«Allora, hai capito cosa ti ho detto?»
Sergio si ridestò, posò il giornale e puntò lo sguardo verso colei che tra pochi giorni sarebbe diventata sua moglie. All’interno della cornice della porta del salotto, col suo elegante tailleur nero e appena un filo di trucco per fare risaltare gli occhi verdi e gli zigomi scolpiti, Manuela rasentava la perfezione, icona assoluta di bellezza e fascino. Tuttavia in quel frangente per Sergio poco sarebbe cambiato se al posto della sua bellissima fidanzata ci fosse stata una vecchia senza denti o un muratore lardoso con la canottiera sporca di sugo.
«Insomma, hai capito sì o no?» riprese la donna. «È importante. Se non riesci a passare te ci vado io.»
«Vacci tu» riuscì a rispondere in modo meccanico. Non aveva capito un accidente di ciò che gli aveva detto, fatta eccezione per l’ultima frase. Non sapeva dove sarebbe dovuto andare e in quel momento gli interessava meno di zero.
«Va bé, ho capito. Ma che hai fatto stamattina? Pare che hai visto un fantasma» disse dando un’occhiata all’orologio e scappando via di corsa.
Sergio chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. No, non aveva visto un fantasma, ma poco ci mancava. Sulla pagina della cronaca locale aveva letto della morte di Gigio. L’articolo raccontava che si era buttato sotto un treno e c’era pure una foto della sua carrozzina tutta accartocciata sui binari.
Erano anni che non ci pensava più, ma a causa di quell’articolo di giornale tutto era tornato a galla per filo e per segno. Parola per parola. Inghiottì un blocco di saliva, poi prese il telefono e chiamò Tiziano.
«Hai letto la notizia?» chiese senza neppure salutare.
«Buongiorno eh?» rispose Tiziano, sbadigliando come un cavernicolo. «Quale notizia? Di che parli?»
«Gigio è morto. Si è buttato sotto un treno.»
Per qualche secondo il silenzio inghiottì i loro pensieri.
«Cazzo» disse sottovoce Tiziano. Non era da lui usare un quantitativo di decibel inferiore a quello del passaggio di un camion sulla tangenziale.
«Già» confermò Sergio.
Il silenzio scese nuovamente tra i due: nessuno voleva affrontare apertamente la questione. Pensieri e ricordi poco piacevoli galleggiavano nelle insenature del tempo, generando vibrazioni corrosive.
«Dai, è stato tanto tempo fa.» Fu ancora Tiziano a rompere quella stasi disturbante. «Ora è tutto finito, non vale la pena tormentarsi.»
«O forse tutto comincia adesso» gridò Sergio in preda a una crisi di nervi.
«Non fare così...» iniziò Tiziano prima di essere interrotto.
«È facile per te, tanto è a me che l'ha giurata quel maledetto giorno di quasi venti anni fa.»
«Non dire cazzate, anche io ero là, sono colpevole quanto te.»
«Sappiamo tutti e due che le cose non stanno esattamente così. E anche Gigio lo sa, lo ha sempre saputo. Ero io quello che si divertiva a tormentarlo, tu eri solo il coglione che mi veniva dietro per elemosinare un po' della mia amicizia.
Sergio pensò a ciò che aveva appena detto, poi riprese a parlare. «Scusami, non mi sono espresso bene, ma hai capito ciò che volevo dire, vero?»
«Certo, non preoccuparti. E poi hai ragione, ero un coglione che elemosinava l'amicizia del duro della scuola. Sergio, dimmi la verità, da quant'è che non pensavi a lui, prima di oggi?»
«Erano anni, avevo dimenticato ogni cosa, non so come cazzo sia potuto succedere. Poi oggi col giornale tutto mi è ritornato davanti agli occhi. Anche per te è così?»
«Sì, anche per me... Almeno lo è stato fino alla settimana scorsa, il giorno del tuo addio al celibato.»
«Perché, cosa è successo?»
«Non lo so Sergio, è tutto confuso. Quando la mattina sono rientrato a casa devo averlo sognato, Gigio dico, ma non ricordo cosa facesse di preciso. Ti ricordi quanto cazzo abbiamo bevuto, no? Ero sfatto duro. Comunque mi pare che ridesse, era felice.»
