Tobias raggiunse il piccolo cimitero fuori Berlino poco dopo le dieci di un sabato di metà primavera. Parcheggiò l'auto davanti al muro di cinta del camposanto, poi scese. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori una fiaschetta color argento e diede una generosa sorsata. Il bourbon gli bruciò gola e stomaco ma gli regalò un po' di coraggio. Non c'erano altre auto parcheggiate lì vicino e con un po' di fortuna sarebbe riuscito a evitare l'incontro con altre persone. Non era bravo con le parole, non lo era mai stato. Invece con le mani ci sapeva fare: le sue creazioni, le sue opere, erano in grado di esprimere ciò che lui era meglio della voce.
Spinse il cancello in ferro battuto ed entrò in quel regno di pace. Percorse alcuni metri aggirandosi in un piccolo universo di nomi e date impresse nel marmo. Come ogni volta che entrava in un luogo come quello si chiese con curiosità che cosa avessero fatto in vita tutte quelle persone, i sogni che erano riusciti a realizzare e le delusioni che erano stati costretti a sopportare.
Alla fine del corridoio centrale girò a destra e dopo pochi metri a sinistra, fino a raggiungere la tomba situata in prossimità del vecchio pino. Sulla lapide capeggiava il nome di Gert Fuchs e le date: 14-12-1923 / 28-05-2013.
Davanti a quella tomba Tobias non si pose alcuna domanda. Sapeva già tutto purtroppo. Rimase in silenzio a fissare quel nome per un tempo indefinito. La memoria lo riportò indietro di anni, al tempo in cui Gert lo teneva sulle ginocchia o lo faceva volare in aria con un senso di libertà totale che non aveva mai più provato. Era stato sempre Gert a insegnargli ad andare in bicicletta senza rotelle, e poco importava se durante l'apprendimento era finito a tutta velocità dentro un roseto. Non era stato facile crescere senza un padre e Gert Fuchs aveva fatto del suo meglio per surrogare nel modo migliore quella figura. Prese la fiaschetta e ingollò un altro sorso di fuoco. Ricordare faceva male, ma si trattava di un male necessario. Senza ricordi un uomo non esiste, non è nulla.
«Sei ancora arrabbiato con lui Tobias?»
La voce spezzò il filo dei ricordi facendolo tornare nel mondo reale.
«Mamma, mi hai quasi spaventato» rispose il ragazzo.
«Perché non sei passato da casa? Potevamo venirci insieme a trovarlo, non ti pare?»
«Lo sai come sono fatto mamma. Ti voglio bene, ma parlare di lui non mi riesce tanto facile.»
«Allora è così, porti ancora rancore al nonno.»
«Rancore non è la parola giusta, no davvero. Ma sai anche tu ciò che ha fatto. Sono cose che non si possono dimenticare neppure in cento vite.»
Ada si avvicinò al figlio, gli requisì il liquore e buttò giù un bel sorso. Non era per niente facile parlare di certe cose neppure per lei. Non lo era per nessuno.
«Quelli erano tempi particolari Tobias, non era consigliabile dire di no. Non è come oggi, non si poteva scegliere. Se avesse agito in modo diverso con ogni probabilità io oggi non sarei al mondo. E neppure tu.»
Ingurgitò con una smorfia un'ultima sorsata, poi gli riconsegnò la borraccia. «Non dovresti bere questa roba, non è un granché.»
Una lucertola apparve da dietro una lapide, rimase qualche secondo ad abbrustolirsi al sole, poi un rumore la ricacciò nell'ombra.
«Se ci pensi bene mamma è la vita a non essere un granché. Facciamo un sacco di cose vergognose e abbiamo sempre una scusa pronta per giustificare i nostri errori.»
Detto questo Tobias si avvicinò alla madre, la baciò sulla guancia e poi uscì dal camposanto con passo incerto.
Mentre percorreva la Frankfurter Chaussee in direzione ovest, Tobias non potè fare a meno di pensare a suo nonno e al giorno che aveva rappresentato lo spartiacque tra un passato sereno e un futuro tormentato.
Era la vigilia di Natale del 2011 e come sempre la famiglia si era riunita per le festività. Strausberg era immersa nella neve e faceva un gran freddo. In casa l'atmosfera era serena, ma la festività non era vissuta pienamente come gli anni precedenti. Il corpo del vecchio era già stato attaccato dal male che da lì a poco più di un anno l'avrebbe annientato e un cupo senso di tristezza
era sempre in agguato. Tuttavia se il corpo era malandato, lo stesso non si poteva dire per la mente. La memoria e i ricordi di Gert Fuchs erano ancora vividi, anche se col senno di poi sarebbe stato più pietoso il contrario.
