da lei, magari degli insetti. Magari dei ragni. A quel pensiero rabbrividì e decise che era stata lì dentro abbastanza: i ragni erano la cosa sulla faccia della terra che la spaventava di più in assoluto, e subito la fervida immaginazione iniziò a creare davanti ai suoi occhi una carrellata di mostriciattoli pelosi che…
«Ciao.»
Lilibet si bloccò: anche il suo cuore, ne era certa, perse un battito.
«Ciao» ripeté la voce e la piccola si sorprese a rispondere a quel saluto.
«Ciao…» sussurrò appena.
«Oh, bene! Stavo pensando che tu non mi avessi sentito! O che tu fossi maleducata.»
«Non sono maleducata!» si risentì la bambina.
Nel buio gorgogliò una risata «No, certo che no!»
Poi qualcosa si mosse e la bambina si ritrasse contro il muro. La mano fece un timido tentativo per cercare la maniglia.
«Come ti chiami?»
«Li… Lilibet. E tu?»
«Non ho un nome. Magari me ne darai uno tu» e dall’ombra con uno strano rumore liquido e sinistro apparve un enorme ragno nero che la fissò con i suoi numerosi occhi.
La bambina si pietrificò all’istante: anche respirare divenne all’improvviso impossibile.
L’animale si mosse verso di lei e un odore selvatico riempì la stanzetta.
«Vuoi darmi un nome?»
La piccola riuscì a scuotere la testa di qua e di là.
«Voglio andare dal mio nonno» piagnucolò.
«Certo, vai pure. Peccato però, perché qua dentro sta per succedere una cosa meravigliosa.»
«Non m’interessa!» e si aggrappò alla maniglia «E poi negli sgabuzzini non accadono le cose meravigliose!» riuscì a controbattere racimolando un po' di coraggio da qualche parte.
«Oh, hai ragione! Questo è un posto piccolo, ma dove avvengono grandi cose. E poi i luoghi non hanno tutta questa importanza: il re più potente è nato in una stalla, se non ricordo male.»
Il ragno non si stava più avvicinando e la sua voce era calma, quasi gradevole.
Lilibet annuì. Sapeva che parlava di Gesù bambino: quella cosa di nascere in una stalla le era rimasta dentro in modo indelebile. Un re non nasce in una stalla! Non le sembrava giusto. O forse sì…
«Mi fai paura» ammise la bambina.
«Perché?»
«Perché… perché sei brutto!»
Un suono strano che ricordava una risata, gorgogliò da qualche parte nell’angusta stanzetta. La paura allentò un po' la presa.
«Tutto qui?» e come risposta la piccola annuì «Allora non mi sembra un grande problema, non trovi?»
Suo malgrado la bambina annuì ancora e si mosse a disagio: quel ragno la spaventava, ma diceva cose sensate. Forse non era cattivo.
«Lilibet!» chiamò da qualche parte Marion.
«Devo andare.»
«Certo, ma prima vorrei chiederti un favore: ho bisogno di morderti. Posso?»
La piccola sgranò gli occhi.
«Lilibet! Ma dove ti sei cacciata!»
Nello sgabuzzino il ragno si mosse: la bambina sentì la consistenza dell’enorme corpo peloso che sfiorava la sua gamba e il luccichio di decine di occhi che la fissavano da ogni direzione. Un brivido di disgusto la fece tremare. Fuori Marion era sempre più vicina, le sarebbe bastato un grido e subito sarebbe accorsa. Però… Però il ragno aveva detto di avere bisogno di lei. Forse davvero non era cattivo.
E poi la paura: la paura non c’era più, sostituita da un vago e comune senso di repulsione. Una repulsione che poteva controllare perché, insomma, il ragno aveva bisogno di lei, e a lei piaceva aiutare gli altri.
Soprattutto enormi animali parlanti.
«Mi farai male?»
«Appena un pizzichino.»
Lilibet strinse i denti e spinse la mano nel buio. L’enorme ragno si avvicinò e le zampette pelose la fecero tremare di raccapriccio. Nella luce fioca dello sgabuzzino vide le tenaglie fremere golose e i peli intorno alla bocca vibrare eccitati.
Un attimo e quelle tenaglie s’infilarono nella carne morbida della bambina.
«Ahi!» urlò e subito gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Grazie Lilibet. Adesso siamo amici.»
La bambina si alzò, asciugandosi le lacrime.
«Mi hai fatto male!»
«Mi dispiace. Quando ti rivedrò ti porterò un regalo.»
Lilibet fissò la forma scura che si stava ritirando nell’ombra.
«Che regalo?»
«Un regalo che non si può immaginare!»
La bambina sorrise e aprì la porta. Quando si voltò indietro il ragno gigantesco non c’era più.
La regina Elisabetta fissò a lungo lo specchio e il capello castano che spuntava dalla chioma candida all’altezza della tempia: era innegabile, stava ringiovanendo.
Ad annunciare questo non erano solo i capelli, ma anche un nuovo vigore, l’appetito risvegliato, l’incontinenza domata e il dolore alle giunture finalmente scemato.
L’incontro con il ragno era sempre nitido in lei, ma con gli anni lo aveva ridimensionato, dandogli i connotati di un sogno. Adesso, invece…
Scelse sul calendario un giorno di novembre e fissò per quella data la sua morte. Aveva tempo a sufficienza per organizzare la successiva fuga in qualche posto esotico, magari proprio nei luoghi dove re Giorgio ambientava le sue storie rocambolesche.
Sorrise e poi fece una smorfia, massaggiandosi la guancia: l’improvvisa uggia alla gengiva significava che un dente nuovo di zecca stava cercando di spuntare, infischiandosene della dentiera.