«Tutto qua? Rideva?»
«Sì, rideva e batteva le mani. E poi...Pronunciava il tuo nome.»
Sergio chiuse la comunicazione e si accasciò sulla sedia. Sopra al tavolo il giornale era ancora aperto sulla pagina della cronaca locale. A qualche chilometro di distanza, dall'altra parte della città, Tiziano cominciò a tremare. Prese un bicchiere e si versò due dita di vodka. Non era vero che non rammentava il sogno, il fatto è che non lo voleva ricordare. Ricordare era troppo spaventoso, si poteva anche rischiare d'impazzire.
È l'ultimo giorno di scuola e Sergio se ne sta dall'altro lato della strada, sole in faccia e sigaretta in bocca. L'aria d'inizio giugno è calda ma non opprimente, si sta davvero bene e sembra che nulla possa andare storto.
Alza la mano e chiama a sé Tiziano. Hanno legato subito loro due, Tiziano stravede per lui. Sergio ha quattordici anni, è stato bocciato una volta alle elementari e una in prima media, Tiziano invece di anni ne ha dodici, il suo percorso scolastico immacolato.
«Guardalo là quel topo, mi sta sui coglioni. Lo odio» dice Sergio indicando Fabio davanti al cancello della scuola. Seduto sulla carrozzina gira la testa a destra e a sinistra, cercando d'individuare la mamma e la sorellina tra la marea di genitori venuti a riprendere i propri figli.
«Ho avuto un'idea» dice all'improvviso Sergio. «Vieni con me.»
Attraversano la strada e in pochi secondi sono davanti a Fabio.
«Ciao Gigio, come ti butta?» dice Sergio con un ghigno diabolico sul viso.
«Punto primo il mio nome è Fabio, non Gigio. Punto secondo, che diavolo volete da me?» risponde sprezzante il ragazzo. Quei due gli hanno dato il tormento tutto l'anno, sin dal primo giorno in cui ha messo piede nella loro classe, ma lui non ha paura di loro, è uno che non si piega. Non c'è riuscito l'incidente, figurarsi due stupidi bulletti.
«E no, il tuo nome è Gigio. Orecchie a sventola, due bei dentoni sul davanti, un po' di peluria sul labbro...Ma non ce l'hai uno specchio a casa? Sembra proprio un topo, vero Tiziano?»
Mentre l'amico se la ride, Sergio impugna i manici della carrozzina e si defila da quel caos fatto di adulti chiassosi e ragazzini urlanti.
«Ehi, brutti stronzi, lasciatemi andare. Dove mi portate?» protesta Fabio.
Lì vicino, a poche centinaia di metri dalla scuola, c'è un vecchio edificio abbandonato, ritrovo di drogati e sbandati; con poca fantasia i ragazzi del quartiere l'hanno battezzato “la casa maledetta”. Il rudere si trova alla fine di una stradina senza uscita, immersa perennemente nell'ombra e nel silenzio. Alla fine degli anni '50 una donna ha sgozzato il marito e i tre figli piccoli, poi ha ingoiato del veleno per topi mettendo fine anche alla propria esistenza. Non è strano che nessuno abbia più voluto abitare lì, la cosa insolita è che a distanza di quasi quarant'anni l'edificio sia ancora in piedi, senza che qualcuno abbia pensato di raderlo al suolo.
«Qui non ci disturberà nessuno» dice Sergio con gli occhi iniettati di sangue. Ora Fabio ha paura, forse è colpa della strana atmosfera che emana quella casa, oppure è lo sguardo folle di Sergio, comunque cerca di non darlo a vedere, deve continuare a mantenere il controllo.
«Insomma, riportatemi subito indietro. Mia madre sarà già diventata matta dalla preoccupazione.»
«Non sei nella posizione di dare ordini a qualcuno, lurido sorcio» afferma Sergio, sbottonandosi i pantaloni e cominciando a pisciargli addosso. Fabio sgrana gli occhi e grida il suo sdegno: è la prima volta che quel bullo manifesta con tanta cattiveria il suo disprezzo. Anche Tiziano è sbalordito, rimane a guardare in disparte con un sorriso ebete a dipingergli il volto.