Erano le 22,50 del 24 dicembre 2011 quando Gert aveva iniziato ad aprire i cancelli del passato. Dopo quel giorno per Tobias le cose non sarebbero più state le stesse.
Gert Fuchs fece tintinnare il bicchiere con il coltello e attirò a sé l'attenzione della tavolata. Il suo volto era tirato per la malattia, ma forse era qualcos'altro a tormentarlo veramente. Si inumidì la bocca con un po' d'acqua, poi cominciò a svuotare l'anima e il cuore.
«Miei cari, forse questo sarà l'ultimo Natale che trascorreremo assieme. Ogni giorno che passa sento il corpo sempre più debole e fragile, e credo che alla soglia dei novant'anni questo sia, se non auspicabile, almeno nell'ordine naturale delle cose. Non ho paura di morire, non ne ho mai avuta, neppure quando ero giovane. Spero solo di raggiungere la mia amata che mi ha abbandonato già da tanto tempo. Il fatto è che non sono stato un brav'uomo come voi credete, proprio no.»
Tutti gli occhi dei commensali erano puntati verso il vecchio che, seppur nella sua fragilità, dominava la stanza grazie a un indiscutibile carisma.
«Ve l'ho detto, penso di essere arrivato agli sgoccioli, e proprio per questo sento il bisogno di liberarmi di un peso, solo per provare l'illusione di andarmene in serenità.» Gert fece una pausa, si schiarì la voce, poi riprese.
«Per voi il nazismo è uno spiacevole periodo studiato sui libri di storia, un concetto del passato morto e sepolto. Per me invece rappresenta un segmento di vita di cui non vado fiero. Sono stato un caporale delle SS e sino al giorno della sua liberazione da parte dei russi, ho servito la causa nel campo di concentramento di Auschwitz. Devo essere sincero, all'inizio credevo nell'ideologia nazionalsocialista, mi affascinava, poi però è innegabile che le cose siano decisamente sfuggite di mano.»
L'atmosfera nella stanza da festosa si era fatta pesante, opprimente. Il vecchio parlava e ognuno dei presenti pendeva dalle sue labbra.
«Lasciate perdere i libri, i documentari, le ricostruzioni, i filmati d'epoca. Ciò che accadde è impossibile da capire per chi non l'ha vissuto in prima persona. Anzi, io stesso ancora non riesco a comprendere appieno quello che è successo. Fu come se tutto l'orrore del mondo si fosse riversato dalla nostra nazione sul resto d'Europa. Auschwitz era il centro del male, il nucleo di quell'orrore, e io ci vivevo dentro. Come un recluso, alla stregua di un ebreo o di un prigioniero politico, solo che ancora non lo sapevo. Fucilazioni, camere a gas, forni crematori, esperimenti disumani, soprusi fisici e psicologici di ogni genere: questo era il campo. Vi sembrerà strano, ma la cosa che più mi sconvolse là dentro fu la pratica del tatuaggio. Non perché fosse particolarmente cruenta o dolorosa, ma per il significato intrinseco del rituale. La marchiatura era lì per convincere i prigionieri che non erano affatto persone, ma cose senza dignità, oggetti da catalogare, bestiame da numerare per poi essere mandato al macello. Quell'inchiostro del male serviva a togliere loro ogni sorta di speranza e ad annientare quelle povere anime. Serviva a cancellare identità, relegarle nell'oblio.»
Il vecchio si fermò come se dovesse riprendere fiato. Le sue mani tremavano, gli occhi persi nel vuoto. Ada, preoccupata, si avvicinò all'anziano padre, ma lui la fermò e le indicò la sedia dove era seduta.
«E poi c'è stato il bambino. Al campo tutti dovevano essere marchiati, uomini, donne, vecchi e pure i bambini. Quasi tutti i piccoli piangevano durante il tatuaggio, però solitamente era questione di pochi minuti. Ma con lui non c'è stato nulla da fare, continuava a frignare senza dare segni di cedimento. La cosa irritò non poco lo Scharfuhrer Koepke che si
trovava lì vicino. Con un ghigno da iena sul viso mi intimò bruscamente di farlo tacere. Feci finta di non aver capito e cercai di calmare il bambino come potevo. Koepke rise. Ricordo ancora quel suono orribile, sembrava la risata del diavolo in persona. Poi indicò la mia pistola. Cercai di obiettare qualcosa, ma lui si irrigidì e mi urlò in faccia di eseguire l'ordine. Cosa potevo fare? Sì, avrei potuto rifiutare e andare incontro alle conseguenze del caso, ma vigliaccamente non lo feci. Estrassi la pistola dalla fondina ed eseguii l'ordine. Sparai in testa al bambino e subito dopo uccisi anche il padre che cercò di avventarsi su di me. Non ho mai saputo il nome di quella creatura innocente. Ricordo solo che sul piccolo braccio bianco latte spiccava il numero 39587. Lo Scharfuhrer sottolineò la mia obbedienza con lo stesso folle sorriso che avevo visto in precedenza, poi si allontanò fischiettando un allegro motivetto che conosceva soltanto lui.»
