A volte i pochi umani che mi conoscono mi definiscono dandy. È una descrizione che mi racconta, che mi lusinga. La figura ottocentesca alla Wilde appartiene a chi ama cogliere la nota stonata nell’atteggiamento bohémien, nel polsino coi gemelli in oro sfalsati, nel bottone mancante alla camicia di raso o in una cultura e filosofia non sorretta dalla conoscenza. Ma quelle persone si spingerebbero oltre se mi vedessero nell’intimità della metamorfosi; la mia classe nei movimenti felpati li spaventerebbero, userebbero altri esempi per definirmi nel fuggire. È nella fase della trasformazione, quando ancora sono nelle sembianze antropiche e già si forma il lupo, che mi piaccio, che raggiungo la bellezza allo stato dell’arte. Come ora, nudo con un lungo foulard rosa che scende fino al pube e parzialmente copre la peluria folta che arriva fino all’ombelico e mi marchia come diverso e perfetto. Mi guardo allo specchio, poi chiudo gli occhi e mi tocco a darmi piacere fino a che sono in tempo, perché tra poco con le zampe sarà impossibile. Mi tocco e ti sogno, ti sogno e ti desidero, ti desidero e mi amo, mi amo e vengo mentre il capolavoro del mio corpo straordinario muta. Non sto prendendo il siero da due ore e già vedo accorciarsi la fronte e pronunciarsi a muso l’ossatura della mandibola e del naso. Sono bello, bellissimo, c’è luce e febbre nei miei occhi, il sangue e la luce sono accesi. Ho studiato a fondo le ossa oracolari che tramandiamo e custodiamo da 100.000 anni e nessuna vaticina una situazione come questa. Sto per affrontarti da pari, anzi da superiore, e se ti devo fronteggiare lo faccio con le mie regole. Certo, dovevamo essere facce da copertina, il nostro destino già scelto nell'educazione famigliare e nelle regole della comunità. E invece siamo speciali, tu per il sesso e io perché non posso morire. No, farò di testa mia. Le esche sono pronte, non sanno di esserlo e pensano di poterti sfidare.
Nelle lunghe ossa oracolari vi è trascritta la storia privata e sconosciuta dei licantropi. “Sarà fortunato il bambino-lupo che nascerà nel Nocturnalia?”, così è inciso nell’antica lingua sopra uno di questi ossi. Sì, proveniamo dalla Terra Antica, anche se in questo paradigma c’è il rischio di estinzione di una razza poco fertile e con nascite che inspiegabilmente osservano un rapporto di venti maschi e una femmina. Ci siamo evoluti, a Darwin sarebbe piaciuto poterci studiare. Abbiamo imparato a simulare la scimmia, a mimetizzarci per poterci avvicinare e sbranarla, e poi abbiamo perfezionato la tecnica biologica per poter stare lontano e non farci uccidere dalla stessa scimmia che diventava intelligente come noi. Ci siamo evoluti somigliandogli perché quella straordinaria arena in cui cacciavano consentiva al Sapiens una sorprendente varietà di mosse, altrimenti avrebbe fatto di noi ciò che ha fatto ai Neanderthal, ai Soloensis e ai Denisova. L’unica specie intelligente doveva essere la sua, e se ha annientato i suoi simili non avrebbe riservato una migliore sorte a noi lupi senzienti.
Quando nascemmo, quelli come noi erano già pochi, un migliaio in tutto il mondo, che ogni sette anni si riunivano sotto la rupe magiara per accogliere i nuovi membri della comunità. Noi, adorata sorella, promessa sposa e implacabile nemica, non fummo bambini-lupo fortunati, quel parto fu una sventura. La buona sorte ha scelto altri castelli, lontani dalla patria, dai nascosti e privati luoghi di caccia nella foresta di Nagykovacsi. Siamo venuti alla luce otto ore dopo, quando già albeggiava, quando la luna piena era un sbiadito ricordo. Un segno infausto. E siamo nati gemelli, che mai era accaduto prima. Ma poi cos’è la fortuna, se non un mito? Ciò che accadde è dovuto alla superstizione della linea di sangue, alla paura di morire nutrita da noi, dimenticando che al contrario dovremmo impaurire. Nostro padre decise che oltre che fratelli saremmo stati amanti, uniti nel sacro vincolo del matrimonio. Una cosa così meschinamente umana. Da subito ti diede l’odioso suffisso ungherese di appartenenza, quella costola fonetica scopiazzata dalla Genesi che sottomette la femmina. Io Kovacs Adam e tu Kovacs Adam-né Iva, la sposa di Adam, già dal nome soggiogata. Ma alla fine, crescendo e capendo, mi stava bene quello che era stato deciso, tu eri la più bella lupa mai vista prima dalla nostra specie.