«Scusa, ma era un po' che la tenevo» continua Sergio, prima di scoppiare a ridere. Per un momento traffica con le tasche dei jeans, poi tira fuori un coltello a serramanico. «Vedi, il fatto è che vogliamo solo divertirci un pochino. Con le vacanze estive staremo più di tre mesi senza vederci e io non voglio che tu ti dimentichi di noi.»
Appena la lama fuoriesce, la mano di Sergio scatta veloce, disegnando una linea rossa appena sotto l'occhio sinistro di Fabio. Il ragazzo urla per il dolore e porta subito le mani al viso. Vedendo le dite colorarsi di sangue il panico comincia a prendere il sopravvento.
«Ti prego Sergio, smettila, lasciami andare» sibila con un filo di voce. La sua è una preghiera intima, accompagnata dal pianto.
«Tiziano, ora tocca a te» prosegue Sergio, indifferente, porgendo il coltello al compare. Tiziano ora non sorride più come uno scemo. È preoccupato.
«Sergio, ma che hai fatto?» esclama ritraendo la mano. «Dai, andiamo via, prima che finisca male.»
«Via? Ma se abbiamo appena cominciato! Non fare il vigliacco, prendi il coltello e sfregialo.
Tiziano scuote la testa e indietreggia di qualche metro, le mani celate dietro la schiena.
«Sei un cacasotto, Tiziano. È facile, guarda» non ha ancora terminato la frase che è già partito con un nuovo fendente. Questa volta la coltellata raggiunge Fabio sulla punta del naso: un lembo di carne ora gli pende in modo grottesco e innaturale, come la buccia di un frutto dalla sua polpa.
Fabio piange come un vitellino da latte, dimenandosi sopra la sua gabbia con le ruote. Il sangue gli cola sul labbro sormontato dai pelucchi della pubertà, poi in bocca, facendogli conoscere il suo sapore ferroso, quindi sul mento. Dal mento alcune gocce scivolano giù, andando a chiazzare la maglietta bianca decorata con la stampa di Dragon Ball.
«Dai, andiamo via, prima che arrivi qualcuno» gli dice Tiziano, tirandolo per un braccio. Sergio però non è ancora soddisfatto e scaraventa l'amico a terra, avvicinandosi poi alla sua vittima.
«Mi raccomando, questa storia deve rimanere tra noi» gli sussurra all'orecchio. Fabio singhiozza in silenzio, gli occhi chiusi, il mento appoggiato sul petto. «So dove abiti. Se fai la spia ci vendicheremo con tua sorella e la tua mammina, riserveremo loro un trattamento speciale. Non ci sarà nessuno a difenderle, tuo padre se n'è andato per la vergogna di aver generato un mostro come te, non è così?»
«Sergio, guarda!» esclama all'improvviso Tiziano.
Dal fondo della stanza, dal nero dell'ombra, si stacca una forma rossa. Non ha consistenza, è una sorta di alone, una bolla che fluttua nell'aria. Sergio e Tiziano indietreggiano impauriti, mentre la forma avanza sino a inglobare il corpo di Fabio. A quel punto il ragazzo si solleva dalla carrozzina, non si alza in piedi, ma galleggia per aria, avvolto in quella bolla vermiglia.
Non singhiozza più, ora i suoi occhi sono rossi, ogni molecola del suo corpo è del colore del sangue. Sergio e Tiziano sono sulla porta, immobili come statue di sale.
«Non preoccuparti piccolo schifoso, non dirò nulla» dice Fabio, rivolgendosi al suo aguzzino, «ma ricorda una cosa, quando il mio cuore cesserà di battere io tornerò per banchettare con la tua anima.»