Gert Fuchs venne interrotto dal pianto di Niklas, un suo pronipote.
Tobias fissò il figlio di suo fratello e cominciò a tremare. Ciò che aveva appena udito lo aveva scosso. Anzi, l'associazione dei due pianti che si erano sovrapposti l'uno sull'altro a distanza di decenni, gli fece gelare il sangue. Immaginò che a esplodere potesse essere la testa di suo nipote e non quella di uno sconosciuto bimbetto ebreo colpevole di chissà quale colpa. Si alzò in piedi e lanciò uno sguardo pieno di disprezzo all'uomo che praticamente lo aveva cresciuto. Aprì la bocca per esprimere tutta la sua rabbia, il suo rincrescimento, il suo dolore, ma non riuscì a dire niente. Come aveva potuto rendersi protagonista di un episodio così spregevole suo nonno? E lui come poteva accettare una cosa del genere? Come poteva sopportare l'idea che la persona più importante della sua vita dopo la madre, l'uomo che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, potesse avere ucciso un bambino a sangue freddo? Come poteva riuscirci senza rischiare di impazzire? Squadrò un'ultima volta il vecchio, giurando a se stesso che non l'avrebbe mai più rivisto, poi uscì senza salutare nessuno.
Tobias parcheggiò l'auto nel garage di casa, poi si diresse a piedi verso il negozio. Il nonno era ancora nella sua testa e non poteva essere altrimenti.
Era ancora incazzato con lui? Erano passati sei anni dalla sua morte e probabilmente la rabbia era ormai smaltita. Forse ora covava solo un senso di delusione che non riusciva ancora a dissipare. Certe volte pensava di essere stato troppo duro con Gert, nel non volerlo più vedere neppure negli ultimi attimi della sua esistenza. Il fatto era che lui al suo posto non avrebbe eseguito l'ordine, piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Di questo era sicuro, non aveva il minimo dubbio. Suo nonno invece, il suo eroe, aveva fatto la scelta contraria e quando una persona che stimi, che ami, si comporta in maniera orribile è più difficile perdonare. Dopo quella particolare vigilia di Natale del 2011 però un'idea assurda gli si era insinuata nella testa e come un minatore aveva cominciato a scavare un tunnel nelle fondamenta delle sue sicurezze. Dopo qualche settimana l'idea si era trasformata in ferrea convinzione, per cui aveva abbandonato i corsi d'architettura all'università. Non sarebbe diventato un architetto, bensì un tatuatore. Suo nonno e quelli del suo clan malato imprimevano la pelle per annullare la dignità e l'identità dell'altro. Lui invece avrebbe adoperato l'inchiostro per esaltare le differenze di ognuno, per attestare l'unicità di ogni singolo individuo, per affermare l'elogio dell'individualismo contro la piattezza dell'omologazione.
Raggiunse il suo studio nei pressi di Rosenthaler Strasse poco prima della mezza, dopo circa venti minuti di camminata a passo spedito. Lo stomaco all'improvvisò brontolò e si rese conto di non avere ancora pranzato. Consumò un panino veloce e un the freddo in un bar lì vicino, poi entrò nel suo regno.
Lo studio era piccolo ma accogliente. Sulle pareti facevano bella mostra i suoi lavori più apprezzati. Erano più di tre anni che si era messo in proprio e oggi, alla soglia dei trent'anni, era uno dei tatuatori più conosciuti di tutta Berlino. Guardò l'orologio. Mancava ancora mezz'ora al primo e unico appuntamento di quel pomeriggio. Si trattava della quinta e ultima seduta del tatuaggio di Erich. Quel ragazzo gli stava sulle palle, tanto che in un primo momento aveva pensato di rifiutarsi di tatuarlo.
Per ingannare l'attesa prese l'album fotografico che raccoglieva tutti i suoi lavori e cominciò a sfogliare le pagine. Sembrava incredibile, ma ricordava chiaramente ogni singolo tatuaggio che aveva eseguito nella sua vita: visi, nomi, frasi d'amore, passi della bibbia, personaggi dei fumetti, mostri, cantanti, attori, oggetti. Ricordava tutto. I suoi clienti erano abbastanza originali ma nel complesso avevano buon gusto. Erano sporadiche le richieste che a lui parevano assurde. Il tatuaggio più strano lo aveva eseguito su una ragazza dai capelli rossi che aveva voluto imprimersi un'aspirapolvere sul fianco destro. Lei era rimasta soddisfatta e lui non aveva osato chiedere il significato di quel tatuaggio. Meglio non approfondire. E comunque ognuno poteva decorare la propria pelle come meglio credeva.