E ora sono qui, nella Phillip Island, dall’altra parte del mondo. Sono l’unico abitante, la mia razza ha dato fondo a tutti i loro averi per farmi “sparire”, per proteggermi da te. Mi hanno confinato in questa splendida e enorme villa in stile Liberty costruita apposta per me. Una volta al mese da Norfolk arrivano per mare i viveri e ciò che mi occorre. A volte mi fanno avere anche l’inutile per farmi sopportare la dorata prigionia. Come la settimana scorsa, quando è sbarcata quell’auto meravigliosa, esempio di tecnologia italiana: la Lancia Lambda, la serie VIII appena costruita che si dice che con il nuovo motore raggiunga i 120 chilometri all’ora, velocità mai raggiunta fino a quest’anno. Hanno organizzato un viaggio per portarmela che sarà costato quanto la macchina. Ma che me ne faccio, in un’isola dove l’unico tratto percorribile su ruote misura 180 metri dal porticciolo all’ingresso della villa? E almeno si fossero ricordati di portarmi il carburante. Ma è bella e l’ho fatta mettere nel centro della sala da ballo, illuminata da candelabri che scendono dal soffitto. E poi ho tutto ciò che mi occorre. Tele e pennelli per dipingere, dischi e grammofono, le salsicce da annaffiare col Tokaji, abiti freschi di seta per affrontare il fastidioso caldo di queste latitudini straniere. E molto altro, tutto l’immaginabile, col patto di restare nascosto per il resto della mia vita. O quasi. Sei mesi prima del Nocturnalia, ogni sette anni, arrivava la delegazione a prendermi per portarmi da te, per concepire. Il viaggio in mare durava due mesi, e in quei momenti non pensavo ad altro che alle tue zampe nervose e scure, lucide come il tuo sesso che propagava feromoni che sapevano di bosco. E poi finalmente t’incontravo e già da lontano il tuo odore mi procurava la perdurante erezione. Ti possedevo, secondo le usanze della specie, secondo la mia natura e la mia idea fissa e assillante. Facevamo l’amore, o almeno io lo facevo. Ti tenevano il collare di ferro, le splendide zampe legate, il morso al muso e ti prendevo come volevo per tre giorni continui. E poi mi riportavano qui sull’isola, non avresti mai dovuto sapere dove era il mio rifugio, al riparo dalla tua vendetta.
Quando fummo vicini ai sette anni, maturi per sposarci e procreare in tempo per il Nocturnalia, ci convocasti e ci dicesti che ti eri innamorata di Farkas, che non avresti accettato l’imposizione famigliare, che mi amavi come fratello ma non come sposo. Inammissibile! Nostro padre non voleva crederci. E io…? Non eravamo più bambini-lupo già da quattro anni, il mio membro fremeva e attendevo da troppo tempo di possederti. Ero ossessionato, eri mia per legge e volere famigliare. Nei giorni successivi Farkas sparì, dissero che si era trasferito in America. Era certo che si era trasferito, eravamo troppo pochi per permetterci di togliere la vita ai nostri simili. Tu provasti a fuggire per raggiungerlo. Ti catturarono, ti incatenarono agli unici fermi che esistevano nel castello, nello sgabuzzino, e al momento giusto, davanti a papà ti possedetti come mia proprietà. Poi ti liberarono.