Sergio spense la luce e appoggiò la testa sul cuscino. Erano tre notti che praticamente non chiudeva occhio, da quando aveva letto la notizia del suicidio di Gigio. Aveva paura, anzi, era terrorizzato. Quella minaccia di tanto tempo fa gli bruciava nel cervello, impedendogli di dormire. Ricorda una cosa, quando il mio cuore cesserà di battere io tornerò per banchettare con la tua anima, così aveva detto Gigio, prima che lui e Tiziano fuggissero a gambe levate da quella casa. Allungò la mano verso la parte del letto che solitamente occupava Manuela, stringendo la sua assenza. Come da tradizione la sposa, il giorno prima del matrimonio, avrebbe trascorso l'ultima notte da nubile a casa dei genitori. Si lasciò scappare un sorriso: e se alla fine fossero state tutte cazzate? Di cosa aveva paura? In fondo Gigio era morto già da qualche giorno e non era successo un bel niente. Solo i pazzi e gli stupidi credevano ai fantasmi e lui non faceva parte di nessuna delle due categorie. Guardò i numeri rossi della radiosveglia sopra il comò che segnavano le 01:24, poi chiuse gli occhi. Doveva cercare di dormire almeno qualche ora, altrimenti si sarebbe fatto ricordare come lo sposo più sfatto della storia. Cercò di rilassarsi, pensando a Manuela e alla loro felicità.
Quando riaprì gli occhi la radiosveglia indicava le tre in punto. Restò lì a contemplarla, stupito per essersi svegliato soltanto dopo un'ora e mezza. Provò a girarsi dall'altro lato, senza riuscirci. Tentò allora di sollevare la testa, ma i muscoli non risposero, bloccati in una colata di cemento e paura. Preso dal panico aprì la bocca per lanciare un'istintiva richiesta d'aiuto, ma anche le corde vocali erano paralizzate. Intorno a lui e dentro di lui solo buio e terrore, davanti agli occhi solo quattro cifre, 03:00. Quei numeri all'improvviso iniziarono a traballare, a prendere vita, arrivando persino a uscire dal quadrante dell'apparecchio. Come sottili linee di fumo volarono verso l'alto, sparendo dalla vista di Sergio che ancora non era in grado di fare alcun movimento. Danzarono come ballerini invisibili lungo il perimetro oscuro del soffitto, contraendosi e dilatandosi, per poi scendere nuovamente verso il basso, trovando la pace in una forma mutevole e vibrante. Sergio, in preda alla disperazione più totale, vedeva quella cosa a pochi centimetri dal suo volto, trasformarsi e cambiare, torcersi e ricompattarsi, come un blocco di plastilina trasparente nelle mani di un sadico artista: in principio sembrava il viso sofferente di un uomo, poi l'uomo spariva per lasciare spazio a tre bambini, uno più piccolo dell'altro, tre innocenti straziati dal dolore. Fu quindi la volta di una donna tremenda, senza naso, senza occhi e con una bocca enorme dalla quale usciva una schiuma rossa e bianca.
Sergio allo stremo serrò gli occhi, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo impazzito. La donna dalla bocca schiumante intanto era ancora lì davanti a lui, impegnata in una sorta di folle e macabro tip tap, coi piedi che schiaffeggiavano il pavimento a un ritmo innaturale, i lunghi capelli di sangue a coprirle l'orrido viso.
«Hai visto? Ora tu sei lì inchiodato, mentre io posso muovermi liberamente» disse la donna. Quella però non era una voce femminile. No, non lo era affatto. Sergio riaprì gli occhi e si ritrovò davanti Gigio: aveva ancora la ferita sotto l'occhio che sanguinava e il naso squarciato sulla punta.
«Sai che c'è? Non ti posso vedere così» disse Gigio, toccando il suo vecchio aguzzino sulla testa. A quel tocco Sergio, come per magia, riacquistò l'uso del proprio corpo e si spostò sull'altro lato del letto, cercando di allontanarsi dal suo passato. Col viso distorto da un ghigno infernale Gigio saltò sul materasso e riprese il suo tip tap diabolico, coi piedi muti che scivolavano sulla coperta e i denti famelici che sbattevano l'uno sull'altro.
«Ogni promessa è debito. Ora ti mangio l'anima, ora ti mangio l'anima, ora ti mangio l'anima...»
Il padre di Manuela e Tiziano entrarono in quella camera poco dopo le undici. Sergio era steso sul letto, la faccia grigia come cenere e la pelle rugosa come quella di una prugna. La maglietta era alzata e sul petto erano presenti decine di segni di morsicatura. I due uomini si fissarono increduli, poi Tiziano riportò gli occhi su quei segni di denti e cominciò a tremare.