Alle due precise Erich entrò nello studio. Era raggiante.
«Finalmente oggi lo finiamo, vero Tobias?»
«Certo. Manca l'ultimo tocco e poi lo potrai mostrare a tutti.»
Erich si tolse la maglietta e la poggiò sulla sedia. Un'enorme svastica era tatuata sul petto in prossimità del cuore. Tutte le volte che la vedeva Tobias sentiva perdere un battito del suo di cuore. Chi mai poteva aver realizzato quell'obbrobrio?
«Davvero non vedo l'ora. La mia ragazza dice che sta venendo benissimo. I miei amici impazziranno. E poi immagino già la faccia che farà qualche ebreo nel vederlo. Faccia di cazzo, naturalmente.» Erich rise a quella che doveva essere una battuta di spirito, ma Tobias non gli diede soddisfazione.
Si mise i guanti, poi raggiunse il cliente che si era già sdraiato a pancia in giù sul lettino. La metà bassa della schiena era occupata dal disegno della facciata del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, quella dove i binari della morte vanno incontro all'apertura degli orrori del novecento. Tutto attorno aveva realizzato dei recinti sormontati da filo spinato e in mezzo, sopra alla torretta centrale, a mò di croce aveva sistemato due mitragliatori MP 40 sui quali dominava un teschio stilizzato.
Per quella parte di lavoro c'erano volute quattro sessioni. Ora mancava solo di coprire la parte alta della schiena con la scritta.
Tobias azionò la macchinetta e cominciò a tracciare. Il ronzio era ipnotico, un anestetico per i pensieri. Gli aghi entravano e uscivano dal derma come in uno strano rapporto sessuale tra corpo e macchina, graffiante e seducente.
Erich non si lamentava, non l'aveva mai fatto in nessuna di quelle sedute. A Tobias non sarebbe dispiaciuto vederlo sofferente, tanto che in più di un'occasione si era visualizzato come un serial killer intento a iniettare in quel corpo sostanze tossiche e venefiche. Di sicuro non sarebbero stati in tanti a piangere la scomparsa di una così grande testa di cazzo. ORGOGLIO SENZA FINE. Questa era la frase che doveva tatuare sopra al disegno. Il fatto era che lui aveva un'idea migliore per completare l'opera. Dopo poco più di due ore Tobias si tolse i guanti, ufficializzando la fine della sessione.
«Abbiamo terminato» disse rivolgendosi al cliente. «Vuoi vedere come è venuto?»
Erich disse di sì, pieno d'eccitazione. È il caso di dire che non stava più nella pelle. Tobias lo accompagnò davanti allo specchio, poi raggiunse la cassettiera della scrivania dove teneva il blocco delle ricevute.
Il ragazzo stava sorridendo, poi quando vide la sua schiena riflessa il sorriso affogò in un mare di rabbia e disperazione.
«Ma che cazzo hai combinato? Io ti rompo il culo!»
Sopra la rappresentazione del campo di sterminio troneggiava la scritta VERGOGNA SENZA FINE. Le lettere erano in carattere gotico, armoniose, suggestive. La parola vergogna era in inchiostro rosso ed era sottolineata tre volte con dei graffi dello stesso colore. Spiccava come un bianco in una finale dei cento metri. Una nota di colore in un oceano nero.
«A me piace molto di più così. Lo trovo più veritiero, tu no?»
Erich avanzò minaccioso, una maschera d'odio a deturpargli il viso, ma Tobias non mosse ciglio. Tirò fuori dal cassetto della scrivania una pistola e gliela puntò contro. Il naziskin si bloccò sorpreso, mentre il tatuatore si alzava e gli infilava l'arma nella bocca.
«Dai, fammi un favore, dammi una scusa per usarla. C'è un bambino senza nome che aspetta da più di settant'anni di essere vendicato. E non solo lui.»
L'espressione d'odio sparì dal volto di Erich; adesso c'era solo paura.
«Non preoccuparti, se non ti piace non ti faccio pagare nulla. Non voglio i tuoi soldi.»
Detto questo lo fece girare, poi prese il cellulare e fotografò la sua opera.
«Sono davvero soddisfatto. Questo è senza dubbio il mio capolavoro.» Tobias fece un altro paio di foto, poi rise di gusto.
«Lo sai che non finisce qui, vero?» disse Erich con voce cupa.
«Lo so, ma per alcune cose vale ancora la pena di combattere.» Tobias lo fissò per alcuni interminabili secondi, poi lo allontanò. Lo vide uscire dal negozio in quella che sembrò essere una grottesca rivisitazione del passo
dell'oca. Una volta in strada Erich si voltò e gli mostrò il dito medio.