Da quel giorno decidesti di non assumere più il siero, di restare per sempre lupa, e dell’uomo mantenesti solamente la parola. Sapevi che non avrei resistito altri sette anni per averti, eri soltanto mia e l’odore del tuo sesso rimescolava in continuo i miei sogni. Anch’io passavo più tempo di prima come lupo, e ti cercavo per nasconderci e fare l’amore, contro le regole, ma riuscivi a farmi desistere. Mi vedevi voglioso, tormentato, febbrile di passione, e con quella tua voce di cristallo e con lo sguardo inespressivo da animale, solo gli occhi scintillanti d’odio, mi ripetevi “Quando vuoi”. Sapevo che era un’infida minaccia. Eppure un giorno ti avvicinasti lupa in calore, mi mostrasti le modellate terga e sentii forte quell’odore irresistibile di funghi e foglie macere. Guardasti verso il ripostiglio, ammiccasti irresistibile e mi dicesti: «Quando vuoi». Mi occorrevano tre ore per trasformarmi lupo e attesi con la frenesia che non conoscevo ancora. Ma poi accadde, appena in tempo, che dentro quello sgabuzzino dove mi avevi invitato venne rinvenuto il corpo senza vita di nostro padre, azzannato a morte, e poi ancora dilaniato quando già era senza vita. La nostra gente non poteva accettare questo fatto. Non tanto per la morte in sé, per l’omicidio, quanto per il “lupicidio” in una comunità sull’orlo dell’estinzione. E inoltre, anche dal punto di vista religioso, non era possibile morire senza prima essere tornati lupi. E tu, nella tua macchinazione, nella tua assurda vendetta, l’avevi sbranato nella sua forma umana.
L’anno scorso mi è arrivata un dispaccio, come in guerra. Eri riuscita a fuggire. Mi ordinavano assoluta riservatezza, il minor contatto possibile con chiunque, mi ricordavano l’importanza della missione. Non doveva crepare nessuno della nostra specie. Mi dissero che al prossimo Nocturnalia non avrei partecipato, convinti che Iva avrebbe approfittato dell’evento per uccidermi. E invece sto partecipando, anche se non sotto la rupe magiara. Adam e Iva, stasera, così lontani dal luogo e dallo spirito della celebrazione.
Guardo il foulard rosa a terra, ormai inutile, la trasformazione è completata. Sono pronto. Non so come hai fatto a evadere, come mi hai trovato. È colpa del progresso. Le informazioni ormai viaggiano su onde radio, su telegrafi, su telefoni. Si dice che quest’anno siano iniziate delle trasmissioni sperimentali per inviare da lontano immagini in movimento su dei tubi. O forse hai semplicemente annusato a fondo dall’altra parte del mondo per rintracciarmi. Quando tre giorni fa ho trovato Macchia sbranato e straziato ho subito riconosciuto l’impronta della tua dentatura. Quest’isola è piccola, ho provato a cacciarti, ho annusato, ma sei abile a nasconderti. E ho capito. Vuoi gustare a fondo la vendetta, stai aspettando il Nocturnalia, alla mezzanotte. Mancano cinque minuti e ho spalancato tutte le porte e le finestre, ho ridotto l’illuminazione a sparute candele e ho preso le sembianze di nascita. Non ti deluderò, ho organizzato un piccolo comitato di benvenuta. Ho assoldato da Norfolk dieci uomini, discendenti degli ammutinati del Bounty, che ti stanno aspettando armati fino ai denti. Li ucciderai tutti, non mi importa di loro. Li agguaterai e ti stancherai, e mi raggiungerai. Già sento gli spari e l’odore di cordite, le urla delle esche umane che inutilmente ti affrontano. Ti stai avvicinando, lo sento. Mi acquatto dietro la Lancia Lambda, piscio su una ruota perché voglio che senti forte il mio odore. Sono pronto a scattare veloce e micidiale. Spero di riuscire a ferirti e a catturarti per costringerti e finalmente possederti in ogni momento. Forse moriremo entrambi.
Ora c’è silenzio. Mi arriva l’odore di bosco prima della tua voce di cristallo. «Ciao Kovacs Iva-né Adam. Che ne dici di andare nello sgabuzzino assieme a me? Ho affinato dei giochetti che a me piaceranno molto». E prima di flettere i muscoli sento la mia voce rispondere «Quando vuoi».