Sergio si ridestò, posò il giornale e puntò lo sguardo verso colei che tra pochi giorni sarebbe diventata sua moglie. All’interno della cornice della porta del salotto, col suo elegante tailleur nero e appena un filo di trucco per fare risaltare gli occhi verdi e gli zigomi scolpiti, Manuela rasentava la perfezione, icona assoluta di bellezza e fascino. Tuttavia in quel frangente per Sergio poco sarebbe cambiato se al posto della sua bellissima fidanzata ci fosse stata una vecchia senza denti o un muratore lardoso con la canottiera sporca di sugo.
«Insomma, hai capito sì o no?» riprese la donna. «È importante. Se non riesci a passare te ci vado io.»
«Vacci tu» riuscì a rispondere in modo meccanico. Non aveva capito un accidente di ciò che gli aveva detto, fatta eccezione per l’ultima frase. Non sapeva dove sarebbe dovuto andare e in quel momento gli interessava meno di zero.
«Va bé, ho capito. Ma che hai fatto stamattina? Pare che hai visto un fantasma» disse dando un’occhiata all’orologio e scappando via di corsa.
Sergio chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. No, non aveva visto un fantasma, ma poco ci mancava. Sulla pagina della cronaca locale aveva letto della morte di Gigio. L’articolo raccontava che si era buttato sotto un treno e c’era pure una foto della sua carrozzina tutta accartocciata sui binari.
Erano anni che non ci pensava più, ma a causa di quell’articolo di giornale tutto era tornato a galla per filo e per segno. Parola per parola. Inghiottì un blocco di saliva, poi prese il telefono e chiamò Tiziano.
«Hai letto la notizia?» chiese senza neppure salutare.
«Buongiorno eh?» rispose Tiziano, sbadigliando come un cavernicolo. «Quale notizia? Di che parli?»
«Gigio è morto. Si è buttato sotto un treno.»
Per qualche secondo il silenzio inghiottì i loro pensieri.
«Cazzo» disse sottovoce Tiziano. Non era da lui usare un quantitativo di decibel inferiore a quello del passaggio di un camion sulla tangenziale.
«Già» confermò Sergio.
Il silenzio scese nuovamente tra i due: nessuno voleva affrontare apertamente la questione. Pensieri e ricordi poco piacevoli galleggiavano nelle insenature del tempo, generando vibrazioni corrosive.
«Dai, è stato tanto tempo fa.» Fu ancora Tiziano a rompere quella stasi disturbante. «Ora è tutto finito, non vale la pena tormentarsi.»
«O forse tutto comincia adesso» gridò Sergio in preda a una crisi di nervi.
«Non fare così...» iniziò Tiziano prima di essere interrotto.
«È facile per te, tanto è a me che l'ha giurata quel maledetto giorno di quasi venti anni fa.»
«Non dire cazzate, anche io ero là, sono colpevole quanto te.»
«Sappiamo tutti e due che le cose non stanno esattamente così. E anche Gigio lo sa, lo ha sempre saputo. Ero io quello che si divertiva a tormentarlo, tu eri solo il coglione che mi veniva dietro per elemosinare un po' della mia amicizia.
Sergio pensò a ciò che aveva appena detto, poi riprese a parlare. «Scusami, non mi sono espresso bene, ma hai capito ciò che volevo dire, vero?»
«Certo, non preoccuparti. E poi hai ragione, ero un coglione che elemosinava l'amicizia del duro della scuola. Sergio, dimmi la verità, da quant'è che non pensavi a lui, prima di oggi?»
«Erano anni, avevo dimenticato ogni cosa, non so come cazzo sia potuto succedere. Poi oggi col giornale tutto mi è ritornato davanti agli occhi. Anche per te è così?»
«Sì, anche per me... Almeno lo è stato fino alla settimana scorsa, il giorno del tuo addio al celibato.»
«Perché, cosa è successo?»
«Non lo so Sergio, è tutto confuso. Quando la mattina sono rientrato a casa devo averlo sognato, Gigio dico, ma non ricordo cosa facesse di preciso. Ti ricordi quanto cazzo abbiamo bevuto, no? Ero sfatto duro. Comunque mi pare che ridesse, era felice.»