Per un istante il suo viso si confuse con quello di Gert Fuchs, ma si trattò soltanto di una spiacevole suggestione.
Spinse il cancello in ferro battuto ed entrò in quel regno di pace. Percorse alcuni metri aggirandosi in un piccolo universo di nomi e date impresse nel marmo. Come ogni volta che entrava in un luogo come quello si chiese con curiosità che cosa avessero fatto in vita tutte quelle persone, i sogni che erano riusciti a realizzare e le delusioni che erano stati costretti a sopportare.
Alla fine del corridoio centrale girò a destra e dopo pochi metri a sinistra, fino a raggiungere la tomba situata in prossimità del vecchio pino. Sulla lapide capeggiava il nome di Gert Fuchs e le date: 14-12-1923 / 28-05-2013.
Davanti a quella tomba Tobias non si pose alcuna domanda. Sapeva già tutto purtroppo. Rimase in silenzio a fissare quel nome per un tempo indefinito. La memoria lo riportò indietro di anni, al tempo in cui Gert lo teneva sulle ginocchia o lo faceva volare in aria con un senso di libertà totale che non aveva mai più provato. Era stato sempre Gert a insegnargli ad andare in bicicletta senza rotelle, e poco importava se durante l'apprendimento era finito a tutta velocità dentro un roseto. Non era stato facile crescere senza un padre e Gert Fuchs aveva fatto del suo meglio per surrogare nel modo migliore quella figura. Prese la fiaschetta e ingollò un altro sorso di fuoco. Ricordare faceva male, ma si trattava di un male necessario. Senza ricordi un uomo non esiste, non è nulla.
«Sei ancora arrabbiato con lui Tobias?»
La voce spezzò il filo dei ricordi facendolo tornare nel mondo reale.
«Mamma, mi hai quasi spaventato» rispose il ragazzo.
«Perché non sei passato da casa? Potevamo venirci insieme a trovarlo, non ti pare?»
«Lo sai come sono fatto mamma. Ti voglio bene, ma parlare di lui non mi riesce tanto facile.»
«Allora è così, porti ancora rancore al nonno.»
«Rancore non è la parola giusta, no davvero. Ma sai anche tu ciò che ha fatto. Sono cose che non si possono dimenticare neppure in cento vite.»
Ada si avvicinò al figlio, gli requisì il liquore e buttò giù un bel sorso. Non era per niente facile parlare di certe cose neppure per lei. Non lo era per nessuno.
«Quelli erano tempi particolari Tobias, non era consigliabile dire di no. Non è come oggi, non si poteva scegliere. Se avesse agito in modo diverso con ogni probabilità io oggi non sarei al mondo. E neppure tu.»
Ingurgitò con una smorfia un'ultima sorsata, poi gli riconsegnò la borraccia. «Non dovresti bere questa roba, non è un granché.»
Una lucertola apparve da dietro una lapide, rimase qualche secondo ad abbrustolirsi al sole, poi un rumore la ricacciò nell'ombra.
«Se ci pensi bene mamma è la vita a non essere un granché. Facciamo un sacco di cose vergognose e abbiamo sempre una scusa pronta per giustificare i nostri errori.»
Detto questo Tobias si avvicinò alla madre, la baciò sulla guancia e poi uscì dal camposanto con passo incerto.
Mentre percorreva la Frankfurter Chaussee in direzione ovest, Tobias non potè fare a meno di pensare a suo nonno e al giorno che aveva rappresentato lo spartiacque tra un passato sereno e un futuro tormentato.
Era la vigilia di Natale del 2011 e come sempre la famiglia si era riunita per le festività. Strausberg era immersa nella neve e faceva un gran freddo. In casa l'atmosfera era serena, ma la festività non era vissuta pienamente come gli anni precedenti. Il corpo del vecchio era già stato attaccato dal male che da lì a poco più di un anno l'avrebbe annientato e un cupo senso di tristezza
era sempre in agguato. Tuttavia se il corpo era malandato, lo stesso non si poteva dire per la mente. La memoria e i ricordi di Gert Fuchs erano ancora vividi, anche se col senno di poi sarebbe stato più pietoso il contrario.
Erano le 22,50 del 24 dicembre 2011 quando Gert aveva iniziato ad aprire i cancelli del passato. Dopo quel giorno per Tobias le cose non sarebbero più state le stesse.
Gert Fuchs fece tintinnare il bicchiere con il coltello e attirò a sé l'attenzione della tavolata. Il suo volto era tirato per la malattia, ma forse era qualcos'altro a tormentarlo veramente. Si inumidì la bocca con un po' d'acqua, poi cominciò a svuotare l'anima e il cuore.
«Miei cari, forse questo sarà l'ultimo Natale che trascorreremo assieme. Ogni giorno che passa sento il corpo sempre più debole e fragile, e credo che alla soglia dei novant'anni questo sia, se non auspicabile, almeno nell'ordine naturale delle cose. Non ho paura di morire, non ne ho mai avuta, neppure quando ero giovane. Spero solo di raggiungere la mia amata che mi ha abbandonato già da tanto tempo. Il fatto è che non sono stato un brav'uomo come voi credete, proprio no.»
Tutti gli occhi dei commensali erano puntati verso il vecchio che, seppur nella sua fragilità, dominava la stanza grazie a un indiscutibile carisma.
«Ve l'ho detto, penso di essere arrivato agli sgoccioli, e proprio per questo sento il bisogno di liberarmi di un peso, solo per provare l'illusione di andarmene in serenità.» Gert fece una pausa, si schiarì la voce, poi riprese.
«Per voi il nazismo è uno spiacevole periodo studiato sui libri di storia, un concetto del passato morto e sepolto. Per me invece rappresenta un segmento di vita di cui non vado fiero. Sono stato un caporale delle SS e sino al giorno della sua liberazione da parte dei russi, ho servito la causa nel campo di concentramento di Auschwitz. Devo essere sincero, all'inizio credevo nell'ideologia nazionalsocialista, mi affascinava, poi però è innegabile che le cose siano decisamente sfuggite di mano.»
L'atmosfera nella stanza da festosa si era fatta pesante, opprimente. Il vecchio parlava e ognuno dei presenti pendeva dalle sue labbra.
«Lasciate perdere i libri, i documentari, le ricostruzioni, i filmati d'epoca. Ciò che accadde è impossibile da capire per chi non l'ha vissuto in prima persona. Anzi, io stesso ancora non riesco a comprendere appieno quello che è successo. Fu come se tutto l'orrore del mondo si fosse riversato dalla nostra nazione sul resto d'Europa. Auschwitz era il centro del male, il nucleo di quell'orrore, e io ci vivevo dentro. Come un recluso, alla stregua di un ebreo o di un prigioniero politico, solo che ancora non lo sapevo. Fucilazioni, camere a gas, forni crematori, esperimenti disumani, soprusi fisici e psicologici di ogni genere: questo era il campo. Vi sembrerà strano, ma la cosa che più mi sconvolse là dentro fu la pratica del tatuaggio. Non perché fosse particolarmente cruenta o dolorosa, ma per il significato intrinseco del rituale. La marchiatura era lì per convincere i prigionieri che non erano affatto persone, ma cose senza dignità, oggetti da catalogare, bestiame da numerare per poi essere mandato al macello. Quell'inchiostro del male serviva a togliere loro ogni sorta di speranza e ad annientare quelle povere anime. Serviva a cancellare identità, relegarle nell'oblio.»
Il vecchio si fermò come se dovesse riprendere fiato. Le sue mani tremavano, gli occhi persi nel vuoto. Ada, preoccupata, si avvicinò all'anziano padre, ma lui la fermò e le indicò la sedia dove era seduta.
«E poi c'è stato il bambino. Al campo tutti dovevano essere marchiati, uomini, donne, vecchi e pure i bambini. Quasi tutti i piccoli piangevano durante il tatuaggio, però solitamente era questione di pochi minuti. Ma con lui non c'è stato nulla da fare, continuava a frignare senza dare segni di cedimento. La cosa irritò non poco lo Scharfuhrer Koepke che si
trovava lì vicino. Con un ghigno da iena sul viso mi intimò bruscamente di farlo tacere. Feci finta di non aver capito e cercai di calmare il bambino come potevo. Koepke rise. Ricordo ancora quel suono orribile, sembrava la risata del diavolo in persona. Poi indicò la mia pistola. Cercai di obiettare qualcosa, ma lui si irrigidì e mi urlò in faccia di eseguire l'ordine. Cosa potevo fare? Sì, avrei potuto rifiutare e andare incontro alle conseguenze del caso, ma vigliaccamente non lo feci. Estrassi la pistola dalla fondina ed eseguii l'ordine. Sparai in testa al bambino e subito dopo uccisi anche il padre che cercò di avventarsi su di me. Non ho mai saputo il nome di quella creatura innocente. Ricordo solo che sul piccolo braccio bianco latte spiccava il numero 39587. Lo Scharfuhrer sottolineò la mia obbedienza con lo stesso folle sorriso che avevo visto in precedenza, poi si allontanò fischiettando un allegro motivetto che conosceva soltanto lui.»
Gert Fuchs venne interrotto dal pianto di Niklas, un suo pronipote.