«Tutto qua? Rideva?»
«Sì, rideva e batteva le mani. E poi...Pronunciava il tuo nome.»
Sergio chiuse la comunicazione e si accasciò sulla sedia. Sopra al tavolo il giornale era ancora aperto sulla pagina della cronaca locale. A qualche chilometro di distanza, dall'altra parte della città, Tiziano cominciò a tremare. Prese un bicchiere e si versò due dita di vodka. Non era vero che non rammentava il sogno, il fatto è che non lo voleva ricordare. Ricordare era troppo spaventoso, si poteva anche rischiare d'impazzire.
È l'ultimo giorno di scuola e Sergio se ne sta dall'altro lato della strada, sole in faccia e sigaretta in bocca. L'aria d'inizio giugno è calda ma non opprimente, si sta davvero bene e sembra che nulla possa andare storto.
Alza la mano e chiama a sé Tiziano. Hanno legato subito loro due, Tiziano stravede per lui. Sergio ha quattordici anni, è stato bocciato una volta alle elementari e una in prima media, Tiziano invece di anni ne ha dodici, il suo percorso scolastico immacolato.
«Guardalo là quel topo, mi sta sui coglioni. Lo odio» dice Sergio indicando Fabio davanti al cancello della scuola. Seduto sulla carrozzina gira la testa a destra e a sinistra, cercando d'individuare la mamma e la sorellina tra la marea di genitori venuti a riprendere i propri figli.
«Ho avuto un'idea» dice all'improvviso Sergio. «Vieni con me.»
Attraversano la strada e in pochi secondi sono davanti a Fabio.
«Ciao Gigio, come ti butta?» dice Sergio con un ghigno diabolico sul viso.
«Punto primo il mio nome è Fabio, non Gigio. Punto secondo, che diavolo volete da me?» risponde sprezzante il ragazzo. Quei due gli hanno dato il tormento tutto l'anno, sin dal primo giorno in cui ha messo piede nella loro classe, ma lui non ha paura di loro, è uno che non si piega. Non c'è riuscito l'incidente, figurarsi due stupidi bulletti.
«E no, il tuo nome è Gigio. Orecchie a sventola, due bei dentoni sul davanti, un po' di peluria sul labbro...Ma non ce l'hai uno specchio a casa? Sembra proprio un topo, vero Tiziano?»
Mentre l'amico se la ride, Sergio impugna i manici della carrozzina e si defila da quel caos fatto di adulti chiassosi e ragazzini urlanti.
«Ehi, brutti stronzi, lasciatemi andare. Dove mi portate?» protesta Fabio.
Lì vicino, a poche centinaia di metri dalla scuola, c'è un vecchio edificio abbandonato, ritrovo di drogati e sbandati; con poca fantasia i ragazzi del quartiere l'hanno battezzato “la casa maledetta”. Il rudere si trova alla fine di una stradina senza uscita, immersa perennemente nell'ombra e nel silenzio. Alla fine degli anni '50 una donna ha sgozzato il marito e i tre figli piccoli, poi ha ingoiato del veleno per topi mettendo fine anche alla propria esistenza. Non è strano che nessuno abbia più voluto abitare lì, la cosa insolita è che a distanza di quasi quarant'anni l'edificio sia ancora in piedi, senza che qualcuno abbia pensato di raderlo al suolo.
«Qui non ci disturberà nessuno» dice Sergio con gli occhi iniettati di sangue. Ora Fabio ha paura, forse è colpa della strana atmosfera che emana quella casa, oppure è lo sguardo folle di Sergio, comunque cerca di non darlo a vedere, deve continuare a mantenere il controllo.
«Insomma, riportatemi subito indietro. Mia madre sarà già diventata matta dalla preoccupazione.»
«Non sei nella posizione di dare ordini a qualcuno, lurido sorcio» afferma Sergio, sbottonandosi i pantaloni e cominciando a pisciargli addosso. Fabio sgrana gli occhi e grida il suo sdegno: è la prima volta che quel bullo manifesta con tanta cattiveria il suo disprezzo. Anche Tiziano è sbalordito, rimane a guardare in disparte con un sorriso ebete a dipingergli il volto.