Tobias fissò il figlio di suo fratello e cominciò a tremare. Ciò che aveva appena udito lo aveva scosso. Anzi, l'associazione dei due pianti che si erano sovrapposti l'uno sull'altro a distanza di decenni, gli fece gelare il sangue. Immaginò che a esplodere potesse essere la testa di suo nipote e non quella di uno sconosciuto bimbetto ebreo colpevole di chissà quale colpa. Si alzò in piedi e lanciò uno sguardo pieno di disprezzo all'uomo che praticamente lo aveva cresciuto. Aprì la bocca per esprimere tutta la sua rabbia, il suo rincrescimento, il suo dolore, ma non riuscì a dire niente. Come aveva potuto rendersi protagonista di un episodio così spregevole suo nonno? E lui come poteva accettare una cosa del genere? Come poteva sopportare l'idea che la persona più importante della sua vita dopo la madre, l'uomo che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, potesse avere ucciso un bambino a sangue freddo? Come poteva riuscirci senza rischiare di impazzire? Squadrò un'ultima volta il vecchio, giurando a se stesso che non l'avrebbe mai più rivisto, poi uscì senza salutare nessuno.
Tobias parcheggiò l'auto nel garage di casa, poi si diresse a piedi verso il negozio. Il nonno era ancora nella sua testa e non poteva essere altrimenti.
Era ancora incazzato con lui? Erano passati sei anni dalla sua morte e probabilmente la rabbia era ormai smaltita. Forse ora covava solo un senso di delusione che non riusciva ancora a dissipare. Certe volte pensava di essere stato troppo duro con Gert, nel non volerlo più vedere neppure negli ultimi attimi della sua esistenza. Il fatto era che lui al suo posto non avrebbe eseguito l'ordine, piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Di questo era sicuro, non aveva il minimo dubbio. Suo nonno invece, il suo eroe, aveva fatto la scelta contraria e quando una persona che stimi, che ami, si comporta in maniera orribile è più difficile perdonare. Dopo quella particolare vigilia di Natale del 2011 però un'idea assurda gli si era insinuata nella testa e come un minatore aveva cominciato a scavare un tunnel nelle fondamenta delle sue sicurezze. Dopo qualche settimana l'idea si era trasformata in ferrea convinzione, per cui aveva abbandonato i corsi d'architettura all'università. Non sarebbe diventato un architetto, bensì un tatuatore. Suo nonno e quelli del suo clan malato imprimevano la pelle per annullare la dignità e l'identità dell'altro. Lui invece avrebbe adoperato l'inchiostro per esaltare le differenze di ognuno, per attestare l'unicità di ogni singolo individuo, per affermare l'elogio dell'individualismo contro la piattezza dell'omologazione.
Raggiunse il suo studio nei pressi di Rosenthaler Strasse poco prima della mezza, dopo circa venti minuti di camminata a passo spedito. Lo stomaco all'improvvisò brontolò e si rese conto di non avere ancora pranzato. Consumò un panino veloce e un the freddo in un bar lì vicino, poi entrò nel suo regno.
Lo studio era piccolo ma accogliente. Sulle pareti facevano bella mostra i suoi lavori più apprezzati. Erano più di tre anni che si era messo in proprio e oggi, alla soglia dei trent'anni, era uno dei tatuatori più conosciuti di tutta Berlino. Guardò l'orologio. Mancava ancora mezz'ora al primo e unico appuntamento di quel pomeriggio. Si trattava della quinta e ultima seduta del tatuaggio di Erich. Quel ragazzo gli stava sulle palle, tanto che in un primo momento aveva pensato di rifiutarsi di tatuarlo.
Per ingannare l'attesa prese l'album fotografico che raccoglieva tutti i suoi lavori e cominciò a sfogliare le pagine. Sembrava incredibile, ma ricordava chiaramente ogni singolo tatuaggio che aveva eseguito nella sua vita: visi, nomi, frasi d'amore, passi della bibbia, personaggi dei fumetti, mostri, cantanti, attori, oggetti. Ricordava tutto. I suoi clienti erano abbastanza originali ma nel complesso avevano buon gusto. Erano sporadiche le richieste che a lui parevano assurde. Il tatuaggio più strano lo aveva eseguito su una ragazza dai capelli rossi che aveva voluto imprimersi un'aspirapolvere sul fianco destro. Lei era rimasta soddisfatta e lui non aveva osato chiedere il significato di quel tatuaggio. Meglio non approfondire. E comunque ognuno poteva decorare la propria pelle come meglio credeva.
Alle due precise Erich entrò nello studio. Era raggiante.
«Finalmente oggi lo finiamo, vero Tobias?»