«Scusa, ma era un po' che la tenevo» continua Sergio, prima di scoppiare a ridere. Per un momento traffica con le tasche dei jeans, poi tira fuori un coltello a serramanico. «Vedi, il fatto è che vogliamo solo divertirci un pochino. Con le vacanze estive staremo più di tre mesi senza vederci e io non voglio che tu ti dimentichi di noi.»
Appena la lama fuoriesce, la mano di Sergio scatta veloce, disegnando una linea rossa appena sotto l'occhio sinistro di Fabio. Il ragazzo urla per il dolore e porta subito le mani al viso. Vedendo le dite colorarsi di sangue il panico comincia a prendere il sopravvento.
«Ti prego Sergio, smettila, lasciami andare» sibila con un filo di voce. La sua è una preghiera intima, accompagnata dal pianto.
«Tiziano, ora tocca a te» prosegue Sergio, indifferente, porgendo il coltello al compare. Tiziano ora non sorride più come uno scemo. È preoccupato.
«Sergio, ma che hai fatto?» esclama ritraendo la mano. «Dai, andiamo via, prima che finisca male.»
«Via? Ma se abbiamo appena cominciato! Non fare il vigliacco, prendi il coltello e sfregialo.
Tiziano scuote la testa e indietreggia di qualche metro, le mani celate dietro la schiena.
«Sei un cacasotto, Tiziano. È facile, guarda» non ha ancora terminato la frase che è già partito con un nuovo fendente. Questa volta la coltellata raggiunge Fabio sulla punta del naso: un lembo di carne ora gli pende in modo grottesco e innaturale, come la buccia di un frutto dalla sua polpa.
Fabio piange come un vitellino da latte, dimenandosi sopra la sua gabbia con le ruote. Il sangue gli cola sul labbro sormontato dai pelucchi della pubertà, poi in bocca, facendogli conoscere il suo sapore ferroso, quindi sul mento. Dal mento alcune gocce scivolano giù, andando a chiazzare la maglietta bianca decorata con la stampa di Dragon Ball.
«Dai, andiamo via, prima che arrivi qualcuno» gli dice Tiziano, tirandolo per un braccio. Sergio però non è ancora soddisfatto e scaraventa l'amico a terra, avvicinandosi poi alla sua vittima.
«Mi raccomando, questa storia deve rimanere tra noi» gli sussurra all'orecchio. Fabio singhiozza in silenzio, gli occhi chiusi, il mento appoggiato sul petto. «So dove abiti. Se fai la spia ci vendicheremo con tua sorella e la tua mammina, riserveremo loro un trattamento speciale. Non ci sarà nessuno a difenderle, tuo padre se n'è andato per la vergogna di aver generato un mostro come te, non è così?»
«Sergio, guarda!» esclama all'improvviso Tiziano.
Dal fondo della stanza, dal nero dell'ombra, si stacca una forma rossa. Non ha consistenza, è una sorta di alone, una bolla che fluttua nell'aria. Sergio e Tiziano indietreggiano impauriti, mentre la forma avanza sino a inglobare il corpo di Fabio. A quel punto il ragazzo si solleva dalla carrozzina, non si alza in piedi, ma galleggia per aria, avvolto in quella bolla vermiglia.
Non singhiozza più, ora i suoi occhi sono rossi, ogni molecola del suo corpo è del colore del sangue. Sergio e Tiziano sono sulla porta, immobili come statue di sale.
«Non preoccuparti piccolo schifoso, non dirò nulla» dice Fabio, rivolgendosi al suo aguzzino, «ma ricorda una cosa, quando il mio cuore cesserà di battere io tornerò per banchettare con la tua anima.»
Sergio spense la luce e appoggiò la testa sul cuscino. Erano tre notti che praticamente non chiudeva occhio, da quando aveva letto la notizia del suicidio di Gigio. Aveva paura, anzi, era terrorizzato. Quella minaccia di tanto tempo fa gli bruciava nel cervello, impedendogli di dormire. Ricorda una cosa, quando il mio cuore cesserà di battere io tornerò per banchettare con la tua anima, così aveva detto Gigio, prima che lui e Tiziano fuggissero a gambe levate da quella casa. Allungò la mano verso la parte del letto che solitamente occupava Manuela, stringendo la sua assenza. Come da tradizione la sposa, il giorno prima del matrimonio, avrebbe trascorso l'ultima notte da nubile a casa dei genitori. Si lasciò scappare un sorriso: e se alla fine fossero state tutte cazzate? Di cosa aveva paura? In fondo Gigio era morto già da qualche giorno e non era successo un bel niente. Solo i pazzi e gli stupidi credevano ai fantasmi e lui non faceva parte di nessuna delle due categorie. Guardò i numeri rossi della radiosveglia sopra il comò che segnavano le 01:24, poi chiuse gli occhi. Doveva cercare di dormire almeno qualche ora, altrimenti si sarebbe fatto ricordare come lo sposo più sfatto della storia. Cercò di rilassarsi, pensando a Manuela e alla loro felicità.
Quando riaprì gli occhi la radiosveglia indicava le tre in punto. Restò lì a contemplarla, stupito per essersi svegliato soltanto dopo un'ora e mezza. Provò a girarsi dall'altro lato, senza riuscirci. Tentò allora di sollevare la testa, ma i muscoli non risposero, bloccati in una colata di cemento e paura. Preso dal panico aprì la bocca per lanciare un'istintiva richiesta d'aiuto, ma anche le corde vocali erano paralizzate. Intorno a lui e dentro di lui solo buio e terrore, davanti agli occhi solo quattro cifre, 03:00. Quei numeri all'improvviso iniziarono a traballare, a prendere vita, arrivando persino a uscire dal quadrante dell'apparecchio. Come sottili linee di fumo volarono verso l'alto, sparendo dalla vista di Sergio che ancora non era in grado di fare alcun movimento. Danzarono come ballerini invisibili lungo il perimetro oscuro del soffitto, contraendosi e dilatandosi, per poi scendere nuovamente verso il basso, trovando la pace in una forma mutevole e vibrante. Sergio, in preda alla disperazione più totale, vedeva quella cosa a pochi centimetri dal suo volto, trasformarsi e cambiare, torcersi e ricompattarsi, come un blocco di plastilina trasparente nelle mani di un sadico artista: in principio sembrava il viso sofferente di un uomo, poi l'uomo spariva per lasciare spazio a tre bambini, uno più piccolo dell'altro, tre innocenti straziati dal dolore. Fu quindi la volta di una donna tremenda, senza naso, senza occhi e con una bocca enorme dalla quale usciva una schiuma rossa e bianca.
Sergio allo stremo serrò gli occhi, il cuore che gli batteva nel petto come un tamburo impazzito. La donna dalla bocca schiumante intanto era ancora lì davanti a lui, impegnata in una sorta di folle e macabro tip tap, coi piedi che schiaffeggiavano il pavimento a un ritmo innaturale, i lunghi capelli di sangue a coprirle l'orrido viso.
«Hai visto? Ora tu sei lì inchiodato, mentre io posso muovermi liberamente» disse la donna. Quella però non era una voce femminile. No, non lo era affatto. Sergio riaprì gli occhi e si ritrovò davanti Gigio: aveva ancora la ferita sotto l'occhio che sanguinava e il naso squarciato sulla punta.
«Sai che c'è? Non ti posso vedere così» disse Gigio, toccando il suo vecchio aguzzino sulla testa. A quel tocco Sergio, come per magia, riacquistò l'uso del proprio corpo e si spostò sull'altro lato del letto, cercando di allontanarsi dal suo passato. Col viso distorto da un ghigno infernale Gigio saltò sul materasso e riprese il suo tip tap diabolico, coi piedi muti che scivolavano sulla coperta e i denti famelici che sbattevano l'uno sull'altro.
«Ogni promessa è debito. Ora ti mangio l'anima, ora ti mangio l'anima, ora ti mangio l'anima...»
Il padre di Manuela e Tiziano entrarono in quella camera poco dopo le undici. Sergio era steso sul letto, la faccia grigia come cenere e la pelle rugosa come quella di una prugna. La maglietta era alzata e sul petto erano presenti decine di segni di morsicatura. I due uomini si fissarono increduli, poi Tiziano riportò gli occhi su quei segni di denti e cominciò a tremare.