«Certo. Manca l'ultimo tocco e poi lo potrai mostrare a tutti.»
Erich si tolse la maglietta e la poggiò sulla sedia. Un'enorme svastica era tatuata sul petto in prossimità del cuore. Tutte le volte che la vedeva Tobias sentiva perdere un battito del suo di cuore. Chi mai poteva aver realizzato quell'obbrobrio?
«Davvero non vedo l'ora. La mia ragazza dice che sta venendo benissimo. I miei amici impazziranno. E poi immagino già la faccia che farà qualche ebreo nel vederlo. Faccia di cazzo, naturalmente.» Erich rise a quella che doveva essere una battuta di spirito, ma Tobias non gli diede soddisfazione.
Si mise i guanti, poi raggiunse il cliente che si era già sdraiato a pancia in giù sul lettino. La metà bassa della schiena era occupata dal disegno della facciata del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, quella dove i binari della morte vanno incontro all'apertura degli orrori del novecento. Tutto attorno aveva realizzato dei recinti sormontati da filo spinato e in mezzo, sopra alla torretta centrale, a mò di croce aveva sistemato due mitragliatori MP 40 sui quali dominava un teschio stilizzato.
Per quella parte di lavoro c'erano volute quattro sessioni. Ora mancava solo di coprire la parte alta della schiena con la scritta.
Tobias azionò la macchinetta e cominciò a tracciare. Il ronzio era ipnotico, un anestetico per i pensieri. Gli aghi entravano e uscivano dal derma come in uno strano rapporto sessuale tra corpo e macchina, graffiante e seducente.
Erich non si lamentava, non l'aveva mai fatto in nessuna di quelle sedute. A Tobias non sarebbe dispiaciuto vederlo sofferente, tanto che in più di un'occasione si era visualizzato come un serial killer intento a iniettare in quel corpo sostanze tossiche e venefiche. Di sicuro non sarebbero stati in tanti a piangere la scomparsa di una così grande testa di cazzo. ORGOGLIO SENZA FINE. Questa era la frase che doveva tatuare sopra al disegno. Il fatto era che lui aveva un'idea migliore per completare l'opera. Dopo poco più di due ore Tobias si tolse i guanti, ufficializzando la fine della sessione.
«Abbiamo terminato» disse rivolgendosi al cliente. «Vuoi vedere come è venuto?»
Erich disse di sì, pieno d'eccitazione. È il caso di dire che non stava più nella pelle. Tobias lo accompagnò davanti allo specchio, poi raggiunse la cassettiera della scrivania dove teneva il blocco delle ricevute.
Il ragazzo stava sorridendo, poi quando vide la sua schiena riflessa il sorriso affogò in un mare di rabbia e disperazione.
«Ma che cazzo hai combinato? Io ti rompo il culo!»
Sopra la rappresentazione del campo di sterminio troneggiava la scritta VERGOGNA SENZA FINE. Le lettere erano in carattere gotico, armoniose, suggestive. La parola vergogna era in inchiostro rosso ed era sottolineata tre volte con dei graffi dello stesso colore. Spiccava come un bianco in una finale dei cento metri. Una nota di colore in un oceano nero.
«A me piace molto di più così. Lo trovo più veritiero, tu no?»
Erich avanzò minaccioso, una maschera d'odio a deturpargli il viso, ma Tobias non mosse ciglio. Tirò fuori dal cassetto della scrivania una pistola e gliela puntò contro. Il naziskin si bloccò sorpreso, mentre il tatuatore si alzava e gli infilava l'arma nella bocca.
«Dai, fammi un favore, dammi una scusa per usarla. C'è un bambino senza nome che aspetta da più di settant'anni di essere vendicato. E non solo lui.»
L'espressione d'odio sparì dal volto di Erich; adesso c'era solo paura.
«Non preoccuparti, se non ti piace non ti faccio pagare nulla. Non voglio i tuoi soldi.»
Detto questo lo fece girare, poi prese il cellulare e fotografò la sua opera.
«Sono davvero soddisfatto. Questo è senza dubbio il mio capolavoro.» Tobias fece un altro paio di foto, poi rise di gusto.
«Lo sai che non finisce qui, vero?» disse Erich con voce cupa.
«Lo so, ma per alcune cose vale ancora la pena di combattere.» Tobias lo fissò per alcuni interminabili secondi, poi lo allontanò. Lo vide uscire dal negozio in quella che sembrò essere una grottesca rivisitazione del passo
dell'oca. Una volta in strada Erich si voltò e gli mostrò il dito medio.
Per un istante il suo viso si confuse con quello di Gert Fuchs, ma si trattò soltanto di una spiacevole suggestione.
Ultima modifica di Byron.RN il Sab Feb 06, 2021 3:51 pm - modificato 1 volta.